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A scuola meglio il coding o le tabelline? Ecco il giusto equilibrio

Negare il digitale a scuola o trasferire tutta la didattica nella tecnologia? Come sempre la soluzione sta in una equilibrata integrazione. L’importante è non sottovalutare l’importanza della cultura generale e ricordarsi che l’obiettivo della scuola è preparare le nuove generazioni ai lavori dell’industria 4.0

Pubblicato il 18 Apr 2019

Antonio Guadagno

Ingegnere, consulente informatico, docente, formatore

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La “scuola digitale” può rappresentare una formidabile opportunità di crescita, ma alcuni nuclei fondanti della cosiddetta “cultura generale” non possono essere messi in discussione.

Leggere, scrivere e far di conto devono rimanere la pietra angolare sempre e comunque. Ad esempio, riuscirà la generazione dei nati dopo il 2010, per dirne una, a ricordare le tabelline o a svolgere semplici calcoli a memoria?

Coding o non coding, questo è il dilemma

Negli ultimi anni sono nate lodevoli iniziative con l’obiettivo di fornire alle scuole diversi strumenti semplici, divertenti e facilmente utilizzabili per introdurre gli studenti di ogni ordine e grado ai concetti basilari dell’informatica: Programma il Futuro, Code Week, Code.org e così via.

Il Miur, attraverso il Piano Nazione Scuola Digitale (PNSD) e i fondi strutturali europei (PON FSE E FESR), ha promosso una forte sensibilizzazione verso le tematiche del pensiero computazione nel suo complesso. Anche le case editrici del settore scolastico stanno sfornando edizioni legate all’argomento.

Sono nati addirittura interessanti progetti per agevolare il dialogo tra insegnanti e genitori in merito alle attività di coding; esistono ad esempio svariati gruppi Facebook, alcuni molto seguiti, in cui, oltre a un sano scambio di esperienze, si ritrovano, però, autocelebrazioni di docenti per aver creato attività destinate agli alunni.

A tale proposito, come di consuetudine, sono nati due schieramenti ben contrapposti.

Ci sono quelli che hanno fatto del Next Learning, del Coding Unplugged, del CodyFeet un modello educativo “super partes” con un entusiasmo a volte fin troppo acritico; e poi quelli per cui debba esistere una separazione netta e ben definita tra il mondo dei “giochi digitali” e il mondo della cultura educativa.

Alla ricerca di un equilibrio tra i due opposti

Il quesito da risolvere è probabilmente il seguente: negare il digitale a scuola o trasferire tutta la didattica nella tecnologia o, meglio ancora, trovare una soluzione più equilibrata di integrazione?

La meta da raggiungere deve essere quella di preparare le nuove generazioni ai lavori dell’industria 4.0, possibilmente abituando gli alunni fin da piccoli ad acquisire le competenze necessarie per risolvere un problema.
Inoltre non è possibile negare ai nostri ragazzi la loro quotidianità che va oltre le cinque o più ore mattutine; la scuola, in tal senso, ha un dovere educativo teso a sviluppare e “rispettare” tutte le attività cognitive dei ragazzi.

Il fondamento classico dell’educazione, infatti, basato nel ruolo predominante della scuola quale affidataria di conoscenze e valori, risulta ormai obsoleto rispetto ai nuovi scenari di carattere sociale, culturale e tecnologico che si stanno espandendo nell’attuale società postindustriale, focalizzata sulla informazione, comunicazione e conoscenza. Anche la figura del docente sta lentamente cambiando, passando da una gestione magistrale (da magister) della classe a una formazione centrata principalmente sull’alunno, se possibile all’interno di ambienti di apprendimento interattivi.

Il costruzionismo di Papert

Uno degli esponenti principali, specialmente per gli apporti forniti alla didattica e alle tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento è Seymour Papert (l’inventore del linguaggio LOGO), che sviluppò, a metà circa del secolo scorso, la teoria educativa denominata Costruzionismo. Con essa introduce il concetto di “artefatti cognitivi”, ovvero di oggetti o dispositivi che facilitano l’apprendimento alla stessa stregua dei materiali da costruzione: in altre parole, la tecnologia (intesa come coding) si erge ad ambiente di apprendimento in cui i soggetti divengono costruttori del loro sapere.

In tale ottica, l’Indire, attraverso un suo progetto dedicato denominato “Avanguardie educative”, sta lavorando da anni a una graduale trasformazione del modello trasmissivo della scuola. Il manifesto di “Avanguardie educative”, infatti, invita a tener conto delle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dei cambiamenti richiesti dalla società della conoscenza: “Le ICT non sono né ospiti sgraditi né protagonisti. Sono solo i nuovi mezzi con cui è possibile personalizzare i percorsi di apprendimento, rappresentare la conoscenza, ampliare gli orizzonti e le fonti del sapere, condividere e comunicare, sempre e ovunque (mobile learning). Le ICT permettono il nascere di nuove metodologie cooperative di scrittura, lettura e osservazione dei fenomeni; consentono la rappresentazione dei concetti avvalendosi di ambienti di simulazione, di giochi educativi, di applicazioni e software disciplinari.”

L’importanza della “cultura generale”

Il dubbio che molti intellettuali e moltissimi formatori si pongono già da un po’ riguarda il possibile declassamento progressivo di alcune hard-skill ritenute indispensabili: riuscirà la generazione dei nati dopo il 2010 a ricordare le tabelline o a svolgere semplici calcoli a memoria? Saprà associare i capoluoghi di provincia a ogni regione o individuare, senza alcun algoritmo di ricerca, a quale continente appartiene una nazione? Riuscirà a riconoscere una parola tronca da una piana, sdrucciola o bisdrucciola? E ancora, saprà orientarsi nel collocare sulla linea del tempo i principali fatti o eventi storici?

Alcuni promotori dell’introduzione “a prescindere” della tecnologia la sovrappongono ai concetti di senso critico, creatività, cittadinanza. Quando, in questi casi, si va al dunque del lavoro prodotto, ci si rende conto che una parte di tali “buone pratiche” risulta di una banalità impressionante.

Altri, invece, per rimanere al passo associano alla propria lezione l’utilizzo dei media e dei linguaggi digitali, in interazione fra loro, creando, forse inconsapevolmente, una rivisitazione di facciata della vecchia didattica: l’insegnamento frontale accompagnato da una presentazione multimediale o da un filmato di Youtube non cambia la sostanza delle cose.

Quante immagini abbiamo visto sui social network di insegnanti che espongono i cosiddetti “pixel art” dei propri allievi? Molti, non necessariamente docenti e che hanno superato gli anta, ricordano che anch’essi facevano pressappoco le stesse cose con un semplice quaderno a quadretti, senza che la maestra (o il maestro) avesse conseguito certificazioni di alcun genere.

Per sfruttare al meglio i nuovi strumenti informatici, occorre allora avere ben chiaro un obiettivo di apprendimento reale e significativo che tenga legate le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente del Consiglio dell’Unione Europea: la soluzione di problemi. Diventa quindi opportuno anticipare la comprensione della logica della rete e delle tecnologie, avvicinando da subito gli studenti al problem solving e al pensiero computazionale, promuovendo attività di coding e robotica educativa fin dalle scuole primarie.

Insomma il digitale, nell’accezione più ampia, è una grande risorsa, ma non può essere considerato il “paracetamolo” per tutti i malanni della scuola; è chiaro però che ciascun attore debba avere un approccio senza dogmi e senza esaltazioni personali.

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