il libro

Senza pensiero critico non c’è “buona Scuola”: ecco perché

L’ottimo programma basato sulla trasformazione degli allievi da fruitori a creatori di attività nel mondo digitale non deve prescindere da una conoscenza delle nostre competenze logiche naturali e dei loro vincoli. Altrimenti la simulazione artificiale delle nostre competenze cognitive rischia di basarsi su un complesso di competenze trasversali che non tiene abbastanza conto delle nostre reali capacità e dei nostri limiti nel praticare “la buona logica”

Pubblicato il 10 Nov 2015

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Il piano per la buona Scuola è centrato sulla comprensione critica delle tecnologie digitali con l’obiettivo di rendere “creatori”, e non solo “fruitori digitali”, gli studenti, gli insegnanti e, in futuro, i cittadini. A questo scopo è importante analizzare non solo il funzionamento delle tecnologie, ma anche quello della mente umana che deve apprendere le strategie cognitive per poi poter interagire con queste tecnologie.

Per questa comprensione è essenziale disporre di quelle competenze trasversali che abbiamo chiamato “buona logica” e che, nei paesi anglosassoni, sono comprese sotto il termine-ombrello “pensiero critico”. Se è vero che, in termini molto generali, i computer elaborano informazioni come fa la mente umana, è altrettanto vero che i computer non sono disturbati da quell’omuncolo di cui ci parla Roberto Casati sul Domenicale del Sole24Ore dell’8 novembre.

L’omuncolo che ci disturba non è altro che quel complesso di intuizioni e di pre-giudizi – nel senso letterale di giudizi dati troppo presto, in modo precipitoso – che ci portano in modi sistematici e prevedibili fuori strada. Spesso non basta neppure conoscerne bene il funzionamento per poterne prevenire gli effetti. Questa difficile “prevenzione” è dovuta alla forza e alla sistematicità con cui l’omuncolo ci porta fuori strada. Solo l’esercizio assiduo con gli strumenti della cassetta degli attrezzi che va sotto il nome di “buona logica” ci permette di creare quell’interfaccia tra la mente naturale e le sue simulazioni che è un elemento cruciale dell’agenda digitale.

Spesso si sente parlare di scuola digitale, e se ne parla anche in un articolo approfondito su Agenda Digitale. Ma a che punto siamo veramente?

Una prima distinzione tra i vari strumenti contenuti nella cassetta della “buona logica” è la distinzione tra processi induttivi e processi deduttivi.

Ecco un caso celebre di processo induttivo. Esso viene ricordato nei suoi libri dallo studioso del pensiero di origine britannica Philip Johnson-Laird. Egli racconta quel che gli successe da giovane, la prima volta che giunse in Italia, alla fine degli anni Sessanta. Entrò in un bar per prendere un caffè. Si fece largo tra la folla e chiese, in un italiano stentato, a uno dei baristi: “Un cappuccino, per favore”. L’uomo fece cenno di rivolgersi altrove. Johnson-Laird, nel frattempo, vide che le persone, in attesa di essere servite, avevano un bigliettino in mano e lo consegnavano ai baristi. Nessuno pagava al bancone. Egli concluse così che si pagava da qualche altra parte. Si guardò intorno. Vide una cassa: tutti facevano la fila. Capì come funzionavano da noi molti bar. Questo sistema, ancora oggi in uso in Italia, era, per Johnson-Laird, sconcertante, una novità assoluta. I suoi ragionamenti furono probabilmente più rapidi del tempo usato qui per descriverli. Johnson-Laird aveva compiuto quelle che tecnicamente si chiamano induzioni. Si tratta di ragionamenti che producono generalizzazioni sulla base di casi singoli, singole esperienze, ma che non conducono a conclusioni necessarie come nel caso dei ragionamenti deduttivi corretti.

Una componente rilevante della buona logica consiste nell’imparare a fare induzioni in modo corretto, superando le ben note distorsioni cognitive sistematiche che sono esposte in dettaglio nel nostro libro a partire dall’analisi di casi stilizzati e rappresentativi, casi cioè che non fanno capo a esperienze passate, come nel caso della storia appena raccontata. In questa storia molte induzioni erano state fatte per ricavare la conclusione che si doveva pagare preventivamente alla cassa. Anzitutto, le esperienze fatte in precedenza dallo psicologo britannico non avevano mostrato alcuna forma di ostilità nei suoi confronti da parte degli italiani. Perché mai il barista avrebbe dovuto trattarlo male? Forse perché straniero? Improbabile e poco giustificato. Johnson-Laird si rese così conto che nei bar italiani, a differenza di quelli inglesi, prima si paga, e poi si ordina e si consuma. Era una generalizzazione che si applicava a un numero indefinito di bar italiani, ma era stata ricavata dall’esame di un caso singolo, per l’appunto il primo caso incontrato.

Un altro strumento della “buona logica” potente e duttile permette di produrre conoscenze di fronte a situazioni nuove grazie al ricorso all’analogia. Come nel caso delle induzioni, le analogie non garantiscono conclusioni certe bensì probabili. Eppure, sono uno degli strumenti del pensiero che utilizziamo più spesso, e talvolta possono condurre a soluzioni creative dei problemi.

Poniamo di trovarci nella necessità di svitare alla svelta una vite, e di non avere a disposizione un cacciavite. Vi può venire in mente che nel cassetto della cucina c’è un coltello spuntato. Ecco: è utilizzabile uno strumento con un manico, quindi con una buona presa e a punta piatta, inseribile nella testa della vite. Potete così sfruttare una funzione invariante, condivisa da un cacciavite a taglio e da un coltello spuntato: con entrambi si può svitare qualcosa. Questo esempio del coltello/cacciavite è un caso di ricerca di soluzione a un problema basato sul cosiddetto ragionamento analogico. Molti problemi della buona logica funzionano in questo modo, e nel nostro libro ne offriamo vari esempi. Tutti comunque obbediscono a questa struttura e procedura:

  • usiamo come sorgente la conoscenza specifica di un certo dominio, il cacciavite a taglio,
  • la trasferiamo a un dominio diverso, i coltelli spuntati,
  • grazie all’invarianza di funzioni, raggiungiamo il nostro obiettivo: svitare pur non avendo a disposizione un cacciavite a taglio.

Ecco un altro esempio adatto all’Agenda digitale: consideriamo i modi in cui si può proteggere dai virus un computer, cioè una macchina artificiale fatta di sabbia, petrolio e metalli. In campo medico sono stati sviluppati dei vaccini per proteggere gli uomini da infezioni virali. Lo stesso si può fare costruendo programmi per computer che abbiano un’analoga funzione protettiva. Ovviamente, ci sono differenze tra i virus dei computer e i vaccini biologici. Un virus non provoca a un computer la febbre. E tuttavia la struttura del ragionamento è trasferibile proprio in forza dell’analogia: entrambi sono contagiosi, entrambi possono replicarsi una volta che siano ospitati nella macchina o nell’uomo, entrambi possono causare danni all’ospite. Se vogliamo quindi costruire un’analogia tra due fenomeni, dobbiamo trasferire una struttura di conoscenze da un sistema noto (in questo caso i virus biologici) a un sistema nuovo (in questo caso i virus dei computer).

Più specificatamente, cinque sotto-processi caratterizzano il ragionamento analogico condotto secondo “la buona logica”:

  1. Recupero: va tenuto nella memoria di lavoro un bersaglio (i virus dei computer), mentre si accede a un caso più familiare che troviamo nella memoria a lungo termine (dove sono depositate le informazioni sui virus biologici).
  2. Corrispondenze: tenendo nella memoria di lavoro sia la sorgente (virus biologici) sia il bersaglio (virus informatici), bisogna allineare sorgente e bersaglio. La mente costruisce, per così dire, un ponte che poggia sulle proprietà che sorgente e bersaglio hanno in comune: contagioso, replicante, dannoso.
  3. Valutazione: decidere se l’analogia è utilizzabile ed efficace.
  4. Astrazione: isolare le invarianti tra sorgente e obiettivo.
  5. Spiegazione e predizione: sviluppare ipotesi sul comportamento o sulle caratteristiche del bersaglio basandosi su quello che si sa della sorgente (per esempio, sul modo di nascondersi dei virus allo scopo di replicarsi sia negli organismi sia nei computer).

Per insegnare gli strumenti della buona logica si possono utilizzare altri esempi e storie. Un caso classico racconta di un generale che progetta di attaccare la fortezza di un dittatore. Varie strade convergono verso la fortezza, ma il dittatore le mina tutte, in modo che il passaggio di un’armata pesante farebbe esplodere le mine. Il generale, sapendolo, escogita una soluzione efficace: divide la sua armata in piccoli gruppi leggeri, disperdendoli per tutte le strade di accesso. In questo modo i soldati arrivano salvi alla fortezza e, attaccandola da tutti i lati, catturano il dittatore.

Un’altra storia racconta di un paziente con un tumore allo stomaco. Si tratta di eliminare il tumore con una macchina che emette raggi laser. Se un singolo raggio potente fosse indirizzato verso il tumore, anche il resto dello stomaco sarebbe distrutto, data l’eccessiva forza di penetrazione del laser. La soluzione consiste nel frazionare la potenza in più raggi, inviati da diversi punti, in modo che tutti convergano proprio sulla zona tumorale eliminandola, senza intaccare il resto dei tessuti. Così come il generale distribuisce le forze per attaccare da più punti la fortezza, qualcosa del genere avviene anche, nel secondo problema, per distruggere il tumore.

Non trattiamo qui i ragionamenti deduttivi perché sono analizzati a lungo nella nostra “Buona Logica” (Raffaello Cortina Editore). Vorremmo, però, da ultimo soffermarci su un esempio in cui deduzioni logiche errate si coniugano con pregiudizi e stereotipi nel campo delle cure mediche. Un errore classico è quello relativo all’uso dei vaccini. Esso si basa sulla fallacia consistente nell’accettare delle premesse vere, cioè che alcuni trattamenti farmacologici sono stati isolati partendo da estratti naturali. Si giunge poi erroneamente a inferire che alcuni premi Nobel per la medicina riconoscono che si possono curare le malattie infettive con trattamenti naturali.

Recenti ricerche descrivono in dettaglio un fenomeno che è molto diffuso, l’ansietà di fronte allo studio della matematica (cfr. Wang et al., ottobre 2015, Psychological Science). Da queste ricerche emerge che lo studio di semplici problemi logici non ha questi effetti collaterali negativi e che la loro analisi è una buona prevenzione a fronte di tale diffusa ansietà. Superata poi, grazie a questa familiarità preliminare con le strutture logiche, la soglia di difficoltà dei ragionamenti considerati ostici “a priori”, proprio perché “formali”, l’introduzione agli algoritmi elementari, così rilevante per gli ambienti virtuali di apprendimento, diviene più facile e può trasformarsi in un gioco appassionante.

In conclusione, a nostro avviso, l’ottimo programma basato sulla trasformazione degli allievi da fruitori a creatori di attività nel mondo digitale non deve prescindere da una conoscenza delle nostre competenze logiche naturali e dei loro vincoli. Altrimenti la simulazione artificiale delle nostre competenze cognitive rischia di basarsi su un complesso di competenze trasversali che non tiene abbastanza conto delle nostre reali capacità e dei nostri limiti nel praticare “la buona logica”.

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