il confronto

Alienati o imbecilli? Prove di dialogo su tecnica e umanità (ma anche su destra e sinistra)

Un dialogo/confronto su alienazione, lavoro, dati e tecnologia sviluppato dal filosofo Maurizio Ferraris e dal sociologo Lelio Demichelis. La prima giornata: tecnica e umanità

Pubblicato il 24 Mag 2019

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

digital alienation

Lelio Demichelis. Ti scrivo a proposito dei tuoi ultimi contributi usciti su agendadigitale.eu e su Repubblica. A parte alcune tue affermazioni che mi hanno lasciato basito – come: “Non si è mai prodotta così tanta umanità come oggi, non si è mai stati così attenti all’umanità come oggi. E quello che avviene sul web ne è la forma più evidente” – ci sono però alcune cose sulle quali, come sociologo che si occupa in particolare di lavoro e di organizzazioni, vi sono appunto sostanziali differenze.

Maurizio Ferraris. Perché ti ha basito il fatto che oggi siamo nel mondo più umano che la storia abbia conosciuto? Torno in dettaglio su questo punto nella quarta giornata, per il momento mi limito a qualche suggestione. Pensa l’Atene di Socrate e la condizione della donna a quei tempi, l’analfabetismo diffuso, le superstizioni anche tra le persone colte, la vita mediamente breve e piena di traversie (che rendeva desiderabile abbandonarla con serenità). E pensa alla Parigi di Proust: l’antisemitismo diffuso e non condannato pubblicamente (oggi lo è, e non è una religione di stato); il disprezzo per l’omosessualità; una differenza abissale di gusti e cultura fra il popolo e la classe agiata. Come negare che non siamo mai stati così attenti alle espressioni dei sentimenti altrui (pensa ai social), alle sorti del pianeta e degli animali, ai valori dell’empatia… Un qualsiasi leader degli anni Quaranta del secolo scorso, sia esso Churchill, Stalin o Roosevelt, apparirebbe inaccettabile e inumano: maschilisti, donnaioli, ubriaconi, razzisti… Loro erano tutto questo. Noi non lo siamo più. Neppure Salvini può permettersi di esserlo.

L.D. Basito: perché non è con i social che diventiamo umani o che siamo attenti alle espressioni dei sentimenti altrui, semmai usiamo i social come forma di espressione/manifestazione del nostro narcisismo e della nostra egolatria; perché anche oggi vedo girare antisemitismo e soprattutto bullismo (Salvini docet); perché non si sono mai visti così tanti femminicidi e cyberbullismo; perché non basta un po’ di economia circolare per risollevare le sorti del pianeta, ma servirebbe modificare proprio quella logica del consumismo e dell’innovazione tecnica a prescindere dalla sua utilità sociale che porta a distruggere per produrre nuovamente; perché il tecno-capitalismo è incapace di concepire e di attuare il concetto di limite e di responsabilità verso le future generazioni – una forma di disumanità verso figli e nipoti; perché il tecno-capitalismo violenta l’ambiente e perché violenti verso le future generazioni (ancora) sono i negazionisti del cambiamento climatico e chi non si ribella a questo meccanismo; siamo disumani perché non comprendiamo, tanto siamo infatuati di tecnica, che la tecno-sfera confligge con la bio-sfera ed è illusorio pensare di risolvere con più tecnica i problemi creati dalla tecnica (Anders); perché il lavoro è tornato ad essere una merce, per di più low cost, da diritto che era; perché siamo disumani verso i migranti impedendone l’arrivo o nascondendoli nei lager libici e siamo disumani distinguendoli tra economici e politici; siamo disumani perché stiamo riducendo progressivamente i diritti sociali, i soli che permettono una cittadinanza non solo de iure quanto de facto; perché siamo sempre meno umani e sempre più virtuali, mentre occorrerebbe re-incantare l’ambiente naturale sottraendolo al riduzionismo tecnico e alla banalizzazione turistica. Non mi serve risalire fino all’Atene di Socrate (anche se Socrate resta un modello), mi basta confrontare l’oggi con trenta o quaranta anni fa. E distinguere tra ragione illuministica (di cui, per me, il principio di responsabilità e il principio di precauzione sono parte integrante), dalla irrazionale e disumana ragione strumentale-calcolante del tecno-capitalismo. E ritrovare quella vera condivisione che si chiama solidarietà: che produce benessere collettivo e non profitto privato per pochi o estrazione di valore per il capitale/piattaforme. Oggi nessuno scriverebbe una Costituzione sociale e solidale (cioè umana, umanistica) come quella italiana, mentre servirebbe rileggerla e applicarla.

M.F. Per motivi che mi par superfluo ricordare, mi stupirebbe trovare del cyberbullismo nell’antichità. Quanto ai femminicidi, sicuramente ce n’erano: per esempio, i roghi in cui un capo defunto veniva bruciato con le concubine, la lapidazione delle adultere che ancora guardiamo con raccapriccio, e che non sembra causata dal tecno-capitalismo. Oggi siamo diventati più sensibili, e i femminicidi di cui si parla sono la conseguenza (lo dice ogni psicologo) della emancipazione femminile, non accettata da certi maschi. Se ci sono degli arretrati rispetto al progresso, vuol dire che c’è un progresso, o sbaglio?

E c’è qualcosa che esula davvero dalla tecnica? La filosofia è una tecnica, proprio come lo sono la politica (la basilikè techne di cui parla Platone), l’arte, e tutto ciò che di buono ha fatto l’umanità, a cominciare dall’umanità stessa, che nasce dall’incontro fra i bisogni di un organismo che ha tanti fini e pochi mezzi e le risposte di un meccanismo che ha tanti mezzi ma nessun fine in sé. Se vediamo un castoro che abbatte un albero con i denti, sappiamo che quello è il suo fine. Se vediamo una motosega, non pensiamo (a meno che siamo afflitti da un pernicioso animismo) che abbia intenzione di abbattere alberi. Ma un umano che, in quanto organismo, ha delle intenzioni, può servirsene per abbattere un albero, visto che non ha denti buoni come quelli del castoro. Dunque, è molto semplice: l’organismo ha dei fini; la tecnica, in quanto meccanismo, fornisce i mezzi; e l’umano è l’incontro fra un organismo non particolarmente dotato e dei mezzi tecnici (motoseghe e trattati di metafisica) che rimediano alle insufficienze dell’organismo. Coloro che parlano della tecnica come alienazione dell’umano, come un apparato che lo sommerge di mezzi e lo priva di fini, lo fanno partendo da una immagine idealizzata dell’umano come bravo ragazzo traviato dalla tecnica. Ma non è così: se uno si gioca tutti i suoi beni a poker, la colpa è sua, non delle carte. Del pari, se uno scrive scemenze sul web la colpa è prima di tutto sua, in subordine di chi l’ha educato (o non educato), e mai, proprio mai, del web, per lo stesso argomento delle carte citato un momento fa.

L.D. Tu pensi a una tecnica come mezzo neutro nella libera disposizione dell’uomo, ma questa tecnica non esiste più. Oggi l’accrescimento della tecnica come apparato – così come del profitto capitalista – sono il fine della società e dell’economia. E algoritmi che imparano da soli, machine learning, internet delle cose, Panopticon 2.0, ibridazione uomo-macchina invece del vecchio uomo appendice delle macchine hanno completamente rovesciato il nostro rapporto con la tecnica. Non solo, come scriveva Anders già mezzo secolo fa, le forme tecniche diventano sempre più forme sociali. E oggi anche politiche (il populismo digitale, la manipolazione elettorale tipo Cambridge Analytica). A prescindere dalla nostra comprensione e consapevolezza del cambiamento verso quello che Paolo Zellini ha chiamato il totalitarismo cibernetico. Da qui, il massimo della nostra alienazione rispetto a un apparato tecnico che non comprendiamo nel suo funzionamento e nei suoi effetti, essendone sempre più ibridati/sussunti/integrati e soprattutto formati e formattati. Non idealizzo l’umano. Non demonizzo la tecnica. Mi limito a vedere un certo processo di trasformazione…ma sono sicuro che torneremo più avanti su questo tema.

M.F. Le forme tecniche sono sempre state forme sociali e politiche, se ammettiamo, come ho detto, che la definizione dell’umano è coestensiva con la definizione della tecnica. Dunque, non vedo la novità. Casomai, oggi non è più possibile idealizzare l’umano perché la tecnica lo rivela molto meglio che un tempo, essendo più potente, efficace, intelligente. Cambridge Analytica non persuade nessuno a essere populista, non è un persuasore occulto. È semplicemente uno strumento di indagine che incoraggia a stilare programmi politici populisti, avendo la prova del fatto che i populisti sono la maggioranza. L’umano, più lo conosci, più ne vedi i limiti. Ad esempio, oggi nessuno riscriverebbe il passo della Dichiarazione universale delle nazioni unite in cui si pretende libertà di espressione per ogni essere umano (compresi i complottisti, i terroristi, gli allarmisti, gli imbecilli generici). Non il capitale o la tecnica rovinano l’umano; è l’umano che è così, e il capitale e la tecnica (che sono prodotti umani) lo rivelano.

Guarda il modo in cui descrivi la tecnica e il capitale, guarda la logica del nemico che immediatamente evochi (“Salvini”) cadendo in quella medesima contrapposizione schimittiana che gli fa prendere punti – li fa prendere a lui e li fa perdere a te. Perché la versione del Grande Satana offerta dal populismo è molto più efficace della tua, che resta tuttavia una versione del Grande Satana.

Per un equivoco che mi stupisce in uno studioso, confondi “umano” con “buono”, quando l’umano non è buono, non nasce buono, può diventarlo se ci sono le politiche giuste, ma con ogni evidenza quelle che evochi hanno fallito, e bisogna sforzarsi (mi rendo conto che costa di più) di pensarne delle nuove invece che riproporne delle vecchie. E le nuove richiedono un lavoro di riconcettualizzazione che non può limitarsi a citare esperimenti e idee di cent’anni fa. Pensa se Marx invece che elaborare il Capitale avesse scritto (come del resto facevano molti autori ai suoi tempi) un elogio del modo di vita feudale. Sarebbe stato un Walter Scott. E un po’ così mi pari anche tu: un Walter Scott che rimpiange la Costituzione (e la catena di montaggio, usatissima ai tempi in cui è stata scritta la Costituzione) invece che Ivanohe e i castelli scozzesi.

L.D. Non confondo umano con buono. Travisi il mio pensiero. Ho infatti usato sempre il concetto di umano e definito come dis-umano ciò che contraddice l’umanità e l’umano, ricercando l’obiettivo di restare umani. E questo in un mondo dominato dalla tecnica e da un capitalismo che produce un uomo funzionale al proprio potenziamento in quanto la competizione tra uomini – è l’istituzionalizzazione dello stato di natura, secondo Massimo De Carolis, il ritorno tecno-capitalista alla hobbesiana guerra di tutti contro tutti, uscendo (stracciandolo) dal contratto sociale della modernità – è quanto di più dis-umano e di dis-umanizzante vi possa essere. E ho accennato alla solidarietà – che è umana in sé (prima che buona), anche se spesso lo dimentichiamo, perché gli uomini, da soli, non possono fare niente e hanno bisogno degli altri e delle tecniche (diverse dalla tecnica come apparato di cui parlo e che critico in quanto – lo dico di nuovo – non più mezzo a utilizzo consapevole degli umani (e sottolineo: consapevole) – ma sistema invece potenzialmente autopoietico e che tende a sostituire l’umano – dagli algoritmi che decidono da soli/predittivi alle app come nuovo girello kantiano per bambini). Se oggi abbiamo perso o stiamo perdendo l’umano – e la solidarietà e il correlato concetto di giustizia (anche sociale; e la giustizia è diversa dalla legge e soprattutto dalla norma) – cioè stiamo appunto ri-diventando dis-umani in quanto nemici non solo degli altri uomini ma anche della biosfera (quindi nemici di noi stessi e dei nostri figli e nipoti, per un surreale e schizofrenico caso di amico-nemico riunito nello stesso individuo) – significa che abbiamo fatto nostri l’in-giustizia e l’egoismo e l’asocialità e l’amico/nemico necessari al tecno-capitalismo (e determinati dal tecno-capitalismo) per sostenere la propria volontà di potenza. Solidarietà e giustizia che certo l’uomo fatica a praticare, da sempre, e soprattutto la responsabilità, perché abbiamo una psiche tendenzialmente attenta solo alla prossimità. Ma che oggi evaporano (la solidarietà, la giustizia e la responsabilità) al crescere della società della prestazione e della incessante competizione di tutti contro tutti (dove cioè l’altro è mio concorrente/competitor e non un altro uomo con cui condivido la medesima natura), oltre che della velocizzazione del tempo che ci fa perdere il senso del domani e il tempo per riflettere – facendoci incapaci di attenzione per ciò che è lontano, nello spazio (gli altri) e nel tempo (il futuro e le prossime generazioni). Siano essi la biosfera, i migranti incarcerati e torturati in Libia o che annegano nel Mediterraneo, i bambini che muoiono di fame, i lavoratori sfruttati di Amazon (importante, per noi, è che i pacchi arrivino al più presto, a tanto egoismo e indifferenza verso gli altri è arrivata la nostra infantilizzazione capricciosa prodotta dal sistema tecnico e capitalista) o i processi di uberizzazione del lavoro che non riguardano solo i lavori poveri di Uber e di Amazon, ma sono la tendenza prossima ventura nella organizzazione del lavoro anche di fascia alta.

Senso/principio di responsabilità che a volte sembra tuttavia rinascere e penso ai ragazzi e agli scioperi per il clima di marzo e aprile o alla di poco precedente manifestazione antirazzista di Milano: segni interessanti – se non restano un fuoco di paglia subito spento da neoliberali e tecnofili – di una capacità di dis-alienazione dei giovani dalla alienazione dal futuro e dalla responsabilità e dalla immaginazione in cui noi li abbiamo infilati – e che se è vera dis-alienazione e se produrrà frutti, smentisce (ne sarei felice) le mie previsioni pessimistiche.

E quindi: non evoco nessuna logica del nemico. Confondi nemico con avversario politico. Il nemico lo crea Salvini, perché è nell’essenza del populismo quello di creare un nemico, quale che sia, purché generativo di voti e di consenso. Una logica schmittiana che mi è del tutto estranea. Salvini è un mio avversario politico (non un nemico) perché è dis-umano e dis-umanizzante (esprime all’ennesima potenza la forma del bullismo politico), come lo è Trump e tutti coloro che hanno irriso alla giovane Greta o negano il cambiamento climatico o rinnegano il concetto di giustizia e di solidarietà. Non ho nemici. Mai avuti. Ma avversari da contrastare sì, proprio per cercare di restare umani e razionali e giusti (che è un altro concetto/valore diverso da buoni) – e gli avversari sono la stupidità, la violenza e la cattiveria (anche e soprattutto in rete; e citando Umberto Eco, dico anch’io che nei social vincono sempre i cretini), l’assenza di umanità, il bullismo, il determinismo tecno-capitalista, il non ci sono alternative. Da illuminista che crede nella ragione – e che quindi contesta radicalmente la sragione strumentale/calcolante del tecno-capitalismo – continuo a immaginare che si possa uscire dal girello kantiano e conquistare autonomia e auto-determinazione. Sapere aude! Facendo l’uomo un po’ più consapevole di ciò che fa. Ecco, mi basterebbe accrescere questa consapevolezza – che è però la premessa necessaria – per ri-acquisire (avendola persa per il combinato disposto di neoliberalismo e di tecnica e della loro pedagogia alienante) la capacità e la possibilità di immaginare altrimenti (come ha scritto Salvatore Veca): unica via, credo, per tornare appunto ad essere umani (non buoni, non c’entra niente), evitando di delegare alla tecnica (algoritmi, app, machine learning) la decisione e la stessa possibilità e capacità di decisione – perché se deleghiamo la decisione a qualcosa di automatico ci alieniamo da noi stessi, dalla capacità e dalla possibilità di decidere, cioè ci facciamo con le nostre mani dis-umani. Umani, invece dobbiamo restare, soprattutto in un mondo di macchine e di chi sogna il post-umano, che è il massimo della dis-umanità/dis-umanizzazione: riconoscendo che a volte (oggi sempre più spesso) si può non esserlo (umani) e quindi sapendo costruire gli anticorpi per esserlo di nuovo, governando le macchine senza essere governati dalle macchine. È una questione di umanesimo, di responsabilità, di consapevolezza (ancora) per ciò che si fa – che invece sempre più perdiamo quanto più neoliberalismo e tecnica si offrono come mezzi per attivare la nostra (e la propria) massima volontà di potenza, che è irresponsabile per la biosfera e irresponsabile per l’umanità. Dovresti leggere – lo dico da non credente o da diversamente credente – la Laudato si’, di papa Francesco.

Amico/nemico? Ripeto: non cado nella stessa contrapposizione che critico, come invece dici: non mi comporto come Salvini (mi offendi), contesto Carl Schmitt e richiamo piuttosto Immanuel Kant e la sua idea di pace perpetua, anche se so che è difficile realizzarla se il sistema tecnico ed economico promuove invece e appunto, per sé ma contro l’umano e la biosfera, la guerra perpetua, chiamata oggi concorrenza e competizione, tra uomini e degli uomini contro l’ambiente, cioè contro se stessi, in una nuova e perversa forma di guerra civile e culturale/antropologica globale. Rivendico perciò – e conseguentemente – il diritto/dovere di oppormi a chi produce la (il)logica dell’amico/nemico, che è/discende anche dalla (il)logica della competizione neoliberale di tutti contro tutti, che è la (il)logica della disruption tecnica a prescindere dalla utilità sociale e ambientale dell’innovazione. (Il)logiche divenute oggi purtroppo senso comune, spirito del tempo, non ci sono alternative. Se avessi ragione tu, anche la Resistenza, i giovani per il clima e il futuro, anche Simone Weil… sarebbero caduti nella logica dell’amico/nemico, mentre invece resistevano e resistono in nome dell’umanità contro la dis-umanità. Non confondiamo le cose.

E quindi, diversamente da ciò che mi fai dire, non rimpiango la Costituzione e semmai ricordo che è tuttora vigente, riconfermata al 60% dagli italiani nel referendum del dicembre 2016; piuttosto, la vorrei attuata, visto che – essendo vigente – dovrebbe essere (perché lo è) anche prescrittiva, oltre ad essere giusta perché fondata su umanità, solidarietà, consapevolezza e responsabilità, costruzione del futuro e giustizia sociale. Ribadisco poi ancora una volta (ne sono testimonianza i miei libri) che non rimpiango la catena di montaggio (ci mancherebbe! – un francofortese come me, poi…), ma cerco solo di capire – questo dovrebbe fare uno studioso: non dimenticare il passato per poter interpretare il presente – se le forme di organizzazione del lavoro di oggi sono veramente nuove o sono solo la riproposizione (come cerco di dimostrare, scavando sotto le retoriche del nuovo per il nuovo che futuristicamente ci accompagnano ogni giorno) della legge ferrea della tecnica e del capitalismo: quella di suddividere/individualizzare e poi ricomporre e (come hai scritto) unificare il lavoro suddiviso in qualcosa di maggiore della semplice somma delle parti, cancellando ogni autonomia e producendo il massimo di eteronomia. Anche se oggi il neoliberalismo e la tecnica si offrono o si spacciano come il massimo dell’autonomia e della libertà individuale. E se dico che il fordismo/taylorismo non è morto ma rinasce grazie alla rete (nuovo mezzo di connessione e quindi nuovo mezzo di produzione, ma sempre applicando e replicando la legge richiamata poco sopra, ormai sfuggita al controllo dell’uomo), faccio solo, come ritengo doveroso intellettualmente fare, un’analisi oggettiva e non retorica del presente. Questo significa non vedere il nuovo? Rispondo ricordando non solo che sono figlio culturale della conquista della Luna, quindi affascinato dalla tecnica come mezzo di scoperta (ma molto meno come amministrazione della mia vita), ma ricordando soprattutto che forse molti non vedono come il nuovo sia appunto solo la riproposizione (e la continuazione) del vecchio sotto altre forme e con altri mezzi. Perché, non dimentichiamolo – e lo ricordava anche un grande economista italiano recentemente scomparso, Giorgio Lunghini – il capitalismo ha una essenza e una forma infinitamente trasformistica, quindi ha la capacità di adattarsi e modificarsi e di incorporare in sé anche le ragioni di chi contesta il tecno-capitalismo, incessantemente ripresentandosi come nuovo (e qualcosa di simile scriveva anche Marcuse). Essendo – di nuovo – cioè un sistema diffuso (disseminato, dici tu) e quindi non più identificabile in qualcuno/qualcosa (un potere) evidente e riconoscibile e per di più infinitamente trasformista, diventa ancora più potente e pervasivo – è la foucaultiana microfisica, oggi del potere tecno-capitalista, è la sua essenza (come l’ho recentemente definita) biopoliticamente disciplinante – e senza riconoscibilità, quindi siamo alienati soprattutto dalla capacità di riconoscimento del soggetto biopolitico/amministrativo che ci governa.

Integrati, apocalittici, realisti

M.F. Mi proponi una valanga di ideali e di disgrazie male assortite (non credo, ad esempio, che ci sia un nesso tra i magazzinieri di Amazon, i migranti e la crisi ecologica). Ora, diceva giustamente Hegel, gli ideali sono a buon mercato come le mele. E contro l’industria culturale, il taylorismo, il fordismo, il neo o turbo capitalismo, ci sarà sempre qualcosa da dire. Proprio come c’è sempre qualcosa da dire sulle partite di calcio. Ma il calcio, lo ammettiamo tutti, non è una attività obbligatoria, e si può, se lo si desidera, criticare quanto si vuole i giocatori, gli allenatori e gli arbitri senza essere scesi in campo una sola volta. Nelle valutazioni politiche e sociali si è chiamati a una diversa coerenza.

Perciò, se uno è un critico radicale del sistema, deve anche tenersi radicalmente fuori del sistema. Altrimenti si espone facilmente alla critica di manicheismo e di farisaismo. Manicheismo è il male degli oggetti analizzati: tutto il male al Kapitale, tutto il bene al Popolo, compresa l’Iliade, frutto del Genio del Popolo Greco. Ma converrebbe essere consapevoli del fatto che il Kapitale non è una entità che abbia maggiore cogenza del Genio del Popolo Greco, dunque di Giove o di Giunone. Farisaismo è il male (la malattia professionale) degli analisti: il male peggiore che affligge le analisi del presente è il farisaismo, ossia la convinzione che il proprio valore morale risieda non nelle azioni che si compiono, ma nelle idee che si professano.

È per questo, oltre che per intima convinzione, che non mi sono mai adattato a essere un critico radicale: la mia coscienza e la mia coerenza me lo avrebbero impedito. Si tratta di una posizione teorica e morale, e soprattutto di una sensibilità ai controesempi. Insistere sul fatto che la nostra è la società della prestazione e della competizione è dimenticare che anche la società cavalleresca era guidata dal principio di prestazione, e soprattutto è idealizzare il mondo del pubblico impiego italiano, che effettivamente non si basava né sulla prestazione né sulla competizione, e si vedeva. A chi opponesse che con questo si giustifica il darwinismo sociale obietto che oggi c’è gente che vive senza avere alcuna abilità o capacità (cosa impensabile nel mondo feudale: non sarebbero sopravvissuti) e senza esercitare una professione (ciò che rendeva pericolosi gli imbecilli nel pubblico impiego). Questo è, banalmente, un esame di realtà.

Se uno vede il mondo come un territorio demoniaco in cui il Kapitale spadroneggia a colpi di neoliberismo, ordoliberismo ecc., è chiamato a essere coerente con i propri assunti e, invece che insegnare, scrivere libri e citare libri e autori, deve scendere in campo, e lottare contro il sistema o per lo meno non esserne in alcun modo complice. Mi rendo conto che invitare i propri obiettori a darsi alla macchia in Bolivia è chieder troppo, potrebbe essere sufficiente elaborare delle teorie originali. Ma vedo che anche da questo orecchio gli obiettori non ci sentono troppo, e preferiscono evocare idee vecchie di secoli e un pantheon variopinto di Bauman, Adorno, Calasso e così via.

L.D. Non mi pare che Bauman evocasse idee vecchie di secoli, semmai era modernissimo; ed è morto nel 2017…Giustamente rileggeva il passato e lo usava per interpretare il presente, che è quanto fai anche tu in filosofia rileggendo gli autori del passato e le loro categorie. Non puoi negare poi che il neoliberalismo sia oggi egemone proprio nel senso di Gramsci. Certo, anche i cavalieri medioevali vivevano di prestazione, ma erano l’eccezione; oggi invece la società della prestazione e della competizione ci coinvolge tutti, a produttività e a mobilitazione crescente, perché questo serve alla creazione/estrazione di valore per il profitto del capitalismo (quante più persone sono messe in produzione di merci e di dati e al lavoro di consumo, maggiore è il plusvalore che il capitale estrae da ciascuno e da tutti integrati nel sistema di produzione/consumo – e quindi c’è una bella differenza. E in quanto libertario per natura, amante del pensiero critico, rifiuto ogni egemonia culturale, che oggi è quella del pensiero neoliberale e tecnico. E Socrate era poi, a modo suo, un radicale… ma soprattutto faceva pensiero critico, o pensiero dissidente – e Dissidenze è il titolo che ho scelto per la mia Collana in Jaca Book – ma stava ben dentro la polis. Polis che infatti lo ha messo a morte perché faceva pensiero critico e lo faceva – e non poteva non farlo – da dentro al sistema. E poi: prima scrivi che se uno è un critico radicale del sistema, deve anche tenersi radicalmente fuori del sistema; poi che deve scendere in campo, e lottare contro il sistema o per lo meno non esserne in alcun modo complice. Quale delle due opzioni? Io ho scelto la seconda, facendo pensiero critico radicale (nel senso di andare alle radici dei processi che analizzo), studiando, insegnando, scrivendo.

E poi, occorre iniziare a distinguere davvero, come peraltro sostieni nel tuo Manifesto del nuovo realismo, tra ciò che è naturale e ciò che è costruito. Ma nella modernità (e per me la postmodernità è solo una fase di una lunga modernità), è tutto costruito o che (addirittura) sempre più si auto-costruisce: il lavoro industriale a produttività crescente; i social; il consumismo e il nostro dover consumare oltre ogni ragionevole bisogno; l’industria culturale e dello spettacolo; il nostro doverci mettere in vetrina per valorizzare non noi stessi conoscendo noi stessi, ma solo il nostro capitale umano, ovvero mercificando/reificando e oggi datificando noi stessi; le forme tecniche che diventano forme sociali…). Una realtà che non è costruita/progettata socialmente dagli uomini, consapevolmente, ma oggi lo è industrialmente e tecnicamente – e inconsapevolmente per gli uomini: ancora le forme tecniche e capitalistiche che diventano/sono fatte diventare forme di vita. Il sistema tecno-capitalista (essendo biopolitico e/o amministrativo) produce i fatti e insieme la loro interpretazione/narrazione – e/o le interpretazioni diventano esse stesse fatti, o comunque sistemi di verità. Per cui il sistema ci fa credere (la sua autopoiesi è anche una forma di auto-narrazione) che non ci siano alternative o che l’innovazione non si possa governare – tutto per assecondare le esigenze del sistema e la sua dynamis. Attivando appunto specifici processi di veridizione (Foucault) che dicono vero e che ci fanno credere vero e nuovo anche ciò che non lo è (la rete, il virtuale, la documedialità, eccetera), ma che deve sembrarlo. E che quindi fanno sembrare il riscaldamento climatico (che è un fatto) come un non-problema o un non-fatto; e quindi l’interpretazione nega il fatto, producendo una non-verità offerta come verità ma che nega la verità, producendo fatti funzionali alla riproducibilità del sistema. Non ri-conoscere questa costruzione/produzione eteronoma significa restare nella rappresentazione della realtà senza fare l’analisi (producendo parresia) della genealogia del potere moderno: come nasce e come si diffonde il potere nella società, oggi appunto via produzione, consumo, social, condivisione in rete, industria culturale, eccetera – cioè come il sistema crea quelli che chiami gli schemi concettuali. Tu stesso hai poi scritto, sempre nel tuo Manifesto, che i telefonini ci danno l’impressione di avere il mondo in mano mentre siamo in mano al mondo, sempre disponibili per le sue imposizioni e richieste; e ancora: nel post-moderno, tutto ciò che prometteva emancipazione si è trasformato in una forma di subordinazione (spesso volontaria). Quindi, io dico: questa è eteronomia e quindi è alienazione. Anche dalla realtà dei fatti. Anche nel lavoro di produzione di dati.

M.F. Dopo questa professione di fede postmodernista da parte tua mi sembra difficile discutere quello che dici. Se i fatti sono costruiti, perché ti richiami ai fatti invece che trarre auspici dal volo degli uccelli? Ma, comunque, sin qui ti sei impegnato nell’evocazione di nomi e di parole, mentre quello che occorre, però, sono idee. Provo a esportene una, con la massima semplicità. Che cosa possiamo auspicare come destino dell’umanità? La scomparsa del lavoro come fatica e alienazione. Bene, è quello che è incominciato da qualche anno, si sviluppa oggi, si attuerà in tempi imprevedibili, ma non biblici, nel mondo intero. Questo non perché il capitale (se vogliamo avvalerci di questa personificazione molto approssimativa) sia diventato generoso, o perché abbia dato ascolto ai pareri dei dotti e dei buoni, ma semplicemente perché nulla costa di meno di una macchina. La macchina non si ammala, non ha diritti civili, non si stanca, non si sbaglia, non si ribella, non si distrae. E allora si automatizza tutto, e la storia è appunto il racconto di una progressiva automazione che, sia detto per inciso, coincide con il cammino della civiltà.

All’inizio gli strumenti erano semplici protesi che dipendevano in tutto dall’iniziativa umana: zappe, martelli. Era il regno della fatica. Poi gli strumenti sono diventati macchine complesse, la fatica si è ridotta, ma l’alienazione è aumentata, perché, come notava Marx, a questo punto l’umano diventa lo strumento della macchina. Successivamente (ed è una fase in parte vista, in parte prevista, da Marx) le macchine sarebbero evolute al punto da lasciare agli umani un solo compito, quello di controllare i processi. La fatica si riduceva, gli umani prendevano peso; si riduceva anche l’alienazione, perché un conto è star dietro a un pannello di controllo, un altro è ripetere per miliardi di volte lo stesso gesto. Subentrava la noia, il mostro delicato di cui ci parla Baudelaire ma, se vogliamo essere seri, è molto meglio la noia che la fatica o la ripetizione insensata di uno stesso gesto.

Quello che ha luogo oggi, e che si estenderà ulteriormente, nello spazio e nel tempo, è la completa autonomizzazione delle macchine. Quello che chiamiamo “internet delle cose”, e che risolve problemi di casa (surrogando collaboratori domestici, portieri, guardie notturne), e le auto a guida automatica (che suppliscono alle nostre modeste autoprestazioni al volante) non sono che la punta emergente di una automazione che riguarda anzitutto la produzione di beni. Nel momento in cui le macchine possono lavorare da sole, i prezzi si abbattono, e ovviamente i produttori sono contenti. Sono contenti anche i consumatori, che hanno più beni, e dunque – direbbe l’integrato che io non sono – si realizza il paradiso in terra. Ma ovviamente il paradiso non si realizza, dico io come realista, e, sempre come realista, mi chiedo perché. E la risposta è semplicissima. In tutto questo processo, che ho potuto descrivere senza invocare le cattive intenzioni del Kapitale, o i diritti umani offesi, perché non ci sono intenzioni, né buone né cattive, e non ci sono diritti umani offesi, perché anzi assistiamo alla scomparsa di fatica, alienazione e noia, sorge un non piccolo problema, che è appunto la scomparsa del lavoro come fatica, alienazione noia. Niente lavoro, dunque niente denaro. Chi li compra gli assistenti domestici, le auto a guida automatica, i beni? È un problema per i consumatori, che non possono consumare. Ma, non dimentichiamolo, è un problema anche per i produttori, che non possono vendere i loro prodotti.

A questa situazione si possono dare tre risposte. Quella integrata, quella apocalittica, e quella realista.

La risposta integrata sottovaluta il problema banale e immane della scomparsa dei lavori stupidi sottolineando la circostanza che ora il mondo diviene una sconfinata prateria di lavori intelligenti e creativi, che fanno ciò che le macchine non possono né potranno mai fare. Ora, è vero che le macchine non possono fare lavori creativi, perché eseguono delle regole, dunque non possono generare eccezioni. Ma è anche vero che gli umani non sono tutti intelligenti, e che tutti quanti, intelligenti o stupidi, non possono essere creativi per tutta la vita. Dunque, la soluzione integrata della creatività universale è chimerica, e questo lo capiscono in molti, anche se non tutti, appunto perché non tutti sono intelligenti. Fermo restando che è cosa buona e giusta promuovere con ogni mezzo possibile la fioritura umana, permettendo così l’attenuarsi della stupidità, che spesso dipende da ignoranza, e la crescita della creatività, favorita dal sapere.

Se tuttavia la soluzione integrata propone una soluzione, per quanto chimerica e anche vagamente ridicola, quella apocalittica, oltre a non essere più rischiarata della soluzione integrata, non è nemmeno una soluzione, bensì una lamentazione. Come abbiamo visto, la scomparsa del lavoro come fatica e alienazione è una brutta cosa per le sue conseguenze, e cioè che non ci saranno più gli stipendi conseguenti da fatica e alienazione. Ma in sé è una buona cosa, anzi ottima, per l’eccellente motivo che fatica e alienazione sono la maledizione di Adamo, e non è sensato rimpiangerle.

Che cosa fanno invece gli apocalittici? Negando l’evidenza, sostengono che la fatica e alienazione non sono scomparse, anzi, sono più presenti che mai, ubique, pervasive e spietate, sotto la sferza del Kapitale.

Per provare che la fatica esiste ancora citano i magazzinieri di Amazon, i fattorini e i raccoglitori di pomodori, senza considerare che, trattandosi di lavori ripetitivi, potranno presto venire sostituiti con successo (e con risparmio per le aziende) da droni. Non considerare questa circostanza è tutto sommato deplorevole per una analisi che si voglia illuminata. Ma, come diceva Talleyrand, questa omissione è più che un crimine, è un errore, in cui i vittimisti stringono la mano (senza volerlo, ne sono certo, e ciò va a loro onore) a una quarta categoria che non avevo menzionato più sopra perché non è una categoria politica, i complottisti.

Complottista è, tipicamente, chi accusa Soros di organizzare deportazioni di migranti dall’Africa per rinforzare l’esercito di riserva del padronato e fare abbassare gli stipendi. Notazione che si può spiegare solo facendo ricorso alla prevalenza del cretino a cui mi richiamavo criticando la soluzione integrata e che omette due circostanze che appaiono a dir poco rilevanti.

La prima è che è difficile parlare di nuova tratta degli schiavi per gli sbarchi dei migranti, giacché questi ultimi, diversamente dagli schiavi veri e propri (e non considerarlo è offensivo, a dir poco, tanto per gli schiavi di allora quanto per i migranti di adesso) non sono incatenati. Dire che non c’è differenza tra essere imbarcati in catene e imbarcarsi pagando non è diverso dal sostenere che tutti siamo schiavi, quantomeno delle nostre passioni.

La seconda, non meno macroscopica, è che è difficile parlare dei migranti come esercito di riserva del capitale quando con ogni evidenza il capitale (ammesso e non concesso che esista, ripeto, come portatore di intenzionalità) non ha bisogno nemmeno dell’altro, di esercito, degli effettivi e dei regolari. Non sa proprio che farsene, di fanti e di tenenti (anche i generali rischiano la testa, di questi tempi), e i caporali che restano farebbero meglio a trovarsi un altro lavoro appunto perché presto i pomodori li raccoglieranno i droni.

Ma torniamo agli apocalittici. Se controversi sono gli argomenti invocati per dimostrare che la fatica non scompare, ma cresce, ancora più controversi sono quelli convocati per sostenere che l’alienazione non è scomparsa, ma è fra noi, più implacabile che mai. Viaggiamo, compriamo, degustiamo vini e cibi incomparabilmente migliori e più abbondanti che in passato, la nostra vita è più lunga che in qualunque epoca precedente, eppure i vittimisti sostengono che siamo alienati, ossia, se le parole hanno un senso, che viaggiamo, compriamo, degustiamo, e sopravviviamo, per mera coercizione esterna e costretti da una legge implacabile. Non è così, e anche qui la prova sta nel fatto che paghiamo per viaggiare, consumare, degustare, sopravvivere; se la prestazione fosse alienata, avremo almeno l’accortezza di farci pagare.

Ma i vittimisti non se ne danno pensiero, ed è proprio per supplire a questa mancanza che è necessario il realismo. L’idea è molto semplice, ed è già anticipata da uno che i vittimisti li vedeva come il fumo negli occhi, ossia da Marx. Per il quale “lo sviluppo dell’individuo sociale si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”. Il punto è semplice. Una volta che hai automatizzato la produzione, resta da automatizzare il consumo, ma è proprio ciò che nessuno potrà mai fare, perché il consumo è un fenomeno organico e non meccanico.

Si tratta perciò di sostenere il consumo, ma a che prezzo, con che soldi? Sarebbe bizzarro (eppure è proprio ciò che avviene con il reddito di cittadinanza) che fosse lo stato a sostenere il consumo, con i soldi delle tasse, che il più delle volte non ha visto che i cittadini amano l’evasione, il che può consentire loro di avere redditi dichiarati talmente bassi da dar loro il diritto di chiedere il reddito di cittadinanza.

È invece ovvio che il consumo va sostenuto da chi di quel consumo trae i maggiori benefici economici, e cioè i produttori. Ma come li convinci? Analizzando il reale, ossia facendo per il capitale documediale un lavoro analogo a quello fatto da Marx per il capitale industriale. Che è appunto ciò di cui ha bisogno la sinistra, che invece (e contraddicendo le proprie origini e la propria vocazione) si limita alla difesa dell’individuo astratto, ossia al discorso sui diritti umani, che è importantissima, ma elettoralmente infruttuoso (l’individuo astratto non vota), se non si accompagna alla comprensione dell’individuo concreto e del mondo in cui vive.

In questo mondo concreto, che non è più quello del capitale industriale, le merci sono di due tipi: o documenti, o prodotti generati e distribuiti dai documenti.

Le prime sono le merci fondamentali della nostra epoca, e, a ben vedere, sono i soli prodotti dagli umani, generalmente in una interazione uomo-macchina (io e il mio cellulare, il più delle volte). Sono merci molto pregiate, perché parlano delle persone, dei loro gusti, delle loro predilezioni e credenze, e dunque aiutano a creare i prodotti più svariati: scarpe da jogging, caffè in capsula, programmi elettorali e patti di governo. Infatti, i produttori delle merci secondarie, delle merci tradizionali (scarpe, caffè, patti di governo) li comprano a caro prezzo dalle piattaforme. Con questo l’interazione uomo-macchina, che ha luogo non nel quadro del lavoro come fatica e come alienazione, ma in quello dell’ozio e del consumo, si rivela produttiva di valore, appunto perché i dati valgono, tanto è vero che si vendono e si comprano.

È su questa circostanza che si fonda la strategia politica del realismo.

Dopo aver riconcettualizzato il lavoro come produzione di valore (d’accordo con Marx) invece che ostinarsi a scorgere la fatica e l’alienazione dietro al guardare telefilm sui narcos, si osserverà che lo scambio tra chi genera i dati (i mobilitati) e chi li raccoglie e rivende (i mobilitati) è iniquo, e racchiude un plusvalore particolarmente ben nascosto. Perché il servo della gleba, con tutto che è servo, sa quando lavora per sé e quando lavora per il padrone, dal momento che deve coltivare due campi distinti. Il lavoratore industriale, invece, non sa quando lavora per sé e quando per il padrone, visto che è sempre lo stesso lavoro nello stesso posto.

Il mobilitato, poi, non sa nemmeno di lavorare perché non fatica e non si aliena (a meno che si voglia chiamare alienazione il detto genitoriale “smettila di rincretinirti davanti a quel telefonino”, ma ci vuole coraggio). E i clamori dei vittimisti che trovano fatica e alienazione anche nel collaudo di materassi possono dare uno sfogo al suo disagio, oltre alla scontentezza che, non dimentichiamolo, è una delle caratteristiche fondamentali dell’essere umano. Oltre che inutili, quei clamori sono nocivi, perché distolgono il mobilitato da un esame imparziale della propria condizione, che non è quella di lavoratore affaticato e alienato, ma di consumatore e di navigatore (contento o no, non importa, ma non è fatica o alienazione).

Guardando a quella condizione reale, capirebbe appunto che la sua mobilitazione produce valore; che quel valore non è retribuito, ma deve esserlo; e che con quella retribuzione potrebbe continuare a comprare e navigare in santa pace, comprando i beni prodotti dalle macchine, perché, lo ripeto, ci può essere lavoro senza lavoratori ma non consumo senza consumatori, e che senza gli organismi i meccanismi non hanno alcun senso.

E non mi si venga a dire che così avremmo una umanità soggetta alla tirannia della mediocrità e dei minuti piaceri che Tocqueville ravvisava nella democrazia americana. È meglio essere tiranneggiati dai minuti piaceri che non dai massimi dolori, dalle mancanze e dalle privazioni. E che se uno desidera fare lo stilita, ebbene, nessuno glielo vieta. Fermo restando che condizioni di benessere e di più ampia disponibilità materiale favorisce lo sviluppo dell’ingegno e della cultura, tanto è vero che sino a quando abbiamo dovuto correre nella savana inseguiti dai leoni ci sono state precluse le Muse.

Né, soprattutto, si venga, con Horkheimer e Adorno, a deplorare l’ottundimento della cultura di massa americanizzata (mi sembra dimenticassero che se si trovavano in America era perché in Germania c’era una cultura di massa ancora più ottusa e ben altrimenti repressiva) o a deplorare, con Marcuse, la “desublimazione repressiva” prodotta dalla società dei consumi. È ovvio che la cultura di massa, che in certi casi è meglio di quella di élite, è pur sempre meglio che l’analfabetismo o l’indottrinazione forzata. Che la desublimazione repressiva è sempre meglio che la repressione senza sublimazione.

Non è di quelle lamentazioni da benestanti annoiati – inutili allora, tranne nei seminari universitari, figuriamoci adesso – che abbiamo bisogno, ma di una solida teoria del plusvalore documediale, e di una concettualizzazione del lavoro come mobilitazione e creazione di valore, e del consumo come proprietà specificamente umana. Solo a questo punto potremo concentrarci su quella produzione, la sola che resta all’umanità in un mondo liberato dal lavoro come fatica e alienazione, che è la produzione dell’umano da parte dell’umano, che non è minimamente inibita, ma anzi trae vantaggio, dalla rivoluzione documediale.

Pensiero critico

L.D. Tu mi accusi di essere insieme apocalittico, vittimista e persino complottista – nonché di essere anch’io (un foucaultiano ma sempre più un francofortese), un benestante annoiato. Ma è troppo facile ricorrere a questi concetti feticcio, come li chiamava Umberto Eco. E soprattutto: non sono mai annoiato….

In realtà, c’è una parte mancante nella tua riflessione. Quella appunto sulle forme del potere, sui modi e le norme e le procedure di normalizzazione con cui si esprime la modernità e quel tecno-capitalismo che è l’ipermodernità e non la postmodernità. Tralasci di analizzare – mentre ne è la parte che deve stare per me in premessa– come il potere moderno crea consenso per sé, i modi con cui dice no ma soprattutto dice sì e fa fare ciò che serve che gli uomini facciano senza imporlo (come produrre in fabbrica e oggi in rete, consumare sempre di più oggi h24, generare dati senza che questo lavoro sia avvertito/riconosciuto come lavoro). Occorre cioè valutare le forme del potere moderno, la loro genealogia (Nietzsche e poi Foucault), i fini di modificazione antropologica che persegue, i modi e le norme disciplinari e biopolitiche che adotta, il come nascono un potere e un sapere di potere, come possono attraversare la società e produrla e renderla funzionale (e se Foucault criticava, alla fine della sua vita, che la relazione tra potere e sapere da lui esposta fosse stata ridotta a una pura e semplice caricatura, non ne contestava certo la sostanza); occorre valutare il suo essere sempre meno un potere hard e sempre più un potere soft, anche se si fa soft per raggiungere obiettivi decisamente hard come il potenziamento incessante della nichilistica e disruptiva volontà di potenza del tecno-capitalismo. Concentrandoti su quella che chiami documedialità, dimentichi come essa è nata e perché, facendoti credere che sia un nuovo che invece ha radici antiche. Rimuovi, considerandola aprioristicamente non più attuale, la Scuola di Francoforte. Ma trascuri anche Michel Foucault, fondamentale invece (pur con alcuni limiti), per comprendere la nascita (la genealogia, appunto) del potere moderno e i modi del suo dispiegarsi; ma non trai le dovute conseguenze neanche (in senso opposto) da tutto il pensiero neoliberale moderno e dalla sua azione/essenza biopolitica/governamentale/trasformativa; e dimentichi ad esempio, tra i tanti – per la tua analisi sul consumo/consumismo – Vance Packard e la sua dettagliatissima analisi (vecchia-nuova di sessant’anni) sui persuasori occulti; e dimentichi Edward Bernays che già cento anni fa spiegava come si può e quindi si deve manipolare il consenso anche nelle democrazie di massa, attivando i desideri dell’uomo; dimentichi di come si possa industrializzare anche la felicità (William Davies); di come si possa costruire una società eccitata a consumare; di come Narciso e Pigmalione possano essere davvero, come ho scritto nel mio libro sulla alienazione (La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, 2018), gli archetipi o le metafore che spiegano come il tecno-capitalismo riesca ad attivare e a trasferire in ciascuno il pathos necessario alla propria incessante riproducibilità (che è ciò che chiami mobilitazione), la propria volontà di potenza.

Perché il tecno-capitalismo non vuole produrre (diversamente da Nietzsche) l’uomo consapevole di sé stesso ma l’uomo incessantemente produttivo di distruzione creatrice. Perché così si genera profitto per il capitalista. Per questo siamo entrati non solo nel capitalismo delle piattaforme generando anche il lavoro di produzione di dati, ma soprattutto nel capitalismo delle emozioni (Byung-Chul Han) e nel lavoro in forma di folla/sciame; perché le emozioni sono sì qualcosa di psichico (più che di organico…), ma oggi sono prevalentemente prodotte artificialmente e industrialmente per attivare ciascuno, in modo eteronomo, la sua psiche e il suo essere macchina desiderante, a consumare sempre di più (e a connettersi/condividere in rete sempre di più, per produrre sempre più dati). Per cui il consumare e il condividere – lungi dall’essere qualcosa di umano che non può essere meccanizzato (come scrivi) sono già state meccanizzate o meglio industrializzate, visto che già oggi (ma domani lo saranno sempre di più, appunto dandoci le risposte di consumo – ma non solo – prima ancora di avere fatto le domande), esistono gli algoritmi predittivi che permettono ai produttori (molto più e meglio dei vecchi focus group e dei sondaggi) di orientare/modificare/guidare/attivare i consumi di domani sulla base dei nostri consumi di oggi e di ieri. Dati e dispositivi necessari per generare/attivare incessantemente in ciascuno quel crescente pluslavoro di consumo indispensabile per garantire il plusvalore del capitale. Il sistema cioè attiva la psicologia umana (di un essere desiderante), ma la usa per produrre profitto, alienando l’uomo da sé stesso e dalla sua possibilità di conoscere se stesso.

Riconoscere queste tecnologie di potere e questa società amministrata in nome del consumo e oggi della produzione di dati e della funzionalità di ciascuno rispetto alle esigenze del tecno-capitalismo, non è complottismo né vittimismo, ma è l’evidenziazione e il riconoscimento necessario della forma e della norma di funzionamento (ancora: della genealogia) del tecno-capitalismo. cioè dei modi con cui esso produce l’idealtipo di uomo di cui ha bisogno (produttivo, consumatore, generatore di dati, trasformando la sua vita in lavoro e in merce). Altrimenti dovresti accusare anche Foucault e la Scuola di Francoforte e Marx e Bauman – oltre a me – di vedere ovunque complotti. Ma non far vedere/riconoscere il potere e le forme che assume e le norme con cui produce società e individualità (e anche il non far percepire l’alienazione, la fatica, il lavoro è una tecnologia del potere che passa attraverso un sapere fatto di retoriche di individualità, libertà, auto-imprenditorialità, tecnica e neoliberalismo individualista) è un modo classico per alienare e alienarsi dalla comprensione dei fatti. Con il paradosso per cui dici che bisogna retribuire questo lavoro di produzione di dati per sostenere il consumo, mentre proprio questo consumo è una delle cause del cambiamento climatico, per cui se vogliamo garantire un futuro alle nuove generazioni dobbiamo anche cambiare modello di consumo e di produzione. Invece, tu riproduci in altro modo l’integrazione di tutti nel sistema – irrazionale e disruptivo per la biosfera – e il proseguimento del tecno-capitalismo con altri mezzi, invece di criticarne lo spreco generato dal consumo e lo sfruttamento determinato anche dal lavoro di produzione di dati, sostenendo che non si fa fatica e non si sarebbe alienati.

Un lavoro che se anche venisse retribuito, resterebbe dentro alla logica produttivistica e irrazionale del tecno-capitalismo, ciascuno spinto e attivato (siamo nella società della prestazione, quindi…) al raggiungimento di una produttività crescente di dati personali prodotti e venduti in cambio di un salario. Ed è quindi evidente, anche qualora questo lavoro venisse retribuito, che il lavoratore continuerebbe ad essere alienato dal suo lavoro e soprattutto dalla sua vita (una forma di prostituzione non solo del corpo, ma della psiche), cioè dalla sua vita in forma di dati. Ciò che proponi non è la realizzazione del comunismo (Marx diceva del comunismo: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!), ma il perfezionamento ulteriore (la sua socializzazione, la sussunzione totale della vita nel sistema di mercato) del capitalismo attraverso il consumo mediato anche dalla produzione di dati: un capitalismo che dopo avere messo a valore e a profitto il lavoro fisico e il lavoro di consumo (nel Novecento) estrae oggi appunto valore dalla stessa vita e dalla socialità degli uomini – e se questa non è alienazione e sfruttamento non saprei proprio come definirla.

Tu scrivi che “il mobilitato, poi, non sa nemmeno di lavorare perché non fatica e non si aliena” – ma questo non sapere di lavorare è stato appunto il prodotto biopolitico proprio delle retoriche della rete e del neoliberalismo che mascherano l’alienazione: se infatti credo – perché il sistema mi fa credere – di essere imprenditore di me stesso, non mi sentirò mai alienato, anche se lo sono. E faticherò di più e sarò alienato ancora di più perché la mia prestazione deve essere appunto a produttività crescente, lavorerò magari h24 e sarò in perenne competizione con gli altri – sia che lavori per Amazon, che collaudi materassi, che sia un professionista uberizzato/esternalizzato (l’uberizzazione e il lavoro on demand non riguardano solo i lavori poveri di contenuti) – una condizione che genera una fatica fisica e psichica pesantissima. Ricordarlo e sottolinearlo non distoglie il mobilitato dal pensare in modo imparziale alla sua condizione, come sostieni; semmai lo vuole attenzionare su una condizione alla quale non aveva pensato. Dire, come fai tu che la sua “non è una condizione di lavoratore affaticato e alienato, ma di consumatore e di navigatore (contento o no, non importa, ma non è fatica o alienazione)” è una petizione di principio, perché i fatti dimostrano proprio l’esistenza di ciò che tu escludi (è alienato dai dati, cioè dalla sua vita che cede ad altri diventando altro da sé; alienato dalla piattaforma/social che gli prende i dati a sua insaputa e che non è sua ma è di un capitalista; alienato perché il frutto del suo lavoro di produzione dei propri dati – i dati stessi – non gli appartiene….). Certo, non fa fatica, anzi si diverte a navigare in rete, ma questo non esclude l’alienazione (secondo Marx e non solo secondo Marx). Concordo con te che servirebbe “una solida teoria del plusvalore documediale”, ma dimentichi di aggiungere ‘critica’ dopo ‘teoria’. Ma soprattutto, occorrerebbe creare, a monte, una ‘teoria critica’ del pluslavoro documediale. Ma anche su questo tornerò più avanti.

Tu confondi poi essere apocalittici con fare pensiero critico. Provo allora, con Umberto Eco, a ridefinire i concetti di apocalittico e di integrato, dopo avere ricordato di nuovo che sono appunto concetti feticcio che semplificano (dicotomizzano, nella logica manichea dell’amico/nemico) una realtà invece complessa. Eco scriveva: “L’Apocalisse è un’ossessione del dissenter, l’integrazione è la realtà concreta di coloro che non dissentono”. Ma oggi chi dissente – e ricordo ancora che la Collana che dirigo per Jaca Book si intitola appunto Dissidenze – non richiama l’Apocalisse anche se è facile etichettarlo come apocalittico, così come è facile denigrare Greta e i giovani pro-clima. Quelli che vengono definiti apocalittici sono piuttosto i responsabili, coloro che guardano avanti e richiamano l’attenzione di tutti sui rischi che stiamo correndo in termini di cambiamenti climatici e di disuguaglianze sociali crescenti; i veri apocalittici semmai (nel senso che l’Apocalisse la producono deliberatamente e nichilisticamente) sono i negazionisti dei mutamenti climatici, i neoliberali che scrivono di capitale umano, i tecnofili sempre e comunque e quel tecno-capitalismo che sfrutta anche i disastri ambientali generati dalla irresponsabile volontà di potenza di tecnica e capitalismo, per fare comunque profitti – è la shock economy secondo Naomi Klein – o chi boccia ogni ipotesi di green new deal.

E gli integrati sono invece coloro che non dissentono, che oggi si adattano alle esigenze della rivoluzione industriale secondo il pensiero neoliberale e il determinismo tecnico, coloro che dicono che bisogna retribuire il lavoro di produzione di dati per alimentare il consumo, cioè la disruption dell’ecosistema. Il concetto di integrati richiama poi quello di integrazione che a sua volta richiama le forme e le norme con cui si esprime – di nuovo – ogni potere/sapere di organizzazione eteronoma. Perché ogni processo pianificato per generare integrazione di ciascuno dentro a una forma organizzata/organizzativa (o amministrata, secondo i francofortesi) vuole ottenere utilità e docilità (Foucault) da parte di ciascuno (cioè il suo integrarsi, identificarsi con l’organizzazione e non dissentire, se non sui temi permessi dall’organizzazione). O il suo farsi mansuefatto (Nietzsche). Comunque, rinunciando volontariamente a perseguire i propri interessi e a sciogliere invece la propria identità in quella dell’organizzazione (lo diceva mezzo secolo fa già J. K. Galbraith nel suo saggio sulla società industriale; lo ribadiva Marco Revelli analizzando il sistema Toyota), divenendone appunto parte funzionale, cioè perfettamente integrata/identificata e oggi ibridata con l’organizzazione. Il potere moderno è infatti una forma pastorale di potere (ancora Foucault), religioso/integrante, produttore di integrazione/identificazione con il gregge e di spirito gregario, anche se illude ciascuno della sua massima libertà purché resti entro i confini del gregge, oggi virtuale. A questo serve – sì, a questo serve – la psicologia industriale e del lavoro, questo si insegna nei corsi di management e di economia o nei master di neuroeconomics: a modellare l’identità individuale facendole assumere, ciascuno attivato eteronomamente a introiettarla liberamente, l’identità dell’organizzazione. A questo serviva ieri il paternalismo imprenditoriale o la disciplina taylorista, o l’auto-attivazione secondo Toyota, a questo serve il neoliberalismo, a questo servono oggi i manager empatici con i dipendenti, il welfare aziendale, a questo serve l’utilizzo dei social per rafforzare il senso di appartenenza all’impresa/brand di consumo, a questo servono tutte le tecniche motivazionali (nell’impresa come nei social-impresa, come nelle brand community, come nei movimenti-impresa populisti), per far fare liberamente a ciascuno ciò che serve all’organizzazione (lavorare, consumare, produrre dati, delegare al pastore/leader/manager). Anticipando e rimuovendo il possibile conflitto del lavoratore con l’impresa e generando invece una sua collaborazione con l’impresa, o trasformando il consumatore in prosumer che collabora e vende lavoro gratuito in cambio di emozioni di consumo di breve durata offerti dal brand.

Zero autonomia, molta eteronomia (e molta attivazione eteronoma di dopamina) ma mascherata da autonomia. Questa è la forma assunta – e questa è la normalizzazione prodotta – dal potere/sapere manageriale, dal marketing, dall’industria culturale di ieri e di oggi – come pure dal populismo politico, dove il populista si comporta come un manager empatico e motivatore verso i dipendenti/popolo, per accrescere il profitto politico per sé come populista e per il suo movimento-impresa. Questo modo di costruirsi e legittimarsi del potere – oggi biopolitico/bioeconomico/biotecnico – è diversissimo dal potere del passato (anche se la retorica e la persuasione esistono da sempre), proprio per la scala su cui si esercita e per il modo industriale/microfisico/amministrato con sui si esprime e oggi ha una capacità pervasiva e invasiva/persuasiva molto maggiore di ieri anche per la tecnologia.

Io quindi scavo e cerco di portare alla luce ciò che non è evidente o che è ancora nascosto – come appunto l’alienazione, che tu continui a non voler vedere. Perché anche il potere moderno usa le stesse tecniche – da industria culturale – usate dall’abate Suger, citato da Eco, e per il quale nelle cattedrali medievali le sculture, i rilievi, le immagini sulle vetrate dovevano comunicare i misteri della fede, l’ordine dei fenomeni naturali, le gerarchie, le vicende della storia patria. Cioè il potere non necessariamente deve essere esplicito, meglio se resta nascosto alla vista perché in tal modo si fa più pervasivo ed efficiente/efficace nella sua azione pedagogica, pastorale, governamentale, amministrativa.

Ritorno ancora a ciò che Eco scriveva: “Allora è chiaro che l’atteggiamento dell’uomo di cultura (…) deve essere lo stesso di chi, di fronte al sistema di condizionamenti era del macchinismo industriale non si è posto il problema di come tornare alla natura, e cioè a prima dell’industria, ma si è chiesto in quali circostanze il rapporto dell’uomo al ciclo produttivo riducesse l’uomo al sistema e come invece occorresse elaborare una nuova immagine di uomo in rapporto al sistema di condizionamenti; un uomo non liberato dalla macchina, ma libero in rapporto alla macchina”. Che è tale – aggiungo – non se si retribuisce il lavoro di produzione dei dati, perché questo significherebbe farsi – per l’uomo – ancora più integrato nella macchina, divenendo ancor di più funzionale/integrato/identificato con il sistema; ma che è libero se si libera (libero in rapporto alla macchina) da ciò che la macchina/sistema di potere tecno-capitalista vuole ottenere da lui (appunto, i dati, l’amministrazione della sua vita, la sua governamentalizzazione) a produttività crescente, nella logica tecnica della massima efficienza per la massima produttività, alla massima velocità e con la massima inconsapevolezza di ciò che si sta facendo (e anche questa è alienazione, che si chiama identificazione con l’apparato). E se all’apocalittico (Eco) “si rimprovera di non tentare mai uno studio concreto dei prodotti e dei modi in cui vengono davvero consumati”, riducendo i consumatori a una categoria feticcio e negando in blocco il tentativo di far emergere le categorie strutturali del consumo, ebbene questo è proprio ciò che fa anche l’integrato – ma direi anche il nuovo realismo. Apocalittici e integrati e nuovi realisti vivono appunto di categorie feticcio – le hai usate sopra – che rimuovono l’analisi o magnificano la realtà per come essa appare – ma non per come essa è. Per cui, pur non essendo un apocalittico, chiudo questa lunga parte riconoscendo tuttavia, con Eco (1964), che senza le requisitorie degli apocalittici non riusciremmo a comprendere la realtà appunto per ciò che è e “nessuno si sarebbe accorto che il problema della cultura di massa” – oggi trasferitasi nel virtuale/digitale – “ci coinvolge sino in fondo ed è segno di contraddizione per la nostra civiltà” – come oggi lo è il tecno-capitalismo che genera il problema del riscaldamento climatico e delle disuguaglianze crescenti.

Da ultimo, visto che lo hai citato, ricordo (da non marxista quale sono, come anche lui si definiva) che per Marx occorreva arrivare alla dissoluzione del modo di produzione e della forma di società fondati sul valore di scambio – che invece tu riaffermi anche per il lavoro di produzione di dati (retribuzione in s-cambio di dati); che obiettivo dei lavoratori non doveva essere solo un equo salario per un’equa giornata di lavoro (quello che di fatto proponi tu), ma la totale eliminazione del lavoro salariato – che tu ancora invece ribadisci; e che solo il decremento delle ore destinate al lavoro e non il loro aumento, avrebbe permesso “il libero sviluppo delle individualità”, lo sviluppo artistico e scientifico degli individui “grazie al tempo divenuto libero” dal lavoro. Per Marx, inoltre “la ricchezza reale non è l’imposizione di tempo di lavoro supplementare, ma il tempo che viene reso disponibile a ogni individuo e a tutta la società fuori da quello usato nella produzione immediata”, siano esse merci o dati o le due cose insieme. Il problema, non è quello di trovare altre forme per distribuire reddito a lavoratori che saranno sempre più sostituiti dalla automazione, quanto di governare i processi tecnici e capitalistici, evitando di esserne governati a nostra insaputa. Il problema è quello di rovesciare un sistema tanto dis-umano da volersi appropriare anche della mia vita (i dati) a fini di profitto. E se i lavoratori saranno sempre più sostituiti dalle macchine, questo accade perché si resta nella logica tecno-capitalista e neoliberale dell’efficienza e del profitto e della alienazione; se invece si cambiasse modello economico, ad esempio adottando un green new deal, il lavoro non scomparirebbe, crescerebbe di milioni di posti di lavoro, sarebbe un lavoro ad alta utilità sociale e ambientale, ciascuno sarebbe forse allora davvero non alienato perché lavorerebbe per le generazioni future e per la manutenzione della casa comune che si chiama biosfera.

E allora riparto dal titolo dato da agendadigitale al tuo articolo: Come dalla fatica siamo passati (gratis) alla mobilitazione”. Se questo è vero, ed è vero allora abbiamo (usando Marx) il massimo di plusvalore per il capitalismo e il massimo di pluslavoro in carico ai lavoratori. Direi e ribadisco che questa è alienazione, che tu dici essere invece scomparsa.

M.F. Non prendertela, ma se la vedi così è perché manchi di pensiero critico. Il problema più grande, al di là dei nostri discorsi, è il che fare, la formulazione di una politica di sinistra per il futuro. La sinistra è in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti, e stenta a darsene dei nuovi. Il mandato otto-novecentesco della sinistra, la socializzazione del plusvalore del capitale industriale, è stato realizzato dalle socialdemocrazie europee, e i tradizionali elettori della sinistra si dividono in due parti.

Una minoritaria, “l’élite”, per la quale in effetti i cambiamenti politici contano poco, visto che vota a sinistra in base a convinzioni etiche. Un’altra maggioritaria, “il popolo”, che, avendo incassato i benefici della socializzazione del capitale industriale, non è più interessata a un voto a sinistra perché la produzione non è più in carico ad agenti umani (gli operai), e il rischio è piuttosto quello di perdere i privilegi acquisiti, per esempio spartendoli con i migranti. La competente maggioritaria, dunque, vota a destra (esemplarmente, ed è un fenomeno vecchio di trent’anni, le regioni che passano dal comunismo al leghismo).

Sin qui tutto normale, e persino ovvio. Il problema è che di fronte a questo la sinistra non vede che il problema non è fidelizzare la minoranza etica, ma riottenere i voti della maggioranza opportunistica. I messaggi sono allora o la scimmiottatura inefficace degli slogan di destra, o la ricerca di nuovi elettori improbabili per ragioni di fatto (se le destre bloccano i migranti, quelli non ti voteranno mai) o di diritto (gli animali e l’ambiente non votano).

Più sensatamente, la sinistra dovrebbe mettere a fuoco il nuovo compito che ha di fronte a sé. Prima di tutto, capire che i lavoratori, se per “lavoro” si intende la fatica e l’alienazione, sono una minoranza in via di estinzione, almeno alle nostre latitudini. Vale la pena di osservare che quando si tratta di parlare di fatica, ci si riduce a tre esempi: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon, tre funzioni che saranno presto svolte dai droni. E che quando si tratta di fare esempi di alienazione è difficile parlarne in senso proprio (gli stessi gesti ripetuti per ore, giorni e anni) ma si è costretti a sostenere che dopotutto chi si spara l’integrale di Narcos in un week end un po’ alienato lo è.

In secondo luogo, occorre comprendere che il lavoro è oggi produzione di valore. Nel momento in cui le macchine si occupano della produzione, assolvendo la funzione che nel mondo classico era assolta dagli schiavi (e questo spiega perché il mondo classico è stato poco interessato all’automazione: non ne aveva bisogno) resta all’umanità una sfera che può essere concettualizzata complessivamente come responsività, e che si articola in invenzione, mobilitazione e consumo.

L’invenzione è trovare usi per i prodotti, seguendo l’esempio di Duchamp, che ha trovato nuovi pensieri per orinatoi, scolabottiglie e ruote di bicicletta e che l’umanità ripete collettivamente giorno dopo giorno (non è per una decisione individuale ma per una invenzione collettiva che il telefonino è diventato il centralizzatore della realtà sociale). La mobilitazione è l’attività di generazione di dati che ci impegna in ogni momento, e che vale molto più della classica produzione (i turisti che affollano le calli di Venezia producono molto più valore che se scavassero in miniera). E il consumo è il fine ultimo che conferisce senso al sistema, ciò senza cui la produzione sarebbe futile, e soprattutto l’unica cosa in cui nessuna macchina potrà mai sostituire un umano, visto che è una funzione che richiede necessariamente un organismo: possiamo costruire macchine che fabbricano e distribuiscono sushi, non macchine che li consumano.

Invenzione

Incominciamo con l’invenzione. Il manager che pensa di essere un creativo perché ha trovato un modo per truffare il prossimo o per tagliare sulle spese non è un creativo, ma un furfante o un avaro per conto terzi. Quello che però sta commettendo è molto più che un crimine, su cui insistono i moralisti: è un errore. Resta una figura di secondo piano, una mezza tacca, e sarà sbattuto via alla prima occasione.

L’invenzione è un’altra cosa, è appunto il “creare un nuovo pensiero per quell’oggetto”, con cui Duchamp ha sintetizzato il principio ispiratore del ready made: prendere prodotti già esistenti (orinatoi, ruote di bicicletta, scolabottiglie), inventando nuovi valori e significati per quegli oggetti; e concepire una funzione differente per il lavoro di artista, ormai sganciato dalla necessità (e dalla risorsa) della produzione. Questa funzione alternativa è la stessa che viene richiesta a ogni manager, sviluppatore di app, ecc., che si trova oggi nella condizione in cui si sono trovati gli artisti nel XIX secolo, che si sono confrontati con la scomparsa della loro funzione principale, la rappresentazione realistica di persone e cose.

Nel momento in cui la produzione di merci è automatizzata, ciò che compete all’umano è l’invenzione degli usi, spesso imprevisti, degli oggetti. Il paradigma è l’’iPhone: immaginare un nuovo uso per i cellulari. Ma si pensi ai taccuini Moleskine, concepiti nel 1997, ossia in un’epoca in cui a rigore non ci sarebbe più stata carta, sostituita dai computer, e che hanno invaso il mondo non con una novità, ma con una anticaglia scomparsa dalle cartolerie almeno mezzo secolo fa, e che si ripresenta non nelle cartolerie, ma negli aeroporti, nei negozi delle università americane, nelle convention e nei convegni.

Ovviamente, l’invenzione è una funzione di élite, su cui non si può immaginare di costruire il futuro della intera umanità, perché i colpi di genio sono rari, capitano a pochi, e quei pochi devono essere fortunati e trovarsi al posto giusto e al momento giusto. Però ci sono ambiti in cui il nuovo uso nasce da pratiche umane: si pensi alle piccole invenzioni nella moda o nella creazione di tendenze (che al momento sono riconosciute solo come attività degli influencer, che a loro volta si pensano più come pubblicitari, come uomini o donne sandwich, quando potrebbero, loro o altri meglio di loro, diventare inventori), oppure all’invenzione di app, che sono altrettanti nuovi (piccoli o grandi) pensieri per quell’oggetto che è uno smartphone.

In cosa consiste l’apporto umano, qui? Nella produzione? Ovviamente no, lo smartphone è già fatto (da altri, e nel futuro da macchine) proprio come l’orinatoio di Duchamp. L’apporto umano consiste nel consumo, che è manifestazione di bisogni e desideri, dunque anche nel conferimento di nuovi fini all’oggetto. Cioè nella creazione di una teleologia che, ben lungi dall’essere soppressa, è potenziata dalla tecnica. È vero in altri termini che la tecnica fornisce mezzi e non fini, ma si trascura che la crescita dei mezzi comporta una moltiplicazione dei fini, ossia una fioritura umana infinitamente più grande di quella dettata dalla penuria.

In tempi non lontani l’intellettuale era colui che aveva una biblioteca in casa e una mazzetta di giornali sotto il braccio. Quello che oggi ha chiunque possieda un telefonino. Scrive stupidaggini? Certo, ma la colpa è del suo cervello, non del Kapitale. Scrive cose intelligenti? Certo, e il merito è del suo cervello e non del Kapitale. E questo, ovviamente, vale per i tempi del telefonino come in quelli della biblioteca e della mazzetta di giornali. Gli intelligenti ci sono sempre stati, così come gli imbecilli, e gli imbecilli sono stati sempre prevalenti, solo che una volta erano più silenti di adesso. Così che oggi si ha l’impressione infondata che la prevalenza del cretino sia un fenomeno attuale, mentre è eterno, e oggi (per quello che è un lodevolissimo fenomeno di democratizzazione dell’accesso) questa prevalenza è più documentata. Del fatto che gli imbecilli fossero prevalenti anche all’epoca delle biblioteche e dei giornali è prova eloquente il pantheon di pensatori radicali sbeffeggiati da Marx e Engels nella Ideologia tedesca, e ci sono parti della Dialettica della natura che lasciano pochi dubbi sul fatto che anche Engels non sfigurasse nel pantheon degli imbecilli.

La prevalenza del cretino, però, non è che il lato triste di un processo più generale, che è il progresso dell’umanità, garantito dalla tecnica, e in cui l’umanità (a meno di essere completamente cretina) è chiamata a dare il suo contributo non già rimpiangendo i beati anni del castigo, della produzione e della alienazione, ma piuttosto ripensandosi come portatrice di bisogni, di desideri, di consumi, e dunque come generatrice di fini. In definitiva, pensare che l’attività (la produzione) è il bene e la passività (il consumo) è il male, è porsi sotto una pesante ipoteca metafisica, quella che fa dire ad Aristotele che l’uomo è superiore alla donna. E per giunta significa prendere solo una metà incompleta di questa ipoteca. Perché non dimentichiamoci che per Aristotele la forma più alta di attività è il motore immobile dell’universo, il pensiero di pensiero, il fine in sé. Nel momento in cui la produzione è automatizzata e in capo agli umani non resta che il consumo, siamo nella condizione di fare dell’umanità il motore immobile che dà il fine a tutto il processo. Che senso ha, a questo punto, criticare la tecnica e rimpiangere il passato? Solo quello di risparmiarsi la fatica di concettualizzare il presente e progettare il futuro.

Mobilitazione

Dunque, se l’invenzione è per pochi, i molti cosa fanno? E cosa fanno i pochi quando non hanno colpi di genio? Non è detto che il manager che si fa guidare dal lupo di Wall Street produca, nella sua attività professionale, più valore di quanto non ne produca vagando per premiarsi della sua fatica su TripAdvisor, per migliorare le proprie prestazioni cercando altri manuali su Amazon, o perso per perso, su Tinder o direttamente su YouPorn per consolarsi dei propri fallimenti.

Così fan tutti e tutte, d’altra parte. Ognuno di noi, che lavori in senso canonico o che ozi in senso non meno canonico, produce dei dati che prima non produceva, con quella che ho chiamato “mobilitazione”, l’incessante attività che eroghiamo sul web. Per noi, magari, è tempo perduto, ma non lo è per chi sa raccogliere i dati e interpretarli. Perché quei dati, prodotti da persone convinte di non produrre, o che stanno producendo altro, rispondono a domande essenziali per la produzione e distribuzione di oggetti: a chi può interessare questo prodotto? dove? per farci cosa? in che quantità? a che prezzo? Nel momento in cui l’automazione ha risolto il problema della produzione, il valore aziendale più grande non è più l’accesso alla manodopera, ma ai clienti.

Produrre non costa niente o quasi, il problema oggi è sapere cosa produrre e dove distribuire. Il successo di Amazon, che non ha mai prodotto un bene, e che si limita alla distribuzione e alla conoscenza del mercato, è da questo punto di vista esemplare. Di fatto, queste conoscenze, che hanno il prezzo di una analisi di mercato, solo sono molto più accurate, hanno un valore inestimabile, dunque anche un prezzo stimabile, e vanno concettualizzate come lavoro da parte di chi ne trae vantaggio. Si tratterebbe allora di concettualizzare Amazon come una azienda in cui lavoratori non sono i magazzinieri (presto e fortunatamente sostituiti da droni), ma gli utenti, che permettono agli algoritmi precise e attendibili analisi di mercato e pianificazioni della produzione e della distribuzione, e che, con la retribuzione che percepiscono, incrementano il ciclo produzione (automatizzata e a costi bassissimi)/distribuzione (ottimizzata dalle conoscenze assicurate dalla mobilitazione)/consumo.

Coltivare l’immaginario dell’imprenditore di se stessi è una scemenza, e siamo tutti d’accordo: solo un imbecille può credere a quella favola. Ma chi vi contrapponesse un ritorno agli altiforni e alle miniere sarebbe un imbecille ancora peggiore. La via da seguire è un’altra, quella appunto di una diversa concettualizzazione del lavoro. Ho parlato della invenzione e tra poco ritornerò sul consumo, ma ora vorrei svolgere una riflessione sulla mobilitazione.

Lottare contro la mobilitazione proponendo di spegnere i cellulari è una battaglia persa in partenza, proprio come lo sono state tutte le battaglie contro la tecnica e il progresso. Per quanto ne sappiamo, l’unica nazione che a un certo punto ha chiuso le porte al progresso è stato il Giappone nel Cinquecento, per ideali non nobilissimi, e cioè perché era consapevole del fatto che la tecnologia avrebbe posto fine al feudalesimo. Ma sappiamo anche che dopo il 1867 queste porte sono state riaperte, anzi spalancate, creando anzi quei modelli che deprechi. Dunque in tutta la storia umana non conosciamo un solo esempio di rifiuto del progresso, tranne, appunto, nel Giappone cinquecentesco, nell’Orlando furioso (Orlando che distrugge l’archibugio di Cimosco) e in altri esempi di letteratura fantastica tra cui si annoverano le teorizzazioni della decrescita felice e le deprecazioni dell’alienazione dell’uomo moderno nell’età della tecnica.

È buona regola non lottare contro la natura (in questo caso, la natura umana) ma imbrigliarla. Invece che scrivere leggi contro il telefonino, che non saranno osservati da nessuno – chiunque viaggi in un vagone silenzio di Trenitalia potrà rendersi conto della inutilità degli editti – si tratta di imbrigliare la natura umana, e di riconoscerne la potenza. Con tutto quello scrivere, leggere, guardare, postare, scemenze, oscenità e sublimità, comunicarsi dati in sé irrilevanti, comprare a destra e a manca, e ovviamente leggere saggi di filosofia, di sociologia e del lavoro e di mistica renana, l’umanità fornisce una mappatura di sé che si sarebbe tentati di definire “senza prezzo”, ma che un prezzo ce l’ha, e può essere stabilito dal mercato e retribuito.

Retribuito e non pudicamente censurato, come si pretende oggi imbandendo lai senza fine sulla infrazione della privacy. Qui l’ingenuità si mescola a una forma di presunzione che non manca di far pensare. Persone che nessuno ascolta, in famiglia e sul posto di lavoro (chi ce l’ha) scoprono che il Grande Fratello sarebbe interessato alle loro credenze, e che Amazon è stato messo in casa loro dal Kapitale per carpire i loro pensieri. Ma figuriamoci che cosa può importare al Kapitale dei loro pensieri, che lasciando indifferenti anche i loro cari e i loro colleghi. Questa la presunzione. Non stupisce allora che chi è afflitto da idee di questo genere possa essere così ingenuo da pensare che basti una legge per garantire la privacy. Alle piattaforme non si riesce nemmeno a far pagare le tasse, figuriamoci se si riesce a far garantire una cosa, come la privacy, che è facilissima da eludere, appunto perché è segreta!

Invece di giocare a rimpiattino si tratta di riconoscere che il problema della mobilitazione non è che infrange la privacy, ma che è una attività redditizia (produce valore) ma non è pagata. La mobilitazione sul web va dunque concettualizzata come un fenomeno analogo alla borsa (dove si ammette senza difficoltà che si creano dei prezzi scommettendo sul futuro e sul comportamento degli esseri umani) solo molto più redditizia, perché qui non si tratta di tirare a testa o croce sulla crescita di un titolo e di un settore, ma di conoscere con esattezza i bisogni umani, diminuendo vertiginosamente il rischio d’impresa e massimizzando il profitto. Senza parlare poi del fatto che mentre la borsa produce ricchezza solo in chi ha capitali da investire, la mobilitazione genera enormi plusvalenze che possono rilanciare il welfare state, l’educazione e la giustizia sociale.

Consumo

E con questo veniamo al terzo concetto-chiave del lavoro del futuro, il consumo. Anche qui, il manager che segue il game plan di The Wolf of Wall Street (un martini cocktail, poi un altro dopo sette minuti e mezzo, e poi altri alla cadenza regolare di cinque minuti) produce più valore che non con l’applicazione della strategia di Zarathustra o di Sun Tzu. E lo produce perché questo vale non solo per lui, ma per l’intera umanità.

Si pensi a quanto dicevo parlando della responsività: il consumo è la proprietà umana fondamentale, dal momento che è la caratteristica di un organismo incrementata attraverso le possibilità e i bisogni generati dalla tecnica. E il consumo è ciò che muove tutto, e che, ricordiamolo, diversamente dalla produzione non può essere automatizzato: posso immaginare una macchina che fabbrica e distribuisce sushi, ma una macchina che consuma sushi è un nonsenso, come sarebbe un non senso produrre sushi in assenza di consumatori di sushi. Se una volta il problema era trovare manodopera, oggi il vero problema è trovare consumatori. O meglio, fare in modo che possano pagare. Il primo passo in questa direzione è concettuale, e consiste nel concepire il consumo come lavoro, perché è la massima produzione di valore.

Questa può apparire una mossa paradossale, ma è non solo necessaria, ma anche oscuramente presente in tutti noi, che siamo perfettamente consapevoli del fatto che la condizione di possibilità della produzione è il consumo. La vedeva benissimo Platone, che ricordava che il giudizio intorno alla validità della produzione deve essere formulato dal consumatore: la qualità di una sella la giudica il cavaliere, non il sellaio. In Platone, così come nello sguardo di chiunque sino all’avvento di una automazione perfetta, la centralità del consumo era nascosta dalla necessità della produzione. Ma nel momento in cui la produzione è automatizzata, è necessaria una trasformazione concettuale all’altezza del nuovo tempo, che renda possibile riconoscere che la cosa più importante al mondo, quando la produzione è risolta, è il consumo, ossia l’umano. Se la produzione, in quanto parte meccanica dell’umano, è teleologicamente predisposta all’automatizzazione, il consumo, in quanto parte organica dell’umano, è ciò che non può venir in alcun modo automatizzato, per ragioni non etiche ma ontologiche, quelle che ho ricordato parlando di “responsività”.

Ovviamente, si tratta di capire come pagare il consumo, ma il problema è meno grande di quanto non paia. Il plusvalore generato dall’abbattimento dei costi generato dalla automatizzazione e dalla possibilità di produzioni e distribuzioni mirate consentite dalla mobilitazione è tale da poter creare, se ridistribuito, capacità di consumo che si tradurrà in nuove plusvalenze. Piuttosto paradossalmente, il problema consiste piuttosto nel capire che cosa faranno i manager, che tipo di valore saranno in grado di generare oltre a quello che (come tutti gli altri) producono come mobilitati e come consumatori, e al di fuori dei rari momenti di pensiero laterale (che per molti potranno non aver luogo mai) in cui inventeranno qualcosa.

Ancora un punto che merita di essere notato. Ci si può giustamente domandare se una massa passivizzata di consumatori non sia una umanità degradata. In effetti, lo è, ma è comunque meno degradata di una massa alienata (per davvero) in condizioni di lavoro disumane, quella che ha conosciuto Marx ai suoi tempi. Per uscire dalla degradazione, o banalmente per migliorare, non sembra una grande idea rilanciare la produzione e l’orgoglio del lavoro ben fatto del Faussone di La chiave a stella, visto che per l’appunto proprio della produzione non sappiamo cosa farcene. Quello che si può fare, al contrario, è accrescere il consumo culturale, l’educazione permanente, l’otium, insomma, senza andare a cercare delle improbabili forme di negotium. Che sono, di nuovo, delle condizioni rese possibili dalla socializzazione del plusvalore documediale, ma che non si produrrebbero qualora si decidesse di tirare diritto con l’antiprogressismo, il sovranismo, il rimpianto delle officine del tempo che fu e la concentrazione fissativa sui rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon (dei dipendenti dei call centre non si parla più perché nel frattempo sono scomparsi, così come scompariranno rider, raccoglitori e magazzinieri).

Rivoluzione

Magari c’è stato chi ha rimproverato a Marx di occuparsi di Capitale invece che di Sapere Assoluto, ma Marx avrebbe potuto rispondergli che il Capitale era la cosa più vicina al Sapere Assoluto che l’umanità avesse mai saputo creare. E quando mi sono occupato di ontologia del telefonino non è stato per fare una cosa che piacesse ai lettori (sarebbe stato stupido: ai lettori piacciono i telefonini e non i libri sul telefonino, così come piace il sesso e non i libri sul sesso, ed è incredibile quanti autori si ingannino in materia). È stato perché (come Marx) sono convinto che negli apparati tecnici si manifestino i caratteri fondamentali della realtà sociale. Il Web, se vuole, è la mia tela, e il telefonino è il mio telaio. È qui che si manifesta la rivoluzione documediale, che non può essere compresa (e sfruttata per il bene dell’umanità) nei termini della rivoluzione industriale.

La prima cosa necessaria, oggi, è chiudere i libri di Sun Tzu e di Marcuse, e guardare al circolo invenzione/mobilitazione/consumo con una rivoluzione che, finalmente, non consiste in una presa di potere politico che lascia tutto come prima, ma in un cambiamento del mondo di pensare, in un rovesciamento della prospettiva, che compia, nel mondo sociale, la stessa rivoluzione copernicana che Kant propose per il mondo della conoscenza.

Tanto la rivoluzione documediale quanto la rivoluzione copernicana consistono nel mettere al centro l’umano. Nel caso di Kant la rivoluzione consisteva nel mettere in primo piano le caratteristiche del soggetto conoscente rispetto all’oggetto conosciuto. Nel nostro caso si tratta di mettere in primo piano le caratteristiche uniche dell’umano, che non sono la produzione e l’alienazione (accidenti storici e incidenti di percorso) ma il consumo, l’invenzione e la mobilitazione.

Nel momento in cui le macchine fanno il grosso, e dunque agiscono in maniera organizzata e coordinata (una macchina serve appunto per eseguire un programma), ossia per assecondare una finalità esterna diviene centrale mettere a fuoco quella macchina che è l’organismo, che è dotata di una finalità interna, la propria conservazione (altro modo per dire, se vogliamo, che non ha fini e che non serve a niente), e che si fa portatrice di quella funzione capitale, che fornisce significato a tutto il sistema, e che è il consumo.

Dunque, il capitale umano finalizzato alla produzione è un capitale umano destinato all’estinzione, è l’Homo faber erede delle mani che lavorano nei campi e nelle officine, che si stanca e che si aliena. Questo capitale umano resta di seconda scelta anche se usa le mani per adoperare un tablet, se la funzione che svolge può essere automatizzata.

Il passaggio al capitale umano di prima scelta ha luogo appunto, e del tutto ovviamente, quando il meccanismo incontra l’organismo, cioè il sistema dei bisogni e dei consumi. Cuochi, sarti, politici, rock star, e ovviamente scrittori, registi e filosofi, raggiungono l’eccellenza non solo perché sono capaci di maneggiare degli apparati tecnici (questi apparati sono indispensabili, e diventeranno sempre più autonomi) ma perché sono capaci di capire quel misto di meccanismo e organismo che sono gli umani.

Chi paga?

Immagino la domanda. Chi paga in tutto questo circolo virtuoso per cui gli umani inventano usi, informano sui comportamenti e i bisogni, e soprattutto consumano, mentre le macchine producono e distribuiscono? Ovvio: coloro che accumulano il massimo plusvalore, le compagnie di raccolte dati che ci danno informazioni che valgono 1 (che tempo fa a Roma, che Notre Dame brucia…) e in cambio raccolgono informazioni che valgono 1000: quanti hanno cercato il tempo a Roma o il rogo di Notre Dame, che cosa hanno cercato gli altri, dove si trovavano, e via classificando, non per sorvegliare, ma per vendere meglio.

Al plusvalore prodotto dalla asimmetria dei dati si aggiunge quello che deriva dalla asimmetria del calcolo. Noi siamo esposti al sovraccarico dei dati, Watson no, e può rendere significativi anche dati del tutto irrilevanti dal punto di vista umano perché incalcolabili.

Se Zingaretti dicesse “facciamo pagare Google”, direbbe qualcosa di utile e – se si premurasse di spiegare e di spiegarsi la cosa – riceverebbe un bel po’ di voti. Ma lui preferisce dire che tiene all’ambiente o alla nostra cara patria. Il che non è diverso da Berlusconi con l’agnello in braccio, e che soprattutto molto prima di lui è sceso in campo dicendo che l’Italia è il paese che ama, ma anche promettendo qualcosa di più concreto, cacciare i comunisti, che significava appunto rassicurare i beneficati di quarant’anni di socialdemocrazia che la caduta del muro e il venir meno del vantaggio strategico dell’Italia non li avrebbe costretti a rinunciare ai loro soldi. E l’Italia gli è venuta concordemente dietro. Sarebbe stato strano, oggettivamente, se fosse andata dietro a Occhetto.

Chi fa pagare?

Seconda domanda: ma chi li fa pagare? La sinistra, sempre che abbia voglia di darsi un obiettivo all’altezza di quelli che ha assolto, con successo, nel secolo scorso. La sinistra del ventunesimo secolo deve impegnarsi nella socializzazione del plusvalore del capitale documediale (così chiamo il nuovo capitale dei big data) proprio come la sinistra del ventesimo secolo aveva socializzato il plusvalore del capitale industriale. Prima di tutto concettualizzando il lavoro non come fatica e alienazione ma come produzione di valore, nel modo che ho descritto sopra. Quando gli elettori che non hanno voglia di lavorare (e non sono interessanti a guadagnare più di tanto) capiranno che possono essere pagati per consumare, e quelli che hanno voglia di guadagnare capiranno che la sinistra favorisce il consumo più di qualunque altra forza politica, e non crea noie sindacali perché tanto il lavoro lo fanno le macchine, il voto tornerà alla sinistra non per effimeri sortilegi elettorali, ma per ragioni strutturali.

La destra vince, e continuerà a vincere, perché ha capito gli elettori e non ha capito il presente. La sinistra perde, e continuerà a perdere, perché non ha capito né il presente né gli elettori. Capire gli elettori non è una impresa ardua, basta pensare che gli esseri umani curano (o credono di curare) i loro interessi. Capire il presente è un po’ più complicato, perché richiede una proiezione sul futuro che manca tanto alla destra quanto alla sinistra, ma che costa cara soprattutto alla sinistra, visto che a suo vantaggio non ha nemmeno la comprensione degli elettori, ma principalmente perché la comprensione del futuro è stata, storicamente, la caratteristica fondamentale della sinistra.

Storicamente, la sinistra è stata la rivoluzione, la destra la reazione. E la rivoluzione è sistematicamente legata alla scienza e alla tecnica. Oggi le parti sembrano essersi invertite. La sinistra si scatena in critiche della tecnica degne dei peggiori conservatori del secolo scorso (non è un caso se nel proprio pantheon accoglie oggi nazisti come Heidegger) e vuole riportare gli orologi della storia a un passato fatto di alienazione, fabbriche, sindacati. Farebbe ridere, se non facesse piangere, perché ricorda il ritorno dei sovrani imparruccati nel 1814, con l’aggravante che quelli almeno lo avevano sconfitto, Napoleone, mentre la sinistra non ha fatto nemmeno quello.

Il Napoleone di oggi viene chiamato “neoliberismo”, ed è un nickname che indica l’incapacità della sinistra di comprendere il presente e di progettare il futuro. Mentre la destra prende atto dei vantaggi concreti, e condivisi, portati dalla tecnica, la sinistra si impegna sul fronte dei migranti, degli animali e dell’ambiente, il tutto con una attitudine virulentemente anti-tecnologica e non riuscendo nemmeno lì a essere originale, visto che trova i suoi spazi già occupati dalle religioni, e in particolare dal cattolicesimo. Senza parlare poi del fatto che la sinistra scimmiotta la destra persino nel nazionalismo, una stupidaggine che non merita commenti per una tradizione che era nata all’insegna dell’internazionale e che rischia di morire di critiche della Globalizzazione del Kapitale Apolide Neoliberista.

A questo punto, alla sinistra restano solo la morale, l’ambiente, i diritti delle minoranze e i diritti degli animali. Tutti temi perdenti rispetto alle rivendicazioni della destra, che appaiono molto concrete, e si concentrano sul mantenimento dei vantaggi sociali ottenuti nella prima metà del secolo dalla socialdemocrazia. L’unica via di uscita per la sinistra è battere la guerra tra i non più poveri e i migranti attraverso la socializzazione del nuovo capitale documediale, proprio come le democrazie avevano battuto il fascismo socializzando il capitale industriale.

In questa prospettiva, come abbiamo visto, l’alternativa di sinistra consisterebbe nella socializzazione del plusvalore documediale attraverso un rilancio della politica socialdemocratica, che offrisse alla sinistra una alternativa al ricorso all’etica, al moralismo e al biasimo che costituisce la principale attività delle sinistre nell’ultimo mezzo secolo.

Ciò che viene chiamato Kapitale e Neoliberismo è, banalmente, il progresso, che non va ostracizzato, ma compreso. Invece che sostenere che il lavoro come alienazione e fatica è ancora fra noi, che non è vero, la sinistra dovrebbe chiedere che venisse retribuito il lavoro come produzione di valore. Attirerebbe immediatamente più consensi e, quel che più conta, darebbe una prospettiva per l’avvenire. C’è una grande occasione storica non solo per la sinistra, ma anzitutto per l’umanità, il fatto che l’automazione renderà possibile l’estensione alla umanità intera della forma di vita idealizzata del mondo classico.

Ma principalmente si tratterà di trovare una alternativa alla politica, che nella sua forma democratica compiuta non può che sviluppare dei modelli di corto respiro. Non usare più la politica come riferimento, perché una volta affermatasi come democratica non può che essere una gestione del breve termine orientata a conservare (con strategie di destra) i benefici ottenuti dalla realizzazione del comunismo, ossia dalla socializzazione del plusvalore del capitale industriale attraverso la socialdemocrazia. L’alternativa alla politica va cercata nella valorizzazione dei corpi intermedi, intesi in senso ampio (comprese le fondazioni di origine bancaria, le assicurazioni, le associazioni culturali) che trovano la loro ragion d’essere in uno sguardo transgenerazionale.

E gli ideali?

Terza domanda, per i più esigenti: e gli ideali dove sono finiti? Ci sono, eccome, ma bisogna cercarli al posto giusto e non inseguire anacronisticamente il mondo dei campi e delle officine. Di fronte all’umanità si apre la prospettiva di una vita dedicata interamente alla produzione di valore, quella tanto idealizzata dei Greci e dei Romani, che hanno goduto prima di noi dei benefici dell’automazione, solo che nel loro caso gli automi erano gli schiavi. Loro lavoravano, mentre i patrizi scrivevano e viaggiavano. Proprio quello che potrebbe nel tempo fare l’umanità intera, magari imparando a scrivere cose intelligenti invece che hate speech, e smettendo di identificarsi con una categoria, quella del “lavoratore” che presto apparirà non meno inattuale di quella del “piccolo possidente terriero”. A questo punto élite e popolo (se proprio vogliamo avvalerci di questi termini senza molto senso: Trump, ad esempio, è élite o popolo? È solo un caso di arretratezza culturale) condivideranno davvero gli stessi valori, proprio come oggi (diversamente che nell’Ottocento) condividono gli stessi consumi, e l’umanità avrà fatto un altro passo in avanti.

La fine delle utopie è in effetti il rilancio continuo di retrotopie e di nostalgie di un passato idealizzato e che non si vorrebbe davvero che fosse presente. Chi ritornerebbe al lavoro in fabbrica? Alle famiglie del family day? Smettiamola di chiamare utopia la nostalgia, e impegniamoci piuttosto nel trovare dei fini dell’umano che siano effettivamente rivolti al futuro. La buona domanda consiste nel chiedersi se non sia ora di smettere di porsi come ideale il ritorno a un passato romantico, buono e, quel che peggio, mai esistito, invece che una decostruzione del presente capace di dare quella libertà il cui arduo ma conseguibile presupposto è l’intelligenza.

Ora, è proprio su questo punto che noi, come intellettuali (dunque come figure poco influenti, tranne, quando va bene, sul piano della cultura e delle idee) dobbiamo darci maggiormente da fare, non per evocare spiriti trapassati dell’Alienazione, del Kapitale e della Classe Operaia, non per vedere nel nuovo il semplice ammondernamento del vecchio (questo lo sanno fare tutti, e fa più male che bene) Non basta criticare o (ed è lo stesso) interpretare, si tratta, una volta che si è interpretato e criticato bisogna ricostruire, e in particolare formare nuove categorie. Cosa che in coloro che oggi si appellano alla teoria critica o alla decostruzione non vedo troppo: c’è chi parla di capitalismo, come se fossimo ai tempi di Ford, e chi piange il crollo del comunismo senza prendere in esame l’ipotesi che il comunismo si sia realizzato, e che ci si debba chiedere che cosa fare dopo… I Romantici si lamentavano che in duemila anni l’Occidente non fosse riuscito a creare un nuovo dio, ed è una pretesa eccessiva; più modestamente, si potrebbe chiedere che in duecento anni si crei qualche nuovo concetto, invece che servirsi di uno strumentario fabbricato tra Kant e Marx.

Derrida ha parlato degli spettri di Marx, e ha avviato suo malgrado una pessima tradizione di lamentele, che è consistita nel dire che Marx era morto, ma ritornava come spettro e come esigenza di giustizia. In altri termini, il comunismo non si è realizzato, ma permane come ideale. Questa posizione sta a mezza via fra la trasformazione messianica del socialismo in Hermann Cohen e la danza degli spiriti, i melanconici girotondi a colpi di peyotl degli ultimi nativi americani, ormai rinchiusi in riserve. Oltre alla malinconia, il limite di questa prospettiva è che si limita al messianismo, ossia alla più ingannevole delle prospettive, quella che rinvia sempre più in là il raggiungimento dell’obiettivo. La danza degli spettri è politicamente inutile e socialmente nefasta. Genera depressione in chi legge. Il Capitale non ha perso una battaglia, i suoi antagonisti le hanno perse tutte. Genera euforia in chi scrive. Tutti hanno abbandonato la lotta, solo io continuo a tener duro, insieme a pochi altri accuratamente nominati insieme a una schiera di nobili defunti. Per rifarsi alle categorizzazioni di Adorno, che tanto ami, sei l’ascoltatore risentito, quello che ascolta solo musica barocca. Lascia tutto come prima. E proprio questo è il problema.

Quello che ci occorre non è un revenant, qualcosa che torna dal passato e ci ricorda dei messaggi di giustizia e umanità. Quelli nessuno se li è scordati, e sono ideali a basso costo, fino a che non si realizzano i modi per attuarli, e si elaborano le categorie per comprenderli nell’attualità. Ci occorre un Marx capace di leggere il presente, un Marx del XXI secolo. Mentre il mondo è pieno di marxisti immaginari che non capiscono un accidente del presente e che propongono (o fingono di proporre) rimedi da XIX secolo. È come se Marx avesse suggerito la conquista del Messico come soluzione per la questione operaia del suo tempo.

La necessità che si impone oggi è anzitutto quella di una decostruzione. Può sembrare strano, dopo cinque decenni in cui pare che non si sia fatto altro, ma è noto che non sempre il dire equivale al fare. In particolare, ci sono categorie che attraversano immutate i secoli, senza che apparentemente nessuno ci faccia i conti o, banalmente, si sogni di decostruirle. Chi osserva queste cose viene spesso accusato di essere un integrato, quando non un ottimista. Ma c’è una forma di integrazione maggiore e più confortevole del social grooming che consiste nel condividere le superstizioni della propria tribù, prendendo per buono un anacronismo monumentale che pretende che l’alienazione sia ancora fra noi, offendendo la memoria di coloro che l’alienazione l’hanno davvero conosciuta e subita? E inversamente quale ottimismo ci sarebbe in una antropologia che riconosce l’imbecillità come il carattere fondamentale dell’umano, e come un potere che, diversamente dalla alienazione, è eterno, o almeno attestato in tutta la storia umana che abbiamo conosciuto sin qui.

Cambiamo radicalmente prospettiva, appunto con una rivoluzione copernicana. Marx è morto come succede a tutti, ma le sue idee si sono realizzate attraverso un processo storico complesso, che ha visto impegnati tanto i socialismi reali quanto le socialdemocrazie occidentali. Nel 1945 queste forze hanno messo fuori gioco l’unico antagonista, il fascismo, portatore di una visione antropologica incompatibile, e legata alla intrinseca inferiorità di certi umani rispetto agli altri. Poi, in conflitto tra loro, comunisti e socialdemocratici hanno creato uno l’economia di stato, che ha fallito, gli altri il welfare, che è riuscito, ma che rispondeva alle esigenze del marxismo (ne era una risposta e una versione) tanto quanto lo era il comunismo, E, in più, si è realizzato, assicurando al mondo un grado di benessere senza precedenti che si sta estendendo (e che solo per via di questa estensione può essere interpretato, alle nostre latitudini, come recessione: non siamo in crisi, semplicemente dobbiamo dividere i beni con parti di umanità sempre più grandi. A noi comprendere la trasformazione, e guidarne i passi successivi, guardando in avanti invece che indietro.

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