La settimana scorsa il prof. Paolo Ferri è intervenuto su questo giornale a proposito della vexata quaestio relativa all’esistenza dei “nativi digitali”. Nel farlo ha citato alcune mie ricerche come esempio di “tecno-scetticismo”. L’intervento di Ferri è collegato anche al dibattito su un vecchio contributo di Paolo Attivissimo datato 2013, che è girato nuovamente in rete nelle settimane scorse. Nel suo intervento, Attivissimo aveva fatto riferimento ad alcuni risultati di una ricerca da me coordinata in Lombardia (Gui, 2013) e li usava per mettere in dubbio l’alfabetizzazione digitale dei cosiddetti “nativi”. Ho chiesto perciò alla redazione di agendadigitale.eu di poter replicare, con l’intento di chiarire alcuni punti sollevati nell’articolo. L’occasione è anche propizia per fare una breve sintesi delle ultime evidenze emerse nella letteratura sul rapporto tra uso dei media digitali, competenze digitali e livelli di apprendimento tra gli adolescenti.
Rispondo qui in merito ai riferimenti fatti alle mie ricerche e alle mie posizioni, che nell’articolo sono state accomunate a quelle di Paolo Attivissimo ma che in realtà si distinguono da quelle sia nel contenuto che nelle finalità. Attivissimo, infatti, utilizza alcuni dei risultati di una ricerca da me condotta (insieme ad una squadra di colleghi) per supportare delle sue personali conclusioni. Attivissimo cita correttamente un passaggio del report che mostra le dimensioni più critiche nella competenza digitale di 2500 quindicenni lombardi (riconoscimento critico di indirizzi web; consapevolezza dei meccanismi commerciali del web; valutazione del livello di affidabilità dei contenuti), a cui avevamo somministrato un apposito test nel 2012. Questo risultato, che rappresenta il contraltare di una grande familiarità operativa con i nuovi strumenti da parte dei più giovani, è largamente condiviso in letteratura in ricerche svolte in varie parti del mondo (Hargittai, 2010; Van Deursen&Van Dijk, 2011; Gui&Argentin, 2011). Come ho risposto ad alcune email che mi chiedevano chiarimenti, fino a qui la sua citazione è corretta. La particolare interpretazione che Attivissimo ne ha poi dato è una sua personale lettura di queste evidenze, che non è presente nel report.
L’articolo del prof. Ferri cita poi due mie pubblicazioni in cui viene analizzato il rapporto tra uso delle tecnologie digitali e livelli di apprendimento degli studenti (Gui, 2012; Gui, 2013). Lo fa però parlando di bambini e di schermi interattivi, che non sono stati oggetto di quelle ricerche. Il primo punto è quindi quello di chiarire la domanda di ricerca di quegli studi. La domanda qui è: che relazione c’è tra la frequenza d’uso di Internet a casa e a scuola dei quindicenni e i loro risultati nei test di apprendimento standardizzati (PISA e INVALSI)? I risultati di quelle due analisi mostrano che al crescere della frequenza d’uso della rete l’apprendimento cresce fino ad un certo livello, per poi scendere nuovamente e diventare molto basso in corrispondenza degli usi molto frequenti. In questo modo i livelli di apprendimento più alti si trovano tra gli studenti che fanno un uso moderato delle tecnologie. Queste conclusioni, oltre ad essere convergenti nei due studi, che usano dati diversi, sono anche in linea con quanto trovato da molta letteratura (Thiessen&Looker, 2007; Biagi&Loi, 2013; OECD, 2011; OECD, 2015). Nell’interpretazione di questi risultati ho messo chiaramente in luce come non sia possibile una loro interpretazione causale (l’uso della rete “causa” minore apprendimento), vista la natura dei dati. D’altro canto, questi primi risultati sulla relazione tra uso del digitale a scuola e apprendimento non potevano non porre dei dubbi. Non tanto astrattamente sulla “bontà” del digitale, quanto sul modo della sua introduzione a scuola. In presenza di politiche di diffusione generalizzata delle tecnologie che hanno come obiettivo primario l’aumento dei livelli di apprendimento (vedi per una analisi degli obiettivi delle politiche pubbliche Giusti et al. 2015) questi risultati devono stimolare ricerca più specifica che aiuti a stimare meglio le relazioni causali tra queste due variabili. Nel frattempo, peraltro, sono uscite parecchie ricerche che hanno provato ad isolare e specificare meglio quel rapporto. I risultati sono piuttosto convergenti nel dire che la mera diffusione di tecnologie digitali non ha prodotto in questi anni un aumento dei livelli di apprendimento né in Italia (Checchi et al., 2015, Giusti et al., 2015) né in altre parti del mondo (Barrera-Osorio&Linden, 2009; Cristia et al., 2012).
Questo significa essere “tecno-scettici”? No; significa portare evidenze sugli effetti di un particolare uso dei media digitali nelle scuole in un particolare contesto (per farsi un’idea di come sono usati oggi LIM e computer nelle classi di alcune regioni italiane vedi Giusti et al. 2015). Questo, inoltre, non esclude che utilizzi diversi, sostenuti da formazione specifica e da approcci didattici ben congegnati, possano produrre risultati positivi. Anzi, la letteratura conferma in modo solido che questo avviene (Tamim et al., 2011). Solo che si tratta di un uso del digitale in condizioni diverse, ottenibili più facilmente – almeno per ora – nel corso di sperimentazioni limitate piuttosto che nella distribuzione generalizzata delle tecnologie nella scuola. Si tratta, insomma, di un’altra domanda di ricerca. L’interpretazione che mi sento di dare di quanto sta emergendo dalla letteratura su nuovi media e apprendimento è che la mera distribuzione delle tecnologie nelle scuole non sembra esercitare per ora effetti significativi, ma quando il digitale è utilizzato a supporto di approcci metodologici e obiettivi di apprendimento precisi il suo ruolo positivo sui livelli di apprendimento diventa evidente. Questo senza prendere in considerazione il fatto che i risultati variano a seconda della disciplina, degli strumenti, delle specifiche attività, delle caratteristiche dei docenti e del contesto in cui le tecnologie vengono usate.
C’è inoltre da dire che i livelli di apprendimento standardizzati non sono l’unico indicatore che può misurare l’impatto dei media digitali nella scuola. Ci sono, per esempio, i tassi di abbandono scolastico e il livello di competenze digitali, indicatori poco utilizzati la cui relazione con le politiche di introduzione delle tecnologie digitali a scuola è tutta da esplorare. In merito a questo aspetto, c’è poi una questione che spesso viene sottovalutata nella discussione sui cosiddetti “nativi digitali”, cioè le disuguaglianze che esistono al loro interno. Quei deficit citati da Attivissimo nelle competenze digitali critiche si riscontrano molto di più nei segmenti con meno risorse socio-economiche, mentre sono meno profondi tra i liceali figli di genitori laureati. Ho di recente concluso uno studio che mostra come anche i problemi relativi alla gestione quotidiana dello smartphone sembrano più evidenti nelle fasce meno avvantaggiate degli adolescenti (Gui, 2015). Tutto questo mi porta a dire che l’urgenza, forse ancor più rispetto a quella della didattica digitale, è lo sviluppo e la perequazione di un uso consapevole dei nuovi media.
La questione è, quindi, complessa e si presta sempre meno alla contrapposizione astratta tra apocalittici e integrati. Se questo poteva avere un senso agli albori della rivoluzione digitale, oggi la questione non è essere pro o contro il digitale (che è ormai parte della nostra esperienza quotidiana) ma riguarda gli usi specifici di questi strumenti nei diversi ambiti della nostra vita. La discussione a mio parere va portata molto più nel concreto. Quali sono le conseguenze delle politiche di introduzione generalizzata dei media digitali nelle scuole? Con quali indicatori misuriamo queste conseguenze? Quali le differenze tra diversi tipi di politiche di diffusione (a bando o a pioggia)? Qual è l’impatto di queste politiche sulle disuguaglianze sociali e tra scuole? Quali utilizzi appaiono più promettenti, rispetto a quali indicatori? Qual è la percezione degli insegnanti e degli studenti rispetto a queste trasformazioni? Quali effetti collaterali sono da controllare? Ma queste domande si riferiscono sempre a precise applicazioni, specifici ambiti di utilizzo dei media digitali e metodologie didattiche. Ritengo che la ricerca scientifica possa portare un contributo di criticità in un discorso pubblico che tende per sua natura a generalizzare. E aiutare anche la scuola ad approcciarsi al digitale con un atteggiamento, come scrive bene Rheingold (2012, 49), “entusiastico ma non acritico” rispetto alle novità comunicative.
Bibliografia
Barrera-Osorio, F. and Linden, L. L. (2009), The use and misuse of computers in education: evidence from a
randomized experiment in Colombia. Policy Research Working Paper Series 4836, The World Bank.
Biagi F. & Loi M., Measuring ICT Use and Learning Outcomes: evidence from recent econometric studies, European Journal of Education, 2013, vol. 48, issue 1, pp. 28-43.
Checchi D., Rettore E., Girardi S. (2015), IC Technology and Learning: An Impact Evaluation of Cl@ssi 2.0, IZA Discussion Paper No. 8986.
Cristia, J. P., Ibarrarán, P., Cueto, S., Santiago, A., and Severín, E., (2012). Technology and Child
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for the Study of Labor (IZA).
Giusti S., Gui M., Micheli M. e Parma A., Gli effetti degli investimenti in tecnologie digitali nelle scuole del mezzogiorno, NUVAP (Presidenza del Consiglio dei Ministri), Roma 2015.
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Gui M., a cura di (2013), Indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde, Regione Lombardia, URL http://www.regione.lombardia.it/shared/ccurl/733/622/REPORT_Indagine_Bicocca.pdf .
Gui, M. (2015). Le trasformazioni della disuguaglianza digitale tra gli adolescenti: evidenze da tre indagini nel Nord Italia. Quaderni di Sociologia, (69), 33-55, ULR https://qds.revues.org/515 .
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Tamim, R. M., Bernard, R. M., Borokhovski, E., Abrami, P. C., & Schmid, R. F. (2011). What forty years of research says about the impact of technology on learnin. A second-order meta-analysis and validation study. Review of Educational research, 81(1), 4-28.
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