FILOSOFIA

Internet ergo sum, la grande illusione del tecno-capitalismo

Non fermarsi mai. Non pensare, non studiare. Copia e incolla invece di ragionamento. Sono i paradigmi intorno ai quali la digital transformation articola il totalitarismo moderno che promette massima libertà. Annullandola. Da Marcuse a Gallino, un’analisi delle dinamiche della “industrializzazione della felicità”

Pubblicato il 02 Ago 2019

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

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Digital transformation, quarta rivoluzione industriale, Industria 4.0, Intelligenza artificiale, IoT, smart? In realtà siamo dentro a una ulteriore tappa di una lunghissima rivoluzione industriale così come di una lunghissima modernità il tecno-capitalismo, come lo definiamo e costituito sempre e comunque da accelerazione delle macchine e del tempo; di divisione del lavoro, dell’individuo e della sua vita e poi di integrazione/connessione/sussunzione degli uomini nella mega-macchina tecnica e capitalistica; di mobilitazione totale delle masse (ieri nelle guerre e oggi nell’economia globalizzata e nella fabbrica-rete), grazie all’adattamento e alla coincidenza di ciascuno nel e con il proprio ruolo/funzione di competitore, di leone e di gazzella nella savana del mercato.

Tecnocapitalismo, la grande narrazione

E quindi, le grandi narrazioni otto-novecentesche (le ideologie politiche) non sono morte, come sostenevano i post-modernisti – così come non è finita la storia nel 1989 – ma sono state sostituite da una nuova e globale grandissima narrazione: quella della volontà di potenza della tecnica e del feticismo per l’innovazione a prescindere, coniugata alla volontà di potenza del mercato capitalistico, per l’accrescimento infinito dell’apparato tecnico e del mercato e quindi del profitto del capitale. Il tutto sempre rimuovendo ogni principio di responsabilità per la biosfera e per le generazioni future, la terra e gli uomini essendo stati ridotti a merci e insieme a miniera (Heidegger) da sfruttare al massimo della estrazione di valore, siano esse risorse naturali come il petrolio o risorse umane.

Una grandissima narrazione, egemone e dominante, fatta di retoriche individualistiche, libertarie-anarco-capitaliste ma soprattutto di fascinazione/innamoramento per tutto ciò che è tecnica e comunitarismo tecnico. Agendo sul doppio movimento psicologico degli uomini, quello che li porta da un lato a cercare la differenziazione dagli altri e quello, dall’altro lato, della ricerca di una appartenenza/integrazione/coincidenza con un gruppo/comunità, il sistema di potere attivando ora l’uno ora l’altro e possibilmente insieme (infra). Tutto questo utile a produrre l’integrazione funzionale ma libera di ciascuno nel sistema tecno-capitalista, cioè nella società amministrata (Horkheimer e Adorno) o nel totalitarismo della società industriale avanzata (Marcuse).

L’uomo funzionale: rovesciato l’imperativo kantiano

Perché sempre più il tecno-capitalismo non è un mezzo a disposizione dell’uomo ma – rovesciando l’imperativo kantiano – è l’uomo a essere divenuto mezzo per il funzionamento e parte della mega-macchina (appunto, la sua ibridazione/sussunzione totale nell’apparato), incessantemente spinto a produrre (merci, valore, emozioni, condivisione, dati), a consumare (anche il low cost serve a questo) e oggi a innovare (sempre prescindendo dalla utilità dell’innovazione), alla sua massima prestazione/produttività e creatività.

È la società adescante secondo Neil Postman; è il capitalismo delle emozioni e l’industrializzazione della felicità; è la società della prestazione; è il neoliberalismo come biopolitica secondo Michel Foucault, che governa e orienta e guida la vita dell’uomo nella direzione voluta dal tecno-capitalismo (il neoliberalismo inteso come filosofia politica per far adattare incessantemente la società e gli individui alle esigenze della rivoluzione industriale – secondo Walter Lippmann). Tutto per rendere l’uomo sempre più funzionale – cioè sempre più integrato/sincronizzato/accelerato e connesso e quindi mobilitabile (mobilitabile perché connesso) e soprattutto perfettamente identificatosi/coincidente – con il funzionamento dell’apparato tecnico e capitalista.

Per cui anche la scuola non deve essere luogo dove costruire un pensiero critico – ovvero dove acquisire una conoscenza capace di essere la cassetta degli attrezzi intellettuali per capire il mondo in cui si vive – ma solo una fabbrica fordista-tayloristica (ma in just in time) di competenze per il sistema. Competenze, appunto, per far funzionare la macchina tecno-capitalista, ciascuno ibridandosi con la tecnica e funzionando come la tecnica/algoritmo gli dice di funzionare. E non conoscenze che sarebbero utili invece per capire il senso di questo processo e immaginare un pensiero divergente e dissidente o almeno critico/riflessivo/consapevole per poter governare i processi di innovazione senza esserne, come oggi, governati inconsapevolmente.

I rischi della “didattica delle competenze”

Tutta (o quasi tutta) la scuola modellandosi non solo secondo ordine e disciplina (Salvini), ma anche o soprattutto (ma è un’altra forma di ordine e disciplina) secondo la didattica delle competenze promossa dal neoliberalismo, dove imparare a imparare non è la forma pedagogica virtuosa e umanistica (virtuosa perché umanistica) per aiutare l’individuo a costruire la propria individuazione mediante la conoscenza, ma è (appunto) la biopolitica disciplinare, neoliberale e tecnica per farlo coincidere al meglio e on demand con le esigenze della rivoluzione industriale (in proposito rimandiamo all’ottimo libro di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito; ma anche a La tirannia della valutazione di Angélique del Rey e a Funzionare o esistere? di Miguel Benasayag). Coincidendo/adattandosi, l’uomo è sempre meno soggetto/individuo e sempre più (Adorno) è il prodotto/oggetto del sistema che lo produce. Anche mediante la didattica delle competenze – come con il marketing, l’industria culturale, la società dello spettacolo, il pathos per la tecnica e l’innovazione, il non ci sono alternative.

C’era una volta la “new era” tecnologica

Dunque, nessuna new era grazie alla tecnologia di rete, anche se questa era la promessa/favola/storytelling dei guru/teologi/visionari dell’innovazione degli anni ’90. Nessuna riduzione della fatica del lavoro e dei tempi e dei ritmi di lavoro grazie alla tecnica (come appunto promesso in quegli anni), ma esattamente il contrario: lavoro h24, ritmi accresciuti come accresciuta è la fatica (anche lo stress è fatica).

Mentre la rete è divenuta (un’altra eterogenesi dei fini; un’altra utopia divenuta distopia; o un’altra profezia che non-si-auto-avvera) la nuova organizzazione scientifica del lavoro in forma di folla/sciame-lavoro disseminato. Con in più e peggio: sovrapposizione di tempi di lavoro e tempo di vita e insieme flessibilità totale e precarizzazione della vita, estrazione di valore dal pluslavoro collettivo, soprattutto ibridazione/sussunzione totale dell’uomo nella mega-macchina/sistema tecnico e insieme trionfo della finzione totale e della sua spettacolarizzazione. Con la totale e totalitaria dipendenza dell’uomo dalla tecnica e una alienazione reale da sé dell’uomo, ma ben mascherata dallo stesso sistema feticistico ed estraniante che la produce e riproduce incessantemente.

Il ‘900 è stato sicuramente un secolo di grande progresso scientifico, ma anche (secondo lo scrittore William Golding), il secolo più violento della storia dell’umanità. Oggi divenendo il secolo più violento e dis-umano non solo verso/contro gli uomini ma verso/contro la biosfera, nella massima potenza del conflitto della tecno-sfera contro la bio-sfera. Ma facciamo finta di niente, la nostra dis-umanità verso uomini e ambiente rasenta il più irresponsabile cupio dissolvi. Viviamo circondati dalla/integrati nella tecnica, ma siamo incapaci (Gino Strada) di progredire sul piano etico – anche perché, aggiungiamo, per il tecno-capitalismo l’etica come la responsabilità sono un intralcio al dispiegamento illimitato della propria volontà di potenza. Quindi da eliminare.

Viviamo conseguentemente in una sorta di sadomasochismo collettivo e insieme molecolare/individuale e più facciamo del male (agli altri e alla biosfera) – e quindi ci facciamo del male – più crediamo di godere, magari consumando o divertendoci e vetrinizzandoci/mercificandoci. È un falso principio di piacere confuso con il principio di prestazione (dalla industrializzazione della felicità al capitalismo dell’emotività), creati per noi (il biopotere che produce biopolitica/tanatopolitica) dal tecno-capitalismo per evitarci di dover o poter fare i conti con il principio di realtà; e soprattutto con il principio di responsabilità (Hans Jonas) verso le generazioni future e la biosfera. Ovvero, ancora Adorno, il sistema produce anche in questo modo l’uomo di cui ha bisogno per funzionare al massimo del plusvalore per sé.

La tecnica ci fa credere che lo smartphone sia un giocattolo mentre è una macchina di produzione di dati, ma soprattutto la forma e la norma di normalizzazione di ciascuno nella società amministrata/totalitaria che si chiama rete – e il Progresso diventa inevitabilmente Regresso e l’Utopia si capovolge in Retrotopia (Bauman).

La società di massa? E’ in rete

Se dunque siamo dentro alla modernità di tecnica e capitalismo e se la sua logica (suddividere lavoro, vita, individuo, realtà, spazio, tempo, per ottenere la massima integrazione di tutti nel proprio sistema organizzativo/produttivo/valoriale) si conferma anche oggi nella fabbrica-rete, allora dobbiamo applicare i termini e i concetti della modernità e della rivoluzione industriale per descrivere anche questa sua ultima fase. Modernità e rivoluzione industriale che non vivono di cesure (prima, seconda, terza, quarta rivoluzione industriale – queste sono retoriche fuorvianti che mascherano l’uniformità e la unidimensionalità delle forme e delle norme di normalizzazione/normazione sociale di tecnica e capitalismo), ma è un processo che dura da tre secoli, sempre diverso ma sempre uguale – dalla fabbrica degli spilli di Adam Smith alla catena di montaggio al capitalismo delle piattaforme/fabbrica-rete.

Iniziamo allora dal concetto otto-novecentesco di società di massa. E dalla definizione che ne dava Luciano Gallino nel suo Dizionario di Sociologia, pur riconoscendo che il termine presenta comunque molte ambiguità: la società di massa è “quella società, non necessariamente capitalistica, in cui la popolazione partecipa su larga scala alle attività di produzione, distribuzione e consumo di merci e servizi, nonché a qualche forma di attività politica e culturale, anche in veste di consumatrice della cultura di massa” (corsivi nostri). Agli elementi indicati da Gallino, Giovanni Borgognone aggiungeva “le tendenze all’omologazione delle identità e dei comportamenti, all’indebolimento dei legami familiari e comunitari e all’atomizzazione sociale”.

Dovrebbe essere dunque evidente (anche se imbarazzante da ammettere, dopo trent’anni di ideologia e di pedagogia neoliberale-individualistica), che anche oggi ci troviamo in una società di massa, organizzata (amministrata) grazie alla rete, cioè alla tecnica, dove tutto è e deve essere automatico/automatizzato, dal lavoro al pensiero. La popolazione – fattore chiave di ogni biopolitica e insieme oggetto di ogni forma di amministrazione tecnico-economica – è oggi nella realtà virtuale, che è lo spazio della società di massa, o meglio il nuovo nomos non più della terra o del cielo, ma del virtuale (parafrasando Carl Schmitt); e più di ieri partecipa su larga scala alle attività di produzione, distribuzione e consumo di merci e servizi, h24, senza più distinzione tra tempo di vita e di lavoro.

Tutti isolati ma connessi. Grazie alla rete

In verità da tempo siamo passati da una società di massa concentrata a una società di massa individualizzata, cioè ad una massa di individui. Se già Hitler e Goebbels avevano capito “che per mezzo della radio potevano essere coordinati ed effettivamente massificati una quantità incomparabilmente maggiore di uomini che non nelle spianate di Norimberga” (Anders) – oggi tutto è ulteriormente potenziato (la massificazione degli individui isolati/separati, solistici diceva Anders) grazie alla rete. Per cui, ancora Anders, siamo in una società di massa che non ha più bisogno di sostanzialità fisica, perché i singoli sono comunque, anche oggi via rete, completamente livellati pur essendo separati/isolati dagli altri ma connessi grazie alla rete.

La massa quindi, ieri e ancor più oggi, è diventata una qualità di milioni (oggi miliardi) di singoli, non più la loro concentrazione. Dove l’atomizzazione prodotta dalla società di massa non è un problema ma è perfettamente funzionale alla costruzione di una massa molto più funzionale di quelle del passato (ancora tecnica e capitalismo: individualizzazione/suddivisione e poi totalizzazione/integrazione). E sempre Anders aveva già analizzato una nuova forma di lavoro a domicilio molto simile al lavoro esternalizzato/on demand di folla-sciame/lavoro diffuso o disperso di oggi, scrivendo: “gli interessi del sistema conformistico” – e ogni società di massa è un sistema conformistico/conformante e insieme attivante/adescante – “sostengono e promuovono il lavoro a domicilio in modo esplicito. E ciò perché hanno il massimo interesse a nascondere che il loro è già un sistema totale (e con ciò un sistema di totale privazione di libertà). E riescono in questo disperdendo gli incarichi di lavoro, cioè assegnandoli a singoli come lavoratori a domicilio” e oggi tali (diversamente a domicilio) sono i lavoratori autonomi/free-lance/imprenditori di se stessi, i riders di Foodora e gli autisti di Uber e i professionisti uberizzati, ma anche i consumatori che consumano via Amazon (che svolgono un lavoro di consumo) o tutti noi che generiamo dati lavorando appunto davanti al pc o con lo smartphone (forma massima di lavoro ancor più a domicilio, addirittura peripatetico – ma soprattutto alienato e alienante da se stessi e dalla propria vita).

Il concetto di mobilitazione totale

Un secondo concetto otto-novecentesco che tracima nel nuovo secolo è quello di mobilitazione totale. Anch’esso legato alla rivoluzione industriale e alla modernità, anch’esso generato dal sistema tecno-capitalista per creare l’uomo e la società di cui ha bisogno per sostenere il proprio accrescimento infinito e la propria volontà di potenza. Allo stesso tempo, amministrandone la vita in modo totalitario.

Non fermarsi mai. Non oziare. Non perdere tempo. Non pensare, non approfondire, non studiare. Copia e incolla invece di ragionamento (e oggi internet come la più grande fotocopiatrice della storia, secondo Franklin Foer). Superficialità invece di conoscenza. Efficienza invece di efficacia. Irresponsabilità invece di responsabilità (avendo perduto il senso del fare, tutti mobilitati a fare prescindendo dal pensare).

Mobilitazione totale e quindi: Ernst Jünger. Mobilitazione che avviene quando tutte le parti del sistema vengono attivate e soprattutto integrate/connesse e sincronizzate in vista della realizzazione di uno scopo. Che allora (anni Trenta), perJünger era in primo luogo quella bellica: “Così, anche l’immagine della guerra come di un’azione armata sfuma sempre più nell’immagine ben più ampia di un gigantesco processo di lavoro. Accanto agli eserciti che si affrontano sui campi di battaglia sorgono eserciti di nuovo tipo, l’esercito dei trasporti, dell’approvvigionamento, dell’industria degli armamenti: in generale, l’esercito del lavoro. (…) Per dispiegare energie di questa misura non è più sufficiente armare il braccio che porta la spada: è necessario essere armati fino nelle midolla, fino nel più sottile nervo vitale.

Porre in essere quelle energie è il compito della mobilitazione totale, di un atto cioè attraverso il quale è possibile, impugnando un unico comando su di un quadro di controllo, far confluire la rete d’energie – tanto ramificata e diffusa – della vita moderna, nella grande corrente dell’energia bellica” (corsivi nostri). Una mobilitazione totale che non tanto viene eseguita, “quanto piuttosto essa stessa si esegue: in pace e in guerra è l’espressione di una misteriosa e cogente esigenza, a cui siamo sottomessi da questo vivere nell’epoca delle masse e delle macchine.

Il web, nuovo inconscio collettivo

Si perviene così al risultato che ogni singola vita diventa sempre più inequivocabilmente una vita di operaio…”. E nel libro L’operaio, Jünger aggiungeva: “questa mobilitazione totale distrugge tutto ciò che ostacola questa mobilitazione. Dietro i processi di trasformazione tecnica, quali appaiono in superficie, traspaiono una diffusa distruzione e una costruzione del mondo in forme diverse; [ma] entrambe procedono in una determinata direzione” e questa forma dell’operaio “mobilita, senza distinzioni, l’intera condizione umana”. Ebbene, se questa è la mobilitazione totale (tanto simile – nel suo eseguirsi sulla base di una misteriosa ma cogente esigenza – al concetto di autopoiesi, dove il soggetto ordinatore è oggetto dell’ordine da esso stesso prodotto – oppure, usando Ferraris, questa cogenza è imposta dal web come nuovo inconscio collettivo), questa è la condizione normale, normata, normalizzata della vita umana in tempo di rete e di globalizzazione. Che mobilita distruggendo, che distrugge mobilitando (ancora: dalla distruzione creatrice alla disruption). Irresponsabilmente, ma in mobilitazione totale: che è a sua volta una delle forme peggiori di alienazione.

La mobilitazione totale si integra quindi (è possibile solo) con la società di massa (meglio ancora: con la società in forma di folla/sciame – cioè “insiemi di unità autopropulsive unite solamente da una unità meccanica che si manifesta replicando schemi di condotta simili e muovendosi in direzione analoga” – Bauman), attivandosi reciprocamente e generando una nuova forma di società (auto)amministrata (ma sempre sotto il comando, ormai introiettato del sistema tecno-capitalista), evoluzione o involuzione di quella società amministrata criticata dai francofortesi.

Aggiungeva ancora Zygmunt Bauman: “Per gli individui di oggi, l’unico scopo di essere in movimento è restare in movimento. Se un tempo il cambiamento era un’operazione pensata in vista di certe esigenze, un mezzo per un fine, è invece un fine in se stesso per gli individui di oggi, i quali si aspettano di vederlo continuare perpetuamente (…) Sono in movimento perché in movimento devono stare. Si muovono perché non possono fermarsi. Come le biciclette, stanno dritti solo quando corrono. Ed è come se seguissero il precetto di Lewis Carroll: “Qui, vedi, per star fermi bisogna correre più che si può” (in Adorno e la globalizzazione, MicroMega, novembre 2003).

Mobilitazione totale (“Non siamo in guerra, ma siamo mobilitati più che in ogni altro tempo” – concorda Ferraris), dove ciascun membro della massa individualizzata e dell’organizzazione totalitaria della sua mobilitazione è attivato (dal marketing e dall’organizzazione del lavoro, dai social e dalle community, dal dover condividere e dal dovere di essere sempre connessi) a mobilitarsi, ciascuno incorporando/introiettando (la misteriosa e cogente esigenza) il dovere di mobilitarsi, oggi connettendosi in rete, per produrre, consumare, innovare, generare dati. Permettendo alla mobilitazione di eseguirsi. E nessuno si ribella, nessuno cerca alternative per uscire da questa totale dis-umanizzazione/post-umanizzazione/alienazione.

Digital transformation, da soggetti a oggetti della mega-macchina

E se la tecnica veniva accusata di essere spaesante (Heidegger) è vero piuttosto che il tecno-capitalismo è il primo totalitarismo moderno (ed è vincente proprio per questo) che si fonda sull’esaltazione dell’individuo atomizzato e solistico nella sua assoluta libertà (appunto, contano solo gli individui, la società non esiste), nel suo narcisismo e nel suo pigmalionismo. Il tecno-capitalismo è quindi diverso dai totalitarismi del Novecento che invece annullavano/azzeravano l’individuo nella massa (privando l’individuo del proprio io, come sottolineava Hannah Arendt): perché assoggetta/subordina/sussume l’individuo a sé, lo trasforma da soggetto in oggetto/parte funzionale della sua mega-macchina, ma lo fa in nome della libertà dell’individuo, esaltando il suo io, per assoggettarlo meglio – nessuno opponendosi a un sistema che promette la massima libertà.

Geniale, dal punto di vista biopolitico e ideologico e di costruzione di un sistema totalitario. Il tecno-capitalismo individualizza/personalizza, separa e isola, de-socializza, per poi produrre esso stesso le forme di compensazione emotiva per far sentire l’individuo meno solo. Un individuo frantumato e suddiviso, messo al lavoro in mobilitazione totale, monade alienata ed egoista/narcisista nella realtà reale ma portato poi a far parte felicemente di un social, di una community, di una comunità nazionale (il populismo/sovranismo), di una comunità di lavoro, tutto basato su quella parola magica che si chiama condivisione.

Ancora il doppio movimento della psicologia umana, messo a profitto per il capitale e per costruire il totalitarismo della società tecnologica avanzata. Con tutti che aderiscono liberamente all’organizzazione, sciogliendo/azzerando se stessi come soggetti ma in nome di una promessa di massima soggettivazione. È – appunto – il totalitarismo perfetto.

Remo Bodei: la tecnica produttrice di ordine e disciplina

Come scriveva Remo Bodei, per Jünger (e diversamente da Heidegger) “la tecnica diventa, essa stessa, produttrice di ordine, di disciplina, di compattezza. Proprio perché la tecnica non produce alcun effetto di spaesamento o di spersonalizzazione, ma al contrario un forte senso di appartenenza alla comunità – gerarchicamente concepita secondo il modello dell’esercito – uomini e macchine possono non solo coesistere, ma crescere simbioticamente”. Coincidere. Secondo il modello ieri dell’esercito, per Jünger; oggi secondo quello dell’impresa. Per Heidegger, comunque la potenza della tecnica – che incalza, trascina, avvince l’uomo – “è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede”; eppure “i risultati della tecnica, il suo progresso sempre più veloce vengono ammirati da un pubblico vastissimo”. Ciò che allora è inquietante “è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”, cioè lo strapotere della tecnica (e del capitalismo).

La via di uscita: de-coincidenza/dissidenza. Ma sarà così?

Nella società di massa e nella mobilitazione totale, ciascuno deve sciogliere se stesso nella massa, nell’organizzazione che mobilita e che lo attiva, deve essere funzionale per e congruo (Anders) con il funzionamento del sistema. Deve farsi utile e docile (Foucault). Deve identificarsi/coincidere con ciò che lo mobilita e con ciò che gli offre compensazioni emotive di comunità e di felicità via consumismo, dopo averlo deprivato/alienato anche di relazioni umane e di responsabilità/consapevolezza.

Ciascuno deve cioè praticare solo un pensiero calcolante (tecnica e capitalismo, di nuovo e la loro razionalità calcolante/strumentale) e non meditante (Heidegger); deve farsi prima appendice delle macchine e ora ibridarsi con la tecnica. Deve cioè coincidere con la tecnica e con il sistema di mercato (questo volevano e vogliono i neoliberali e gli anarco-capitalisti della Silicon Valley: far coincidere mercato e tecnica con la società, e viceversa), deve ibridarsi/sussumersi con il sistema post-umano tecno-capitalista e con il suo immaginario/industria culturale-spettacolare.

Ma se questo è vero, ed è vero, allora la libertà dell’individuo (quella vera, non quella fabbricata e venduta dal sistema), va cercata proprio de-coincidendo e dis-alienandosi dalla logica irrazionale e dal pensiero calcolante e competitivo del sistema. La libertà dell’individuo va cercata dis-adattandosi da un sistema che ci chiede solo di adattarci/coincidere con le sue esigenze. E poiché la rivoluzione industriale è incessante, incessante deve essere anche il nostro adattamento e il nostro coincidere. Ma adattarsi/coincidere/ibridarsi/sussumersi è negarsi come individui, come soggetti. Adattarsi significa infatti alienarsi (asservimento volontario? conformistico?) da un pensiero meditante, che invece ci chiede di non restare attaccati in maniera unilaterale ad un’unica rappresentazione (Heidegger, ancora) della realtà.

Ad aiutarci a de-coincidere e a dis-adattarci dall’apparato, dalla massa, dalla mobilitazione totale, recuperando una capacità di libertà e di pensiero, c’è l’ultimo, bellissimo libro del filosofo-sinologo François Jullien che scrive: “De-coincidenza è un concetto in grado di esprimere la vocazione dell’arte ma anche – in primo luogo – dell’esistenza. Se de-coincidere implica l’uscita dall’adeguamento a un sé, dal proprio adattamento a un mondo, allora significa propriamente esistere (…) che rimanda letteralmente al tenersi fuori: ciò significa in primo luogo fuori dall’adeguamento-adattamento che, cumulandosi, ostruiscono; che, saturandosi, non lasciano spazio per il futuro e per inventarsi. (…) Di conseguenza, è tramite la de-coincidenza che si sviluppa la libertà”, ossia “aprendo una breccia nella normalità acquisita (nella sua funzionalità ammessa), insomma osando uno scarto (…) per far emergere l’esistenza”.

La porta stretta: allontanarsi dai processi

L’uomo così dis-adattandosi, cioè uscendo dalla massa (“dal gruppo e dal gregariato” e, aggiungiamo: dal neoliberalismo e dal determinismo tecnico che producono massificazione e coincidenza), “prendendo le distanze dalla totalizzazione e dall’integrazione che fanno mondo”, quindi scartando dalla mobilitazione che invece chiede adattamento e coincidenza (o altrimenti: funzionalità, congruità, conformazione). “La coincidenza mantiene nell’adeguamento” – è l’adeguatezza, certo, ma è anche la paralisi, la conformità, l’impasse: la morte di ogni iniziativa e di ogni accenno di cambiamento. Mentre è solo dalla de-coincidenza (che è un processo, non un atto singolo) – disfacendo continuamente la coincidenza/funzionalità acquisita o fatta acquisire/introiettare – “che procede il fenomeno stesso della vita in quanto è vivente”, arrischiandosi al di fuori del proprio adattamento. In quanto rinnovamento/distacco da ciò che è abitudine/coincidenza, la de-coincidenza e il dis-adattamento (che sono l’essenza vera – per Jullien – della vita umana e della libertà) sono cosa tutta diversa dalla distruzione creatrice/disruption e dalla mobilitazione totale, che producono invece la totalitaria coincidenza/identificazione di tutti con l’insieme.

Il problema – e che problema! – è che il tecno-capitalismo è esso stesso produttore incessante di de-coincidenza. Come di illusioni di libertà, di esistenza, di creatività. Certo è una de-coincidenza illusoria perché funzionale alla attivazione eteronoma del lavoro umano, della massificazione individualistica, della mobilitazione di tutti nella produzione/consumo. Il totalitarismo tecno-capitalista de-coincide incessantemente se stesso (attraverso la competizione e la distruzione creatrice/disruption come forme e norme della sua volontà di potenza/accrescimento) e ciascuna delle sue parti da se stesse ma non dall’apparato (è la flessibilizzazione incessante del sistema), uomini compresi. Tutto per far meglio coincidere ciascuna parte a sé e con sé come apparato; e mobilitare ciascuno alla sua massima capacità di coincidenza con il sistema de-coincidente (la sua dynamis lo richiede), così come individualizza per integrare meglio ciascuno nel proprio sistema.

Perché allora vi sia vera de-coincidenza (e la riflessione di Jullien è decisamente affascinante) e (aggiungiamo) dis-alienazione – e quindi libertà, soggettività, autonomia dell’uomo – occorre soprattutto imparare a de-coincidere dalla falsa ma affascinante de-coincidenza e dis-alienazione incessantemente prodotta dal sistema per la propria riproducibilità (e coincidenza/adattamento) infinita.

De-coincidere, ovvero e altrimenti, con José Saramago: “non puoi sapere chi sei se non esci da te stesso”; e “non ci vediamo” – cioè non possiamo conoscere noi stessi – “se non ci allontaniamo da noi stessi”. Così come non vediamo i processi (soprattutto tecnici) in cui siamo inseriti se non ci allontaniamo da essi, guardandoli criticamente. Per governarli consapevolmente.

Bibliografia di riferimento

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