I bilanci sulle possibili e probabili influenze “social” sulle elezioni si potranno fare soltanto a partire dalle prossime settimane, ma già ora è possibile affermare che l’Europa (e l’Italia) hanno perso ogni ingenuità residua sul tema.
E un proposito accompagnerà d’ora in avanti le istituzioni, per non arrivare più (così) impreparati al prossimo “esame”, ossia il nuovo appuntamento elettorale: trovare strumenti più efficaci per proteggere il voto; al tempo stesso senza cadere nel rischio opposto della censura delle istanze politiche.
Già all’indomani dei risultati elettorali, bisognerà rimettersi ad affrontare la questione.
Sì, ci sono state alcune azioni d contrasto delle fake news da parte di alcuni social network, ma come vedremo si è trattato più che altro di abili mosse volte a tranquillizzare le istituzioni, mentre oltre alla disinformazione veicolata via social, continuano a proliferare i siti volti a (dis)orientare gli elettori.
Insomma, qualunque sia il risultato delle elezioni di domenica, il prossimo Parlamento europeo dovrà tenere conto di un contesto definitivamente cambiato ed impossibile da ripristinare. E la sensazione che prevale è quella che per cambiare le cose sul serio, il prezzo da pagare, in ogni caso, sarà alto in termini di rispetto dei principi democratici.
I dati della disinformazione
Secondo alcune recenti indagini a cura di SafeGuard Cyber, oltre il 50% dei 400 milioni di elettori alle prossime Politiche europee è venuto a contatto con fake news o disinformazione a scopo di influenzarne il voto attraverso azioni maligne condotte su larga scala da gruppi organizzati che tentano di replicare un clima simile a quello delle elezioni USA del 2016 od a quello pre-referendum Brexit.
SafeGuard Cyber cita l’esempio di un post del Presidente francese Macron, che nel marzo scorso ha risvegliato una serie di account poi risultati falsi per screditare la sua proposta. Si trattava di circa 7000 account di vari social network in grado probabilmente ancora oggi di produrre disinformazione quotidianamente e di targettizzare in base a sesso, età e nazione di appartenenza il proprio messaggio.
Quanto è facile (dis)orientare gli elettori via social
Anche se non ci sono evidenze precise, dalle tecniche utilizzate ed in base agli orari di pubblicazione, potrebbe essere facile intuire che come nel caso di USA 2016, la provenienza di queste campagne di disinformazione sia sempre la Russia, non credo però sia fondamentale comprendere l’origine di queste attività ma piuttosto sia necessario concentrarci sulla facilità con la quale sia possibile (dis)orientare il pensiero attraverso un bombardamento continuo di informazioni che numericamente superano quelle dei veri politici e nei contenuti parlano solo ed esclusivamente alla pancia degli elettori.
Basti pensare che nel periodo novembre 2017-novembre 2018 Facebook ha rimosso 2,8 miliardi di account palesemente falsi e ancora oggi sta cercando di contrastare quelli veri che diffondono disinformazione, la recente chiusura delle 23 pagine italiane che raccoglievano oltre 2,5 milioni di utenti è solo l’ultimo degli esempi in ordine di tempo.
Le contromisure dei social a tutela delle elezioni. Ma quanto sono efficaci?
Si tratta di azioni sicuramente interessanti ma forse più orientate a tranquillizzare le istituzioni piuttosto che realmente efficaci nel contrasto della disinformazione.
Ad esempio la war room messa in piedi a Dublino per la gestione delle elezioni politiche europee è in grado di fare qualcosa, ma non tutto può essere gestito e contrastato con efficacia, sia per il fatto che il team professionale non riesce a filtrare ogni messaggio, che per il fatto che non sempre la tecnologia è efficace quanto dovrebbe. Wired ha appena dimostrato come sia stato possibile, sfruttando le recenti nuove norme per l’acquisto di spazi pubblicitari a fini elettorali in Europa, acquistare alcuni spazi per un movimento politico inesistente il cui messaggio elettorale è quello di voler realizzare fattorie urbane dotando “di ventose in bioplastica galline, mucche, maiali e pecore per poter razzolare lungo le pareti di grattacieli e condomini”.
Che si sia trattato di distrazione da parte dei sistemi di controllo di Facebook, piuttosto che dell’ennesima dimostrazione del fatto che i big di Internet siano interessati soltanto alla massimizzazione dei loro profitti, l’unica cosa certa è che influenzare il pensiero altrui continua ad essere un elemento troppo semplice.
Diffusione della disinformazione: non ci sono solo i social
Un altro esempio di possibile disinformazione di massa proviene dall’India dove nonostante le recenti limitazioni all’uso dei gruppi di WhatsApp (che nel paese conta oltre 300 milioni di utenti attivi) è stato possibile utilizzare 900 mila attivisti per orientare il pensiero e probabilmente il voto di domenica di buona parte degli elettori attraverso l’invio e la moderazione di messaggi a sostegno soprattutto di un candidato, ora accusato di manipolare la campagna elettorale attraverso la diffusione di menzogne che hanno scatenato addirittura episodi di violenza di massa.
Un ulteriore elemento di diffusione della disinformazione, forse meno evidente dei social network, ma altrettanto efficace è proprio il web. Il proliferare di siti a sostegno delle varie teorie è uno degli ulteriori esempi di come il radicamento della disinformazione sia tale per cui lo sforzo da mettere in piedi per contrastarla rischia di essere davvero grande senza regole precise che stentano ad arrivare perlopiù per l’impreparazione delle istituzioni e per la lentezza con la quale si producono le norme rispetto alla rapidità della diffusione della tecnologia.
E’ emblematico il recente caso in cui gruppi a sostegno delle politiche propagandistiche iraniane abbiano tentato di diffondere false informazioni con tecniche tanto semplici quanto efficaci, tra queste quella di contattare direttamente tramite Twitter alcuni attivisti con messaggi diretti in modo da catturare la loro attenzione e tentare di sfruttarli come cavallo di troia per la diffusione di notizie palesemente false, pubblicate su siti web dai nomi molto simili a quelli originali appositamente creati per ingannare i lettori più distratti. E’ il caso ad esempio di un articolo pubblicato su un sito web solo in apparenza appartenente al centro per gli studi internazionali dell’università di Harvard (il sito era identico tranne che nell’estensione .org nell’originale e .net per quello fasullo) che ha diffuso fake news su alcuni esponenti del governo israeliano. La tecnica in questo caso sfruttava due elementi:
- la possibile superficialità del lettore indotto a cadere in trappola da elementi visivi del tutto identici all’originale
- il palesamento di piccoli errori soprattutto nell’uso di termini e definizioni in modo da selezionare ulteriormente l’attenzione dei lettori.
Anche se può sembrare paradossale, il fatto stesso di lasciare in evidenza errori macroscopici è una tecnica (usata anche nel phishing) per selezionare un target minimo ma estremamente fidelizzato, tramite il quale massimizzare l’efficacia della diffusione del contenuto. Si tratta di una tecnica diametralmente opposta a quella tendente alla massima diffusione possibile dell’informazione (come accade ad esempio sui gruppi di WhatsApp piuttosto che su Facebook), ma efficace in contesti particolari come le email ed i siti web.
Proteggere dati e diritti, ma a che prezzo?
La quantità, la velocità di diffusione e la semplicità di recepimento delle informazioni rendono fin troppo semplice influenzare il pensiero. Per questo, in un ottica non solo elettorale è necessario un approccio attento alla sicurezza ed alla tutela dei nostri diritti oltre che dei nostri dati, la cui protezione è un elemento fondamentale per garantire elezioni libere e non condizionate.
Sarà possibile difendersi?
Molto probabilmente si, ma ad un prezzo alto, perché l’atteggiamento dei governi sarà rivolto principalmente ad una maggiore tutela normativa che rischierà di trasformarsi in censura, mentre quello delle social media company tenderà verso un maggiore controllo e filtraggio tecnologico, con il risultato di dover cedere loro molti più dati di quanto fatto fino ad oggi, la cui gestione, conservazione e soprattutto il cui (ri)utilizzo sfuggiranno ancora dal nostro controllo.