Lo stato attuale del processo civile telematico si caratterizza per alcune scelte a livello di gestione documentale che, ad avviso di chi scrive, non aiutano lo sviluppo in senso prettamente digitale del processo.
Di seguito un’analisi su quali sono tali “criticità” e quali le possibili soluzioni per evolvere, a cominciare dalle opzioni per ovviare ai problemi legati alla scelta del formato PDF per il deposito degli atti.
Processo civile telematico e PDF
Infatti in primo luogo è bene ricordare che il formato prescelto per il deposito degli atti è proprio il PDF, nato inizialmente come formato proprietario e divenuto standard ISO nel 2008 (per la precisione ISO 32000-1:2008), e non il PDF/A, standard ISO dal 2005 e nato come standard aperto e non proprietario. La differenza non è di poco conto, ragionando in una prospettiva a lungo termine. Il formato PDF non è in realtà adatto, nella sua forma standard, alla conservazione dei documenti digitali poiché non è in grado di garantire la riproducibilità a lungo termine e neanche la conservazione dell’aspetto visivo in quanto il formato è connotato da una variabilità forse troppo ampia nella struttura interna.
Si è così giunti alla definizione di una versione “limitata” del formato PDF, esplicitamente ideata per la conservazione a lungo termine dei documenti elettronici e denominata PDF/A (PDF for Archiving). Questo nuovo formato nasce quindi per rispondere al bisogno crescente di conservazione a lungo termine dei documenti elettronici e non è stato però adottato nel processo civile telematico laddove invece sarebbe stato molto utile, soprattutto per provvedimenti (le sentenze ad esempio), la cui conservazione deve essere perpetua.
Emerge dunque un primo problema legato alla gestione dei documenti informatici nel processo telematico: la scarsa attenzione alla prospettiva archivistica dei documenti informatici prodotti. Legato a tale aspetto, non può neppure tacersi l’esigenza di aprire il mondo del pct anche all’utilizzo di formati largamente flessibili, come i PDF/A-2 e i PDF/A-3. Si tratta di profili documentali di enorme importanza anche in ottica processuale; si pensi al fatto che, nel caso del PDF/A-2, è possibile includere in un solo file “contenitore” più PDF, ad esempio un documento con i suoi allegati. Addirittura, nel caso del PDF/A-3, gli allegati al file “contenitore” possono essere anche di formati diversi, senza alcuna restrizione; una soluzione ideale per il deposito, ad esempio, di perizie redatte nell’ambito di una consulenza tecnica d’ufficio, che non sono formate solo dalla relazione in PDF ma anche da tavole tecniche redatte con l’ausilio di formati particolari.
La difficoltà di produzione delle prove informatiche
Tale ultima variante del PDF/A-3 potrebbe costituire un’efficace risposta anche ad un annoso problema del processo civile telematico, che è la difficoltà di produzione delle prove informatiche. È noto come la gran parte dei documenti prodotti nell’ambito della diagnostica per immagini, così’ come i formati audio e video non possano al momento essere prodotti per via telematica, generando necessità, per il vero anacronistiche, di consegna di cd-rom o chiavette USB presso gli uffici giudiziari.
Tutto ciò evidentemente stride con le possibilità tecniche appena illustrate: basta pensare che un file audio/video potrebbe facilmente costituire un allegato ad un PDF/A-3 per rendersi conto di quanto sentita sia l’esigenza di andare oltre il semplice formato PDF attualmente gestito in ambito PCT.
Primo obiettivo: l’abbandono dei formati proprietari
Una prima esigenza da soddisfare in prospettiva non è una grande riforma ma un accorgimento basilare per mettere il processo civile al riparo dagli eventi pregiudizievoli che possono scaturire dall’obsolescenza dei formati informatici utilizzati per aspetti importanti delle dinamiche processuali, come ad esempio la prova di una notificazione effettuata a mezzo PEC. Si è detto sopra come non sia bene che la gestione documentale si concentri sul PDF ma si aggiunge in questa sede come sia altrettanto fondamentale che non si facciano fughe in avanti, dando il via libera all’utilizzo di formati proprietari, magari comodi e assai diffusi ma dai risvolti operativi quantomeno incerti.
Val la pena precisare che un formato è proprietario quando è stato creato da una organizzazione privata (ad es. un’azienda, una software house, etc.), che ne detiene i diritti di proprietà intellettuale; di conseguenza le sue specifiche vengono gestite esclusivamente da tale organizzazione; non di rado, inoltre, un formato siffatto è anche chiuso in quanto le sue specifiche non sono pubbliche. È intuitivo come la gestione di tali formati presenti delle problematiche non da poco, legate fondamentalmente ai desiderata del creatore degli stessi; in un momento imprecisato costui potrebbe ad esempio pretendere il pagamento di un corrispettivo o potrebbe vietarne l’utilizzo. Insomma, una serie di variabili e incertezze che dovrebbero sconsigliarne l’utilizzo in ambito processuale. Giusto per fare esempi calzanti, sarebbe preferibile che la prova delle notificazioni a mezzo PEC venisse fornita attraverso il deposito di file .eml e non attraverso file .msg; solo così, utilizzando un formato non proprietario si avrebbe la certezza della leggibilità nel tempo del documento e dei suoi allegati.
Oppure sarebbe il caso di considerare che lo scopo dell’atto processuale non è quello di essere leggibile solo nell’immediato ma anche di poter essere letto a distanza di tempo; da ciò discende l’ulteriore considerazione che l’atto può essere suscettibile di sanatoria ex art. 156 c.p.c. solo nel caso in cui possano essere garantiti entrambi i suddetti requisiti. Ma poiché ciò può avvenire solo nel caso in cui si sia utilizzato un formato non proprietario, ecco che le considerazioni in tema di gestione documentale assumono piena rilevanza anche a fini processuali e conducono a giudicare negativamente gli orientamenti giurisprudenziali che ritengono integrata la fattispecie in esame nel caso di utilizzo di un formato proprietario come il .doc.
Secondo obiettivo: superare il deposito a mezzo PEC
Nel processo civile telematico il deposito avviene per mezzo dell’invio della c.d. busta telematica – in realtà un file in formato MIME (Multipurpose Internet Mail Extensions) – che contiene il file criptato Atto.enc che, a sua volta, contiene, l’atto del processo, oggetto del deposito, i documenti allegati ed uno o più ulteriori file accessori. La busta telematica viene trasmessa all’ufficio giudiziario destinatario in allegato ad un messaggio di posta elettronica certificata che, come noto, produce una serie di quattro ricevute, delle quali le prime due sono quelle proprie di ogni invio PEC, mentre le ulteriori due sono messaggi provenienti dai sistemi informatici di cancelleria attinenti l’esito dei controlli automatici (c.d. terza PEC) e l’esito dei controlli di cancelleria (c.d. quarta PEC).
La procedura, che riecheggia l’invio di un plico postale nel mondo analogico, è stata oggetto di critiche fin dal momento della sua introduzione, sia per la contestata parcellizzazione in un eccessivo numero di passaggi, sia per la carente interattività della stessa, sia, infine, per la aleatorietà dell’esito del deposito in caso di difficoltà dei sistemi di trasmissione o di vizi della busta telematica o del suo contenuto. Probabilmente le critiche sono state troppo severe. La procedura, pure con inevitabili eccezioni, si è rivelata sostanzialmente affidabile ed ha consentito di gestire una enorme massa di ben 32.678.329 depositi nel periodo gennaio 2014-dicembre 2018 (fonte Ministero della Giustizia).
È vero però, che al verificarsi di problemi di deposito, la comunicazione relativa all’esito dei controlli automatici spesso non consente agli utenti meno accorti di avvedersene e che il suo contenuto è stato semplificato ed arricchito solo di recente. È altrettanto vero che, pur vigendo la regola secondo la quale il deposito “si ha per avvenuto” al momento di generazione della ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di PEC ministeriale (art. 16-bis DL.179.12), se la procedura non si conclude positivamente, le modalità per vedersi riconosciuto il deposito, ovvero, per essere rimessi in termini, non sono in alcun modo codificate ed impongono a chi vi debba ricorrere conoscenze tecniche non banali.
Fin dai suoi esordi, quindi, il deposito a mezzo PEC ha avuto i suoi detrattori che, non senza ragione, l’hanno additato come un mezzo anacronistico, chiedendone il superamento a favore di un sistema di upload da realizzarsi tramite un apposito portale ministeriale. Il deposito asincrono intermediato dalla PEC, quindi, dovrebbe lasciare spazio ad una procedura sincrona che avrebbe molteplici vantaggi, in particolare in termini di semplificazione della fase preparatoria del deposito e di verifica di anomalie e criticità.
Un portale di deposito adeguatamente predisposto, infatti, dovrebbe essere programmato per funzionare come un cancelliere virtuale interattivo, che indirizzi e conduca l’utente, anche per mezzo di una moderna interfaccia utente, chiara ed esplicativa, verso un deposito rapido, agevole e corretto. Per intenderci, qualcosa che abbia poco a che fare con le funzionalità di upload previste per il PAT ed il PTT, ma un vero servizio moderno che ponga al centro l’utente e lo accompagni nell’effettuazione di tutti i passaggi, dall’inserimento dei dati, al reperimento della procedimento nel quale effettuare il deposito, al caricamento dell’atto principale e degli eventuali allegati, alla generazione della certificazione di avvenuto deposito.
É evidente che un sistema siffatto ridurrebbe al minimo gli errori, principalmente prevenendoli e, quando non fosse possibile, segnalandoli in tempo reale, consentendo di porvi rimedio immediatamente. Un ulteriore vantaggio del sistema, sarebbe quello di consentire il superamento della firma digitale, potendosi immaginare che esso operi previa identificazione del depositante effettuata, ad esempio, mediante il sistema SPID e, quindi, per tal via, acquisire garanzia della paternità dei documenti informatici depositati. Tale scenario, peraltro, sembrerebbe prefigurato dalla recente modifica del comma 1-bis dell’art. 20 del CAD, ove prevede che il documento informatico soddisfi il requisito della forma scritta ed abbia l’efficacia prevista dall’articolo 2702 c.c. quando sia “formato, previa identificazione informatica del suo autore, attraverso un processo avente i requisiti fissati dall’AgID ai sensi dell’articolo 71 con modalità tali da garantire la sicurezza, integrità e immodificabilità del documento e, in maniera manifesta e inequivoca, la sua riconducibilità all’autore”.
Il sistema di deposito sopra grezzamente delineato, potrebbe assumere molte delle funzioni di front office delle cancellerie, soprattutto ove si immaginasse, finalmente, l’estensione dell’obbligo di deposito telematico a tutti gli atti, lasciando ai cancellieri solo attività in cui sia davvero indispensabile – allo stato attuale della tecnologia – l’intervento umano: ad esempio, la verifica della correttezza delle dichiarazioni di valore delle domande giudiziali ai fini della quantificazione del contributo unificato. Il vantaggio in termini di liberazione di risorse a favore di attività di più alto profilo rispetto all’accettazione dei depositi ed all’imputazione dei dati, appare senz’altro evidente e dovrebbe essere auspicata in un settore dove la carenza degli organici è nota ad ogni operatore. Peraltro dedicando il tempo dei cancellieri ad attività di supervisione della qualità e della completezza dei dati ed al supporto ai decidenti, sarebbero inevitabili le ricadute positive, che impatterebbero sulla qualità del lavoro di tutti gli operatori e, in definitiva, della Giustizia, con probabile aumento anche della produttività degli uffici.
La ricerca di linguaggi diversi
La volontá di evolvere il PCT verso un nuovo livello di efficienza imporrà di valutare una radicale modifica della gestione dei dati contenuti negli atti processuali. Come è stato già chiarito, attualmente gli atti processuali hanno un formato vincolato (PDF, privo di elementi attivi, ottenuto da trasformazione testuale, sottoscritto con firma digitale). Si tratta, in sostanza, di carta digitale che incorpora dati solo limitatamente riutilizzabili, consentendo di effettuare operazioni di copia-incolla e poco altro. È chiaro che in un’ottica etimologicamente “informatica” e, quindi, volta al trattamento dell’informazione con procedure automatizzate, non si tratta di una condizione ideale, poiché nella sostanza i dati costituiti dalle domande e dalle argomentazioni difensive rimangono confinati in rettangoli di carta, sia pur digitale, minimamente fruibili anche ai fini della consultazione su strumenti digitali.
Per convincersene basti pensare che la maggior parte degli schermi dei computer hanno forma rettangolare con il lato più corto orientato nel senso dell’altezza, così che appare innaturale consultarvi documenti che, invece, sono orientati con il lato lungo nel senso dell’altezza, come i fogli di carta. Ma se si prendono in considerazione anche smartphone e tablet, risultano adatti alla consultazione dei fogli in formato A4 di cui sono costituiti gli atti processuali, solo alcuni tablet tra i più grandi, sicuramente poco diffusi e molto costosi. In realtà sarebbe più comodo che il testo potesse ridimensionarsi e fluire a seconda delle dimensioni dello schermo, rendendolo così fruibile su schermi o all’interno di finestre di qualunque dimensione, esattamente come avviene per i siti internet c.d. responsivi o agli e-book, che si adattano automaticamente alle dimensioni della finestra dove vengono visualizzati. Entrambi gli obiettivi, fruibilità dei dati e agevole consultazione degli atti potrebbero essere raggiunti se al formato PDF ne venissero sostituiti altri, pensati per lo scambio dei dati e non per mimare documenti cartacei.
L’XML e le sue varie applicazioni virtuose
Uno dei formati di cui si può immaginare l’utilizzo è senz’altro l’XML, peraltro già ampiamente utilizzato nell’ambito del PCT per trasportare i dati di accompagnamento degli atti nel file DatiAtto.xml. Inoltre era il formato utilizzato nelle prime fasi di sperimentazione del processo telematico, poi abbandonato a favore del meno flessibile PDF, si tratterebbe, quindi, di un meditato ritorno al passato da effettuare imparando dagli errori commessi agli esordi.
L’XML in realtà non è un formato, ma un insieme di regole per la realizzazione di documenti strutturati che non veicolano solo dati, ma anche informazioni che descrivono tali dati attribuendo loro un significato (i c.d. metadati), consentendo a procedure automatizzate di comprenderli ed elaborarli in modo appropriato, in ossequio ad un paradigma informatico puro. I dati così strutturati, inoltre, mediante opportune informazioni contenute in appositi fogli di stile, possono essere organizzati e visualizzati in modo che sia comoda la loro fruizione per gli utenti umani. Sia in schemi flessibili adatti alla visualizzazione su apparati digitali, sia mediante stampa su carta, secondo le classiche modalità analogiche. Si tratta di quanto viene sperimentato ormai ordinariamente per le fatture elettroniche, il cui formato è proprio l’XML, che consente l’elaborazione automatica dei dati nei sistemi di contabilità e dall’Agenzia delle Entrate, ma anche la visualizzazione digitale o la stampa cartacea dei dati “in chiaro”. Le enormi potenzialità dell’adozione del formato XML per gli atti processuali di parte, ma anche per i provvedimenti giurisdizionali sono evidenti.
La possibilità di visualizzare i testi degli atti nelle modalità scelte da chi deve fruirne ed adeguate all’apparato digitale utilizzato, potrebbe agevolmente svincolare l’esame delle difese delle parti dall’utilizzo del solo personal computer, aprendo all’utilizzo di sistemi diversi, per esempio tablet anche di piccole dimensioni, che consentano una consultazione più simile agli schemi di lavoro abituali di molti operatori, che non riescono ad abituarsi all’esame di testi corposi direttamente dal monitor. La presenza di metadati renderebbe possibile lo sviluppo di applicazioni che consentano di reperire, raccogliere e confrontare porzioni precise degli atti, ad esempio, le conclusioni delle parti, per apprezzare eventuali modifiche introdotte nel corso del giudizio dalla stessa parte, ovvero per porre a confronto le conclusioni di più parti esaminandone il rapporto tra loro. Promuovendo la prassi, peraltro già in uso da parte di molti colleghi, di porre in biunivoca relazione i capitoli in cui si articola la difesa non le specifiche domande contenute nelle conclusioni o con le domande formulate dalla controparte, si potrebbe consentire al giudice di avere una chiara panoramica, domanda per domanda, degli argomenti a sostegno e di quelli a confutazione della stessa, con evidente agevolazione nello studio degli atti.
Non ultimo, potrebbe potenziarsi ulteriormente la strutturazione degli atti come ipertesti, per facilitarne e velocizzarne la consultazione, ma anche per rendere immediatamente reperibili sia i documenti citati dalle parti, sia eventuali fonti esterne, per esempio normative, cui si faccia riferimento negli atti. La disponibilità di dati facilmente fruibili e dei quali si conosca la natura in virtù dei metadati, consentirebbe anche la costruzione di sistemi di ricerca giuridica molto più efficienti rispetto a quelli attuali e, in prospettiva, l’utilizzazione degli stessi per l’alimentazione dei sistemi di apprendimento su cui si basano le più recenti tecniche di intelligenza artificiale che potrebbero essere assai utili sia per finalità di migliore organizzazione degli uffici, fino a sconfinare verso i panorami sempre meno fantascientifici della giustizia predittiva e, in certi limiti, della giustizia automatizzata.
Processo civile telematico ed emergenza coronavirus
La domanda, che può sorgere legittima ai tempi dell’emergenza sanitaria per il coronavirus e della spinta riformatrice in senso digitale, anche in materia di giustizia, è se vi sia spazio per interventi nel senso indicato. La risposta è, al momento, negativa stante che il legislatore si è concentrato su due aspetti:
- la ricerca di modalità alternative per la celebrazione dell’udienza in modo da rispondere alle esigenze di distanziamento sociale (ragion per cui è stata prevista la celebrazione dell’udienza da remoto mediante utilizzo dell’applicativo Microsoft Teams oppure mediante la sola trattazione scritta);
- la previsione dell’obbligo di deposito telematico per tutti gli atti del processo con conseguente eliminazione (provvisoria) del regime di facoltatività per gli atti introduttivi.
L’emergenza probabilmente non consentiva interventi di maggior portata, che peraltro avrebbero anche richiesto oneri formativi non da poco, ma hanno comunque segnato un passo in avanti in ottica digitale. La speranza è che il passo successivo possa essere quello di ripensare il processo abbandonando l’idea di trasporre il rito cartaceo sul digitale.