La riflessione

Vincono le fake news perché la democrazia è in crisi. E le soluzioni sono peggiori del male

E’ pericoloso affrontare il problema fake news con un sistema di controllo a monte. Forza una già potente polarizzazione tra parti e rinforza la sfiducia già forte. Le fake news non sono altro che l’effetto a valle di un problema più profondo

Pubblicato il 03 Feb 2017

Walter Quattrociocchi

ricercatore, Università ca foscari di Venezia

Digital Emotion Regulation

I social possono informare, mobilitare, coinvolgere e promuovere la democrazia. Lo abbiamo visto nei tentativi, anche se in parte abortiti, della Primavera Araba. Ma possono anche rappresentare una grave minaccia se si fanno portatori di informazioni sbagliate, create ad arte o frutto dell’ignoranza, che hanno l’effetto di stravolgere la realtà. Il meccanismo non è caratteristico dei soli social network. Con i social network però si verificano simultaneamente alcune situazioni che producono un effetto scala difficilmente contenibile. Prima di tutto la disintermediazione, caratteristica della rete che offre a chiunque diritto di parola – ed è questa l’essenza stessa della democrazia – e l’opportunità di porsi come emittenza al di là di meriti personali, curricula, conoscenze specifiche. È il trionfo dell’uomo comune che erode spazio all’emittenza tradizionale e all’elite costituita che hanno oramai non poco problemi di credibilità e di vera rappresentatività sociale.

Chi fino ad alcuni anni fa era depositario di informazione e conoscenza viene adesso rimpiazzato.

Infatti, l’èlite intellettuale, politica ed istituzionale fatica ad interpretare i grandi cambiamenti sociali in atto. Troppo spesso ci si rinchiude nelle interpretazioni del secolo scorso finendo in un esercizio manieristico che complica il quadro, già di suo molto articolato, sofistica e non raccoglie.

La globalizzazione è esplosa e con lei la complessità. La dialettica produzione di valore (mercato) e redestribuzione (stato) è rotta. L’impalcatura sovranazionale su cui si svolge il processo inibisce e annulla qualunque azione.

La sfiducia ed il disagio si traducono in nazionalismo, provincialismo in una contrapposizione spiccata verso un’èlite a cui non viene riconosciuta nessuna autorità.

Anzi, secondo alcuni spesso è meglio fare l’opposto di quello che dice.

Interpretazioni che diventano narrazioni e portate avanti a inerzia. Il processo di formazione dell’opinione pubblica si perde nei deliri e nel rumore.

Chi propone il fact-checking come soluzione universale ignora la naturale tendenza a prender posizioni. Il mito del tuttologo debunker nuovo vate del sapere e in grado di discernere il vero, il falso e l’interpretazione dei dati e delle loro implicazioni.

Il dibattito sulle soluzioni fa più paura del problema stesso. Forza una già potente polarizzazione tra parti e rinforza la sfiducia delle masse, già forte. Le fake news non sono altro che l’effetto a valle di un problema più profondo a monte. Ossia l’incapacità di imbrigliare la complessità e la risultante divisione delle persone in opposte narrazioni.

La polarizzazione sociale (assieme all’intensificarsi delle minacce ambientali e alla disuguaglianza economica) è uno dei principali rischi globali secondo il nuovo Global Risks Report, il rapporto del World Economic Forum che da 13 anni a questa parte ogni anno individua i maggiori pericoli a livello mondiale e le possibili risposte. Quattro anni fa il Wef aveva inquadrato la rapida diffusione della disinformazione quale altra minaccia globale; un elemento che sulla base degli eventi politici che hanno contrassegnato il 2016 ha preso improvvisamente concretezza, trasformandosi da minaccia a pericolo effettivamente percepito e probabilmente reale.
 Non a caso “post verità”, come definizione di ciò che è relativo a, o che denota, circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali, è stata incoronata dall’Oxford Dictionary quale parola dell’anno appena trascorso. Da qui a un’altra definizione chiave come polarizzazione sociale il passo è breve, molto.

La diffusione del termine post truth nel dibattito politico e dei social network ha avuto un andamento ascendente per tutto il 2016 ma ha registrato picchi nel giugno e alla fine del mese di ottobre, in concomitanza con il referendum britannico sulla Brexit e, naturalmente, con le presidenziali negli Stati Uniti caratterizzate da una agguerrita campagna elettorale che ha visto i social network protagonisti. In realtà, i social network si si stanno dimostrando attori vivaci anche nella primissima era Trump. Se infatti internet e i suoi canali di comunicazione social (Twitter soprattutto) hanno avuto un ruolo significato nella campagna del candidato repubblicano.

Fra lo stile di comunicazione di Trump e del suo staff e quello dei suoi oppositori non ci sono troppe differenze. Stesso strumento; stesso obiettivo; e soprattutto stessa dinamica della polarizzazione.

Ma post truth non è una parola che nasce nell’era dei social. Interessante notare – come ricorda l’Oxford Dictionary – che il primo a usarla sulle pagine del magazine statunitense “The Nation” fu Steve Tesich nel 1992 , a commento dell’affair Iran-Contras; questione allora altamente polarizzante per l’opinione pubblica statunitense. Una delle possibili letture del dibattito sulla disinformazione e sulla post verità passa infatti proprio attraverso il concetto di “polarizzazione”, tematica che ben si sposa con il potere evocativo di alcune tematiche che sono al centro dell’agenda dei media.

Nel momento in cui la post verità è capace di influenzare anche i processi decisionali degli elettori, la situazione è tale da aver fatto interrogare il World Economic Forum nel suo Global Risks Report 201t sul pericolo che la democrazia occidentale possa essere entrata in una fase di crisi; un timore che si fa più forte di fronte alla percezione diffusa che i governi nazionali abbiano fallito e alla crescita del desiderio di un leader forte che governi le nazioni. Si tratta di contesti in cui si sviluppano quegli stessi populismi che avrebbero favorito gli esiti del referendum britannico e delle elezioni Usa.

La cultura della polarizzazione e l’emergenza post-truth sono due dei fattori collegati al timore per la crisi della democrazia così come l’abbiamo conosciuta nel corso degli ultimi due secoli.

riferimenti e approfondimenti

[1] Del Vicario, M., Bessi, A., Zollo, F., Petroni, F., Scala, A., Caldarelli, G., … & Quattrociocchi, W. (2016). The spreading of misinformation online. Proceedings of the National Academy of Sciences, 113(3), 554-559.

[2] Quattrociocchi, W., Scala, A., & Sunstein, C. R. (2016). Echo chambers on facebook.

[3] Del Vicario, M., Scala, A., Caldarelli, G., Stanley, H. E., & Quattrociocchi, W. (2016). Modeling confirmation bias and polarization. arXiv preprint arXiv:1607.00022.

[4] Quattrociocchi, W., & Vicini, A. (2016). Misinformation.: Guida alla società dell’informazione e della credulità. FrancoAngeli.

[5]http://reports.weforum.org/global-risks-2017/part-2-social-and-political-challenges/2-1-western-democracy-in-crisis/

[6]https://www.key4biz.it/breakingdigital-hate-speech-e-bufale-social-lettera-aperta-alla-presidente-della-camera-laura-boldrini/174857/

[7] https://www.bloomberg.com/view/articles/2016-01-08/how-facebook-makes-us-dumber

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