alienazione digitale

Un nuovo umanesimo contro l’ideologia globale della macchina: la proposta

Nella odierna data-driven society, alla mano invisibile del mercato si affianca una mano invisibile automatizzata: una realtà pericolosissima in cui tutto, anche l’uomo, si riduce a calcolo e ogni condotta/aspirazione è gestita da un algoritmo. Il massimo della disumanizzazione a cui contrapporre, per salvarci, un umanesimo

Pubblicato il 03 Ott 2019

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

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Cos’è la Silicon Valley? La forma estrema ed estremistica dell’anarco-capitalismo statunitense, oggi diventato ideologia globale?

Oppure è la realizzazione compiuta dello stato neoliberale sotto forma di impresa e che ora arriva – nella sua disruption della democrazia rappresentativa e della divisione/bilanciamento dei poteri dello stato moderno – ad avere pure una propria moneta anch’essa globale, come Libra; moneta emessa non da uno stato o da un gruppo di stati o denaro creato dal sistema finanziario ombra, ma da un’impresa privata non bancaria né finanziaria come Facebook che a sua volta si fa stato sovrano e sovranista emettendo moneta?

Oppure è un oligopolio economico ma anche politico, ovvero una te(cn)o-crazia della tecnica, capace di vendere non solo tecnologia, ma un’ideologia (o una religione, la prima davvero globale – Demichelis, La religione tecno-capitalista, 2015)?

Oppure, e al contrario di come ancora qualcuno ingenuamente crede (sempre nel senso religioso e fideistico del termine), la Silicon Valley – luogo fisico e metafisico insieme del potere della tecnica – è davvero il nuovo che avanza e che non si può e non si deve fermare, perché la tecnica deve essere sempre libera di agire e di svilupparsi – e se minaccia la libertà dell’uomo e la democrazia (arrivando al capitalismo della sorveglianza secondo Shoshana Zuboff, ma anche, e peggio, al compimento della società tecnologica avanzata secondo Marcuse), questo è solo un effetto collaterale di poco conto delle sempre magnifiche sorti e progressive?

O la rete non è forse e piuttosto, come sosteniamo da tempo, la forma più perfetta e totalitaria di quella società amministrata – in cui tutto diviene automatico/automatizzato, oggi anche il pensiero dell’uomo – denunciata a suo tempo dalla Scuola di Francoforte?

L’uomo nella ‘fabbrica integrata globale’

In realtà, siamo sempre più sussunti – brutta parola otto-novecentesca, ma efficace per comprendere anche il tempo della rete – o ibridati dentro a un apparato tecnico di cui non siamo più mere appendici come eravamo un tempo neppure troppo lontano (e già questo era tristissimo), ma parti totalmente integrate che funzionano così come dispongono e comandano le macchine/algoritmi (e questo è massimamente triste).

Siamo cioè sussunti non tanto al/nel capitale (Marx) – anche se il processo è certo favorito dal modello di business della Silicon Valley: i nostri dati (cioè la nostra vita di persone) in cambio di una apparente gratuità dei servizi offerti dalla Silicon Valley – quanto in macchine sempre più grandi e sempre più integrate tra loro, secondo il principio andersiano della convergenza. Cioè della integrazione.

Realizzare la fabbrica integrata era il sogno di Ford e di Taylor con la sua organizzazione scientifica del lavoro; era poi il sogno di Taiichi Ohno e del suo modello toyotista in just in time; e poi della lean production e oggi del Wcm e della Industria 4.0. Era (è) il sogno di ogni ingegnere d’organizzazione, sia per la produzione e sia per il consumo. Ma il processo si moltiplica ulteriormente e si fa integralmente più pervasivo e totalitario nella integrazione/sussunzione di ogni nodo/persona-lavoratore/consumatore/produttore di dati dentro a questa fabbrica integrata che si chiama rete. E più e meglio la tecnica permette l’integrazione (è la sua forma/norma deterministica e totalizzante) – oggi anche smaterializzando, via rete/piattaforme la stessa fabbrica e l’organizzazione del lavoro/consumo – più questa integrazione/sussunzione si può e si deve realizzare.

Ma se la fabbrica integrata è una forma di integralismo industriale volto a massimizzare produttività e profitto azzerando tempi morti e conflitti interni e l’umano ridotto a parte della macchina, se questo modello perverso in sé diventa anche un modello e una norma di organizzazione sociale allora usciamo dalla democrazia e dalla libertà, entrando ancor di più nel totalitarismo tecnico e capitalistico denunciato appunto dalla Scuola di Francoforte.

Fino a trent’anni fa esistevano ancora i contrappesi al potere totalizzante della fabbrica integrata/integrante di allora: le leggi (e nel 2020 si dovrebbero celebrare i 50 anni dallo Statuto dei lavoratori, riconoscimento dei diritti civili e politici di democrazia anche dentro le imprese); il sindacato; una sinistra sinistra; il pensiero critico; e il conflitto (tra pochi mesi ricorrono i 50 anni dell’Autunno caldo, ovvero della riappropriazione di una soggettività politica e sociale da parte degli esclusi dalla cittadinanza). Un conflitto di idee e di progettualità che è a fondamento di ogni democrazia degna di questo nome. Oggi questi contrappesi non ci sono più o sono stati indeboliti. Il pensiero neoliberale ha cancellato la democrazia dall’impresa (e sempre più spesso anche dalla polis) e ha fatto dell’impresa autocratica e integrata il benchmark anche della politica.

Ha fatto quindi effetto – ma è durato poco – la recente intervista alla BBC di Nick Clegg, vicepresidente di Facebook che ha stupito molti invocando nuove regole per il rispetto della privacy, dopo che per anni Facebook (la più grande agenzia di spionaggio e di pubblicità mai realizzatasi nella storia umana), ci ha indottrinanti dicendoci e convincendoci che la privacy era oramai un concetto del passato. Già, perché se non avessimo rinunciato alla privacy e non avessimo condiviso ogni cosa/affetti/relazioni della nostra vita via rete/social non avremmo permesso alla Silicon Valley di profilarci, ovvero di spiarci per costruire il Big Data necessario a sua volta per modellizzare (appunto: amministrare e automatizzare) i nostri comportamenti via algoritmi, sussumendoci nella rete, noi identificandoci con la rete, noi alienandoci da noi stessi: un noi stessi di cui la privacy è fattore decisivo e la cui assenza determina l’azzeramento di ogni soggettività e di ogni capacità di individuazione.

Ha detto Clegg: “Non spetta alle compagnie private… implementare queste regole”. “Il compito spetta ai politici del mondo democratico”. Principio giusto in sé ma che, detto da chi – dopo avere modificato e normato a suo vantaggio/profitto i comportamenti individuali e sociali – sta appunto pensando anche di stampare moneta aggirando la democrazia e la sovranità e i controlli bancari, suona ridicolo se non fosse tremendamente inquietante.

La Silicon Valley e il principio di contraddizione

Espressioni, quelle di Clegg, che dimostrano tuttavia come il principio di non contraddizione sia stato totalmente rimosso dalla Silicon Valley, portandoci a considerare normale anche la contraddizione, potendo dire tutto e il contrario di tutto senza imbarazzo, senza reazione e senza opposizione. Ha commentato Shoshana Zuboff (The Guardian, 2 luglio 2019): “Venendo da una company che ha opposto una fiera resistenza alle nuove leggi [a difesa della privacy], il messaggio di Clegg è finalizzato a persuaderci che si sia voltata pagina. Affermazioni come queste suonano però come un nuovo linguaggio atto a nascondere fatti inaccettabili. Poche settimane prima, infatti i capi di Facebook, Mark Zuckemberg e Sheryl Sandberg, avevano snobbato l’audizione chiesta dal Parlamento canadese che voleva porre loro delle domande [sui comportamenti di Facebook e sulle violazioni della privacy]. In quell’occasione Clegg utilizzò gli argomenti standard della Silicon Valley contro lo stato di diritto, ammonendo sui rischi che qualunque tipo di restrizione comporterebbe rendendo praticamente impossibile per le industrie tecnologiche fare vera innovazione”.

E questa è appunto la normalizzazione/banalizzazione della contraddizione – come della indistinzione tra vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto: un fenomeno tipico e strutturale (come l’unificazione degli opposti) di ogni totalitarismo e di ogni fideismo (come di ogni populismo, pensiamo a Matteo Salvini).

Scriveva Herbert Marcuse, già nel 1964, a proposito di società tecnologica avanzata capitalistica – e questo richiamo serve a dimostrare ancora una volta come l’oggi della rete non sia nuovo e diverso rispetto al passato, ma vecchio nella sua forma e norma di funzionamento, per cui, per analizzare e capire questo apparente nuovo occorre utilizzare ancora le categorie intellettuali otto-novecentesche di sfruttamento, totalitarismo, società di massa, pluslavoro e plusvalore, alienazione, sussunzione. Scriveva dunque Marcuse: “Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la contraddizione appare come un principio della logica della manipolazione – caricatura realistica della dialettica. È la logica di una società che può permettersi di fare a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado di dominare con mezzi tecnologici la mente e la materia” (L’uomo a una dimensione, 1999: 101).

E in questo totalitario (e ormai accettato come normale) principio di contraddizione – che permette la riproducibilità infinita dell’apparato tecno-capitalista, della integrazione di tutti nel tutto controllato/automatizzato della società amministrata da algoritmi, a prescindere dalla utilità sociale dell’innovazione – noi siamo dentro fino al collo; anzi ormai anche con la testa, avendo rinunciato a usare l’intelligenza in modo autonomo, consapevole e responsabile, delegando sempre più la nostra vita a un algoritmo (Demichelis, La grande alienazione, 2018). E questo perché (ancora Marcuse, un autentico maestro, da rileggere e da meditare): “La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia, piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita” (L’uomo a una dimensione: 4).

Anzi, e di più e peggio: lasciando alla Silicon Valley il potere assoluto (che è il potere/sapere di dire il vero o meglio di affermare come vero ciò che deve essere creduto come vero, anche se non è vero) di stabilire/dire il vero su cosa sia la vera innovazione, noi rinunciando alla capacità e alla possibilità umane di analizzare, valutare e poi decidere cosa sia meglio per noi, anche – e oggi soprattutto – in termini di (vera e socialmente utile) innovazione tecnologica.

Perché se la vera innovazione permette poi a chi la produce di svuotare la democrazia, amministrare la vita umana, spiare ciascuno estraendo profitto privato dai suoi dati, integrare ciascuno in un apparato efficiente e calcolato e quindi buono e giusto in sé perché senza sprechi e senza tempi morti, allora dovremmo porci davvero e urgentemente il problema di come evitare che la libertà d’innovazione e di impresa cancelli la libertà dell’uomo e la democrazia. Altrimenti l’effetto sarà – ancora Marcuse – “l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni e alternative”, chiudendoci “nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica” (ivi: 92 e 98). Che tende a far identificare le cose, ma anche le persone, con la loro funzione (come anche oggi dentro la fabbrica integrata-rete, dove tutto deve essere integrato, connesso, sincronizzato, efficientato, razionalizzato ma solo secondo la ragione del calcolo).

Dovremmo cioè riconoscere che da tempo (sempre Marcuse – 1964), “l’apparato tecnico di produzione e di distribuzione (con un settore sempre più ampio in cui predomina l’automazione) funziona non come la somma di semplici strumenti, che possono essere isolati dai loro effetti sociali e politici, ma piuttosto come un sistema che determina a priori il prodotto dell’apparato non meno che le operazioni necessarie per alimentarlo ed espanderlo. In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…) La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli” (ivi: 9).

Ovvero, da Marcuse arrivando a Günther Anders, le forme tecniche diventano forme sociali (L’uomo è antiquato, II, 2003: 99). Per cui anche o soprattutto nella fabbrica-rete – dove tutti siamo al lavoro, attivati e controllati e connessi e sincronizzati e integrati in tempo reale e a produttività crescente – si determinano a priori (un a priori tecnologico o una coscienza felice, ancora Marcuse, cioè la credenza che “il reale è razionale e che il sistema mantiene le promesse”, producendo “un conformismo che è un lato della razionalità tecnologica tradotta in comportamento sociale” – ivi: 96) non solo le occupazioni, le abilità (oggi chiamate competenze) e gli atteggiamenti socialmente richiesti (dover essere connessi, dover condividere, assoggettarsi alle metriche del lavoro imposte dagli algoritmi, essere amministrati secondo i tempi ciclo della fabbrica-rete, rinunciare alla privacy per permettere alla Silicon Valley di estrarre valore dalla vita intera dell’uomo sussunta integralmente nel sistema come fattore di produzione), ma anche le aspirazioni individuali (viversi come capitale umano o imprenditori di se stessi e non come persone; esistere nel virtuale più che nel reale; essere incessantemente mobilitati a fare e non a pensare).

Perché la tecnologia – che è, per propria essenza e ontologia, a-democratica se non anti-democratica, ma soprattutto de-socializzante – serve poi (è ancora nella sua essenza e ontologia) a far accettare forme crescenti di controllo e di auto-controllo/auto-profilazione, ma produce anche coesione sociale e ordine (anche se irrazionale e contraddittorio, con il riscaldamento climatico che esprime drammaticamente la contraddizione di fondo tra bio-sfera e tecno-sfera). Un ordine che dà ordine al disordine (distruzione creatrice, oggi disruption) e alle contraddizioni che il sistema incessantemente produce. Stabilizzandole e normalizzandole.

Il discorso pubblico chiuso in se stesso

Perché, riprendendo ancora Remo Bodei che ricordava Ernst Jünger: “la tecnica diventa, essa stessa, produttrice di ordine, di disciplina, di compattezza. Proprio perché la tecnica non produce alcun effetto di spaesamento o di spersonalizzazione, ma al contrario [anche] un forte senso di appartenenza alla comunità – gerarchicamente concepita secondo il modello dell’esercito – uomini e macchine possono non solo coesistere, ma crescere simbioticamente” (Bodei, Introduzione a: Adorno, Il gergo dell’autenticità: XLI).

E quindi gli uomini devono coincidere/identificarsi/ibridarsi/integrarsi con il sistema che li sussume e li mobilita dando loro un ordine, una compattezza (le metafore della rete, della condivisione, dello sciame – e le community e i social) – e questo permette al sistema di riprodurre poi la dynamis/mobilitazione totale di tutti con il tutto tecnico, di cui vive e con cui si riproduce. E questo grazie alla produzione di un forte (ma assolutamente falso, eppure molto funzionale) senso di appartenenza e di condivisione e di partecipazione/integrazione-connessione comunitaria; e di un discorso pubblico “dove ormai compaiono solo proposizioni auto-validantisi, che funzionano come formule magico-rituali. Ficcate con un martellamento continuo nella mente della gente, esse pervengono a chiuderla nel cerchio delle condizioni prescritte dalla formula”. Producendo “un discorso che procede per sinonimi e tautologie” (o generando il monologo collettivo di cui parlava Anders), “che quindi non procede mai in direzione di una differenza qualitativa” (Marcuse, cit.: 100).

E pensiamo al discorso pubblico di oggi, fatto incessantemente di parole come smart, condivisione, ecosistema tecnologico, intelligenza artificiale, Fabbrica 4.0…, che non procede mai verso una differenziazione qualitativa ma solo verso l’omologazione, l’unificazione del linguaggio, dei comportamenti e delle aspirazioni individuali – perché la fabbrica integrata non accetta né ammette altro dalle proprie norme e forme di funzionamento, razionali in sé e dunque – a pena di essere esclusi in quanto irrazionali – non contestabili né sostituibili con altre forme di razionalità. A dominare è sempre e solo una razionalità strumentale/calcolante, tecnica e scientifica, figlia di una Ragione moderna portata però a negare se stessa. Perché il pensiero conformato e omologato, il discorso pubblico nel quale siamo immersi, determina la verità solo del calcolo e della calcolabilità e tutto si riduce a calcolo, anche lo stesso uomo divenuto appunto capitale umano, numero, dato. Perché (Marcuse, ancora: 175) “soltanto nel medium della tecnologia, l’uomo e la natura diventano oggetti fungibili di una organizzazione. L’efficacia e la produttività universali dell’apparato nel quale essi sono inclusi, occultano gli interessi particolari che organizzano l’apparato. In altre parole, la tecnologia è diventata il maggior veicolo di reificazione. Il mondo reale tende a diventare materia di amministrazione totale (…). La tela di ragno del dominio è diventata la tela della Ragione stessa, e la società è fatalmente invischiata in essa”.

È possibile allora immaginare di uscire da questa razionalità irrazionale? È possibile restare umani, cioè liberi soggetti dotati di intelletto (sapere aude!, scriveva Kant) senza dover essere amministrati da un algoritmo?

Per una critica della ragione artificiale. Éric Sadin

E arriviamo così all’ultimo libro di Éric Sadin, Critica della ragione artificiale (Luiss University Press, 2019). Dove si recuperano Marcuse, Anders, Foucault e molti altri; e dove – avvicinandosi alle tesi che abbiamo sostenuto nel nostro saggio sulla alienazione (e per questo il libro di Sadin ci piace molto) – si cerca di fare pensiero critico su una tecnologia (in particolare sulla intelligenza artificiale) che è sempre più una tecnologia dell’integrale e dell’integrazione. Con dispositivi (nel senso di apparati tecnici ma soprattutto di ciò che dispone e comanda, sia pure in modo soft) che sempre più orientano e governano, dall’alto della loro autorità una società umana diventata dis-umana perché sempre più amministrata da macchine/I.A. – ancora, è vero solo ciò che è vero perché calcolabile matematicamente. La tecnica acquisendo quindi il potere di enunciare la verità (e noi delegandoglielo), assumendosi un ruolo ingiuntivo e sradicando il dubbio e la riflessione umana e umanistica in nome dell’esattezza, a prescindere.

Siamo entrati cioè in una data-driven society, dove alla vecchia mano invisibile del mercato si affianca, ibridandosi/convergendo con la prima, una mano invisibile automatizzata. Ma mentre la prima era una favola liberale per anime semplici e ingenue, la seconda è invece una pericolosissima realtà (una macchina integrata e integrante) per una amministrazione automatizzata delle condotte umane. Appunto: il massimo della dis-umanizzazione. Per cui il libro di Sadin si chiude con una appassionata difesa dell’umano contro un macchinismo che lo spossessa di se stesso, alienandolo da se stesso e dalla consapevolezza e dalla responsabilità, sottomettendo la figura umana a una pura razionalità astratta e quindi irresponsabile – ad esempio verso la biosfera e le future generazioni.

Anti-modernità, tecno-fobia, luddismo 2.0? No, umanesimo allo stato puro. Un libro da leggere anche in vacanza, dopo avere spento lo smartphone; per tornare a guardarlo – una volta chiuso il libro di Sadin – con occhi diversi.

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