Penso sia giunto il momento di discutere di metodologie e di organizzazione della smart city.
Mi spiego. Quando discutiamo di smart city dobbiamo avere la consapevolezza che non stiamo analizzando qualche tecnologia, o qualche singola innovazione che rende la nostra città maggiormente virtuosa nella gestione dell’ambiente, piuttosto che per offrire una migliore gestione del traffico.
Quando si discute di smart city si delinea, innanzitutto, uno scenario futuro per le nostre città. L’oggetto della discussione è quindi quello del destino, del futuro degli ambienti urbani nell’epoca dell’information technology.
D’altronde la città e l’ambiente urbano più in generale sono lo scenario rispetto nel quale si misurano maggiormente le forze dell’innovazione scatenata dall’information technology.
Organizzare l’innovazione, renderne partecipe l’intera community cittadina, recuperare e valorizzare i dati generati dalle attività degli stakeholders e dei city user è l’essenza, il fine della governance di una città intelligente (non mi piace il termine smart city, è troppo associato alle tecnologie). Ho già definito tre termini: governance, stakeholders, city user.
Quando parliamo di città intelligente non potremo mai limitarci a ritenere che gli organi istituzionali, il Sindaco, la Giunta, il Consiglio Comunale esauriscano il numero dei soggetti protagonisti. L’intelligenza di una città è un percorso continuo, è il frutto dell’attività di soggetti pubblici e privati. D’altronde l’Information Technology pervade tutte le nostre attività.
Quindi, l’organizzazione della città intelligente è il frutto di un dialogo, di una concertazione costante tra i diversi stakeholders interessati alla gestione e allo sviluppo dei dati e delle attività legate al mondo dell’I.C.T..
Il terzo termine che voglio usare è city user. Il concetto di residente, tuttora usato (il residente a Venezia, Milano ecc.) ha senso solo se collegato agli aspetti burocratco/amministrativi della vita di una città. In realtà una città è vissuta da miriadi di persone che considerano un ambiente urbano come un luogo dove sviluppare le proprie attività, non importa dove è situata la loro residenza anagrafica.
Se l’oggetto dell’intelligenza in una città è la produzione e l’uso dei dati, la residenza anagrafica del “produttore” di dati/conoscenza importa relativamente. Forse che i dati generati da un turista attraverso l’uso di FourSquare sono meno importanti e utilizzabili di quelli generati dal tradizionale residente? Le Amministrazioni locali sono abituare a “pianificare” le attività e lo sviluppo di un territorio.
Il mondo materiale (gli atomi) è ben conosciuto. Da decenni la legislazione ha normato le modalità di pianificazione di un territorio. La normativa ci indica o meglio ci impone, come organizzare le diverse attività che si svolgono in un ambiente urbano.
Il termine pianificazione, tuttavia, si riferisce ad una capacità (possibilità) di una comunità urbana di guidare, attraverso l’indirizzo delle Istituzioni, il destino del territorio. Ciò presupporrebbe la possibilità di prevedere per un lasso di tempo medio lungo l’evolversi dello sviluppo economico e tecnologico.
Se ci pensate bene questa è la storia della città figlia dello sviluppo economico industrialista e fordista. I luoghi, le funzioni dei luoghi, i tempi della città erano facilmente prevedibili e pianificabili. Questa epoca della storia dello sviluppo dei territori urbani è finita da tempo, ma pochi se ne rendono conto.
Una Comunità locale, in modo del tutto legittimo, può prefigurare un orizzonte da raggiungere. In funzione degli obiettivi che si dà, può disegnare l’assetto del territorio. Una città che pensasse che il mondo si adegui ai suoi desiderata è destinata al declino. Di autoreferenzialità si muore.
I tradizionali strumenti di pianificazione sono stati messi in discussione prima di tutto dai processi di globalizzazione. Le imprese, i capitali, gli interessi, le persone si spostano a velocità mai viste prima di ora. Nella ridislocazione della ricchezza e della conoscenza nel mondo un territorio non potrà più svilupparsi secondo i parametri quantitativi e di diffusione spaziale (lo spazio materiale). Questo è stato il passato.
È la qualità del vivere, delle forme di governo, la capacità di offrire nuove opportunità lavorative sono i fattori che oggi fanno la differenza tra un territorio ed un altro. Soprattutto, l’innovazione oggi è veloce.
I tempi di sedimentazione dell’innovazione nel ‘900 erano lunghi. Sono rappresentabili con una lunga curva, quasi piatta. Quindi, tempi lunghi, possibilità di adeguarsi e cogliere i vantaggi innovativi. Questo è il ‘900. I protagonisti dell’innovazione erano facilmente identificabili. Tra i soggetti istituzionali e i soggetti economici si svolgeva la contrattazione che determinava la “vocazione” di un territorio.
Osservazioni ai piani urbanistici e controdeduzioni erano gli strumenti attraverso i quali si manifestavano le volontà degli stakeholders e dei residenti. E ancora oggi, dappertutto si fa così. Per carità sono strumenti che hanno ancora una loro validità. Ma non intercettano, nel bene come nel male, il manifestarsi dell’innovazione.
L’innovazione nell’epoca dell’Information Technology è rapida, è disruptive. Non è pianificabile, ed è difficilmente prevedibile nel suo manifestarsi. Chi poteva prevedere l’avvento dei device mobili?
Essa si afferma spesso distruggendo i parametri economici e sociali delle tecnologie che l’avevano preceduta. I vecchi strumenti di pianificazione sono assolutamente inutilizzabili. Ma, a differenza delle tecnologie precedenti, l’Information Technology offre straordinarie opportunità per far si che le persone affermino un nuovo protagonismo nella vita delle città.
L’avvento dell’uso di massa dei device mobili (Android, IPhone, IPad) e del socialnetworking ha cambiato molti dei costumi tradizionali della vita in una città. Il problema è che la stragrande maggioranza di noi non è consapevole (termine a me assai caro) delle potenzialità offerte dalle tecnologie I.T. Se oggi una “Governace cittadina” decidesse di attivare politiche finalizzate a tracciare un cammino “intelligente” dovrebbe acquisire la consapevolezza di attivare alcune attività costanti nel tempo.
In tutti i casi la cultura della governance dovrebbe essere improntata alla massima flessibilità. Ho già affermato che la velocità e l’imprevedibilità dell’innovazione sono la costante della nostra epoca. Di seguito evidenzio alcune priorità attorno alle quali dovrebbe soffermarsi particolarmente l’attività di “indirizzo” della governance cittadina per creare un “luogo” favorevole all’innovazione I.T..
1- Politiche continue di alfabetizzazione digitale di tutta la popolazione. Il tema dell’alfabetizzazione digitale va finalizzato alla “consapevolezza” delle infinite potenzialità culturali, democratiche e partecipative che oggi ci offrono le piattaforme presenti sul web.
Sarebbe assolutamente limitativo pensare che l’entropia IT in una città si forma attraverso l’uso della PEC, o il “portale del cittadino”. E’ l’uso consapevole del web ciò che fa la differenza. Le forme per favorire l’alfabetizzazione possono essere molteplici, sono tutte scarsamente costose.
2- Politiche per l’infrastrutturazione digitale dell’area urbana. A questo proposito è necessario agire sotto un duplice profilo. Le Pubbliche Amministrazioni devono acquisire la coscienza che il territorio da infrastrutturare è loro, non delle TELCO. Ciò potrà consentire alle P.A. di “indirizzare” e di contrattare le politiche di infrastrutturazione. Con propri atti interni una Amministrazione dovrebbe assimilare l’infrastrutturazione I.T. alle opere ordinarie di infrastrutturazione primaria del territorio. Insomma, Internet è come l’erogazione dell’acqua, del gas, la rete fognaria. Una governance dovrebbe poi disegnare l’infrastrutturazione wifi come una rete aperta, una sorta di raganatela. WIFI pubblici e privati andrebbero messi “in rete” tra di loro. Definirei questa come una rete frutto di politiche di sussidiarietà tra soggetti pubblici e privati.
3- Promuovere un piano degli orari cittadini (o metropolitani) che incentivi forme di lavoro “decontestualizzato”, “nomadico”. Il contemporaneo diffondersi di piattaforme di cloud computing, i device mobili, il social networking fa si che venga sempre meno il significato tradizionale di luogo, funzione, orario. L’affermarsi di spazi di coworking, e, in generale, di luoghi di lavoro “condivisi”, può ad esempio abbattere drasticamente l’impatto del traffico e, conseguentemente le emissioni nocive. Pubblico e privato assieme potrebbero, anche in modo sperimentale, organizzare e condividere tali forme di attività lavorativa. Sia negli USA, che in Paesi UE si stanno sperimentando, da tempo, queste attività.
4- Promuovere l’uso consapevole del social networking sia tra gli stakeholders che tra i city user. Il social networking genera informazioni, notizie utili alla vita cittadina e alle attività economiche. L’uso del social networking rafforza le forme di democrazia partecipativa, suscita un flusso bidirezionale di dialoghi tra i cittadini e i cittadini e le Istituzioni.
5- I dati vanno liberati e resi disponibili (Open Data by Default). Naturalmente i dati da liberare non possono essere solamente quelli generati dalle attività della pubblica istruzione. I dati “pubblici” sono importanti, ma non sono sufficienti per generare valore economico e sociale (The Big Data). Va introdotto e assimilato il concetto del dato “di interesse pubblico”. Ci sono cioè serie di dati generati da soggetti privati (o di diritto privato), ma che, se organizzati e messi in relazione con altri dati ricoprono importanti finalità pubbliche. La sanità, il trasporto, l’assetto del territorio, l’uso dell’energia sono ambiti nei quali urge una miglior definizione di dato da liberare.
Queste sono solo alcune suggestioni, avrei potuto aggiungerne altre.
Ciò che vorrei ottenere è il far comprendere come, quando parliamo di smart city, non ci limitiamo a digitalizzare la città del ‘900, l’obiettivo che dovremmo sempre prefiggere è quello di usare le tecnologie I.T. per suscitare intelligenza in una città.