L'ANALISI

Diritto all’oblio e attività di polizia, come equilibrare sicurezza e privacy

I dati personali di un cittadino sottoposto a indagini penali (anche se poi scagionato) restano nella banca dati interforze per 20 anni. Una sentenza della Cassazione accende un faro sui limiti di autorità pubblica e sfera privata. Cosa prevedono Gdpr e codice privacy

Pubblicato il 16 Ott 2019

Alessandra Bossi

Privacy Specialist

Privacy-O2

Nel novero dei diritti che il GDPR e (prima ancora) il d.lgs. 196/2003 riconoscono all’interessato, si trova all’art. 17 il diritto alla cancellazione dei dati, anche noto come “diritto all’oblio”. In caso di informazioni conservate e trattate dalle autorità nello svolgimento di attività di polizia, interviene la Cassazione con una sentenza che punta al “difficile bilanciamento tra l’interesse collettivo all’esercizio dei compiti di prevenzione e repressione dei reati e […] quello individuale alla tutela della propria sfera di riservatezza”. Approfondiamo il tema.

Il GDPR al Considerando 47 disciplina “che spetta al legislatore prevedere per legge la base giuridica che autorizza le autorità pubbliche a trattare i dati personali, la base giuridica per un legittimo interesse del titolare del trattamento non dovrebbe valere per il trattamento effettuato dalle autorità pubbliche nell’esecuzione dei loro compiti” e nell’art. 2, secondo comma, lett. d) specifica che il Regolamento non si applica ai trattamenti di dati personali effettuati dalle autorità competenti.

Diritto all’oblio e polizia, cosa prevede il GDPR

La disciplina da attuare è stabilita dal diritto dell’Unione o dello Stato membro che, in accordo con l’art. 23 primo comma, lettera d) GDPR, possono limitare, mediante misure legislative, la portata degli obblighi e dei diritti dell’Interessato per “la prevenzione, l’indagine, l’accertamento e il perseguimento di reati o l’esecuzione di sanzioni penali. Posta l’applicazione dei principi generali del GDPR, la normativa di riferimento è la Direttiva UE 2016/680 del 27 aprile 2016, recepita dal nostro ordinamento con il d.lgs. 51 del 18 maggio 2018, che tratta nello specifico la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti, specificando nel Considerando 4 la necessità in materia di un “quadro giuridico solido e più coerente. L’interessato, conformemente alle norme nazionali sui procedimenti giudiziari, deve essere posto nelle condizioni di esercitare i propri diritti, quali accesso, rettifica, cancellazione e limitazione.

L’art. 12 del d. lgs. 51 regola nel dettaglio il diritto alla cancellazione di dati personali quando il trattamento risulti in contrasto con i principi di liceità, correttezza, non eccedenza, pertinenza e minimizzazione e in ogni altro caso previsto dalla legge. I flussi di dati gestiti da parte delle Forze di polizia sono disciplinati con l’art. 47, nel quale è specificata la possibilità per gli organi o uffici interessati di “avvalersi di convenzioni volte ad agevolare la consultazione da parte dei medesimi organi o uffici, mediante reti di comunicazione elettronica, di pubblici registri, elenchi, schedari e banche di dati, nel rispetto delle pertinenti disposizioni”. Per questo tipo di convenzione è richiesto un parere conforme del Garante. Al secondo comma è sottolineata la necessità di conservare separatamente i dati trattati per finalità di indagine, rispetto agli scopi amministrativi, pur garantendo, come previsto al terzo comma, da parte del CED l’aggiornamento, la proporzionalità e la non eccedenza dei dati trattati.

Cancellare i dati: ecco la sentenza della Cassazione

Alla luce della rinnovata normativa in materia, nonché del ravvivato interesse pubblico è opportuno analizzare la recente pronuncia della Corte di Cassazione[1], che si è espressa in merito ad una richiesta di cancellazione di dati dagli archivi del Centro Elaborazione Dati, contenenti informazioni in merito a indagini svolte dall’autorità di polizia. Il ricorrente, sette anni dopo il termine degli accertamenti e risultando estraneo al reato oggetto di indagine, chiedeva la trasformazione dei dati in forma anonima, sostenendo un pregiudizio nella propria attività professionale.

Il Tribunale di Roma con sentenza n. 6718/2014 rigetta la domanda motivando che l’accesso ai dati conservati negli archivi magnetici del CED è consentito solo a personale autorizzato per accertamenti, e nei limiti stabiliti dalla normativa processuale; la cancellazione è consentita “soltanto nelle ipotesi in cui si tratti di dati inesatti o illegittimamente acquisiti, lasciando margine per un’attività di integrazione nelle ipotesi di dati incompleti. Era stato infatti specificato che i dati trattati per finalità di conservazione ed elaborazione da parte del CED non sottostanno alle disposizioni del d. lgs. 196/2003, essendo l’attività amministrativa separata dall’attività di trattamento dati svolta da parte delle forze di polizia, pur garantendo l’aggiornamento periodico, la pertinenza e la non eccedenza. La sola acquisizione in modo lecito dei dati garantiva la non applicabilità di una eventuale richiesta di esercizio del diritto alla cancellazione.

In seguito al rigetto del Tribunale di Roma, l’interessato ricorre in Cassazione adducendo che l’annotazione dell’esito delle indagini non sia sufficiente ad impedire una lesione del suo diritto alla riservatezza, nonché il perpetrarsi del pregiudizio per la sua attività professionale, risultando infatti il suo nome ancora legato al reato e agli altri indagati. Il ricorrente inoltre ritiene che la conservazione dei suoi dati non risponda ad alcuna finalità di prevenzione o repressione di un reato.

I tempi previsti per la conservazione dei dati

Considerate le pronunce successive, i nuovi orientamenti ispirati dalla normativa comunitaria e il Regolamento Europeo 2016/679, nella sentenza n. 21362 è demandata alla competenza di un decreto del Presidente della Repubblica l’individuazione delle modalità di attuazione dei suddetti principi. Nel D.P.R. 15 gennaio 2018, n. 15 è stabilito che le informazioni relative ad attività di polizia giudiziaria rispettino i principi di completezza, pertinenza e non eccedenza, regolando inoltre le modalità di acquisizione, trattamento e accesso ai dati. L’art. 10 in tema di conservazione stabilisce che i dati non possano essere conservati dopo il conseguimento delle finalità di polizia, introducendo nei commi seguenti una regolamentazione specifica suddivisa per tipologia di dati.

In particolare, al terzo comma, lettera f) il periodo di conservazione delle informazioni relative ad attività di polizia giudiziaria conclusasi con provvedimento di archiviazione è fissato a venti anni, a partire dall’emissione del provvedimento stesso di archiviazione.

Tale disposizione, rispettando i principi del Regolamento Europeo, non permette di accogliere la domanda del ricorrente, pertanto il ricorso è rigettato.

La circostanza che i dati trattati siano corretti, aggiornati e utilizzati per le finalità dichiarate, unitamente alla possibilità di richiedere un parere al Garante o l’intervento dell’Autorità giudiziaria costituiscono un insieme di cautele per evitare, in accordo con l’art. 8 CEDU, l’ingerenza di una autorità pubblica nella sfera privata e familiare dell’individuo, “a meno che tale ingerenza sia prevista dalle legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.” È fondamentale infatti ricordare che questo complesso equilibrio, pur trovando origine nella specifica situazione concreta, trova risoluzione nel confronto e comparazione con normative di più ampio respiro, nazionali e comunitarie.

  1. Cass. Civ. sez. I, Ord., 29 agosto 2018, n. 21362.

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