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Consulenti all’innovazione nelle PMI: un vademecum per vincere la sfida

Tutti i problemi che un consulente si trova a affrontare nell’ambito della gestione strategica dei sistemi informativi e dell’innovazione nelle PMI e come risolverli anche sulla base del profilo del decisore e delle relazioni interne alle varie aziende

Pubblicato il 18 Ott 2019

Guido Zucchelli

Ordine Ingegneri Roma

pmi innovazione

E’ possibile fare con successo il consulente di innovazione nelle pmi e anzi sarebbe persino auspicabile per il Paese, considerando quanto quelle siano importanti per la crescita per l’Italia.

Ma è un’impresa che richiede molte accortezze.

La dura vita del consulente nelle pmi

Vorrei qui sfatare uno dei miti relativamente alla velocità dei processi decisionali interni delle PMI.

Secondo tale mito le decisioni all’interno delle PMI sarebbero prese in modo molto veloce, sia perché indubbiamente i progetti sono meno complessi, sia perché nelle PMI sono assenti le consuete sovrastrutture formali (steering commitee, working groups, projecty reporting etc.) che si trovano in aziende strutturate, ma soprattutto perché nelle PMI esiste una elevata concentrazione del potere decisionale che semplificherebbe il processo. Ebbene, se in linea generale questa dovrebbe essere la norma, nella mia esperienza ho conosciuto imprenditori (e tento di dare qualche dettaglio ulteriore nella sezione “Profili decisore”) a cui necessitavano lunghe settimane, quando non addirittura mesi, per prendere decisioni anche non particolarmente complesse.

Altri problemi che frequentemente si incontrano nell’approccio con le PMI sono i seguenti:

  • In generale nelle PMI il consulente viene visto con una certa dose di “sospetto” dall’imprenditore e dai dipendenti. L’obiettivo del consulente (almeno nel settore dei Sistemi Informativi, che conosco di più, ma credo in generale) è quello di applicare schemi e modelli che sistematizzano e controllano l’attività aziendale. Questo viene letto dalla PMI come “burocratizzazione”, che è per l’imprenditore italiano l’equivalente di un veleno letale per un medico.
  • Nel caso specifico della gestione strategica e la digitalizzazione, i temi sono così al di fuori (fatte le dovute eccezioni) della quotidiana battaglia del fatturato che è molto difficile che vengano associati come attività con un valore aggiunto, e che corrispondentemente venga percepita la necessità di investire in tale attività.
  • Come conseguenza di ciò, la richiesta è invariabilmente quella di “far spendere poco e risparmiare tanto” ma forse questo punto è vero per qualunque progetto di qualunque azienda grande, media piccola o piccolissima che sia.

Strategia vs Tattica

Spesso nelle aziende si sente parlare di Strategia Aziendale e Gestione Strategica delle funzioni aziendali, ma quando poi si cerca di calare tale terminologia in un obiettivo di progetto SMART (Specific, Measurable, Achievable, Realistic, Time-Based) ecco che ci si trova di fronte ad una incomprensione sulla sostanziale differenza fra i possibili livelli di intervento, specialmente riguardo alle azioni di tipo tattico rispetto alle iniziative strategiche.

L’imprenditore è per sua natura orientato al “qui e ora” e raramente (anche se non mancano i casi illuminati) ha tempo e voglia di esplicitare in una qualsiasi forma – tanto meno in un formale documento di pianificazione teorica- le strategie che magari in forma non organica e strutturata sono purtuttavia ben presenti nella sua mente. Ed in effetti in nessuna occasione, in aziende imprenditoriali, ho trovato una qualche forma di comunicazione verso il mondo esterno e verso i dipendenti dei programmi di lungo periodo della visione strategica dell’imprenditore. Al massimo tali comunicazioni venivano fornite durante i meeting di verifica dei budget con le vendite, in cui venivano lanciati messaggi del tipo “Dobbiamo incrementare il fatturato cercando nuovi Clienti in quest’area geografica oppure in questo settore”, o simili. Messi di fronte a precise richieste di definire la strategia che li guidava nelle loro decisioni, immediatamente il discorso veniva riportato su tematiche inerenti alla crescita del fatturato nei prossimi anni, o in altri casi della necessità di ridurre i costi, temi evidentemente inerenti la gestione tattica. In nessun caso la risposta comprendeva considerazioni relative agli scenari competitivi, all’ingresso di nuovi competitor o al possibile/probabile impatto delle nuove tecnologie sul business aziendale.

D’altra parte è comprensibile tale atteggiamento: il raggio di attenzione è dettato direttamente dalla applicabilità di qualsiasi nuova tecnologia o innovazione che abbia risvolti pressoché immediati (quindi tattici) nei risultati di vendibilità del prodotto/servizio, oppure è derivante da mutamenti nelle normative (vedi ad esempio i casi della Fatturazione Elettronica o il GDPR) che in qualche modo “impongono” l’innovazione all’Azienda, e quindi vengono normalmente viste dall’imprenditore con fastidio se non addirittura con evidente avversione (tipicamente sottolineata dalla frase “Ecco un’altra iniziativa dello Stato che rende la vita difficile a noi imprenditori”).

La mancanza di una visione strategica ed una formalizzazione/comunicazione della stessa all’interno dell’Azienda è evidente che possa creare oggettivamente una difficoltà per i responsabili delle funzioni aziendali preposte allo sviluppo del pensiero strategico, soprattutto nel caso in cui tali funzioni siano di supporto ma non direttamente coinvolte nella produzione di fatturato, come appunto i Sistemi Informativi.

Lo stesso mondo delle tecnologie digitali – che ormai dagli anni ‘90 del secolo scorso con la comparsa dello sfruttamento “commerciale” di internet rappresenta il principale motore dell’innovazione nelle Aziende – non è esente da responsabilità, in quanto è spesso incapace di liberarsi da un approccio “tecnico” per calare il proprio linguaggio in una dimensione più “umana”. Gli articoli divulgativi raramente riescono a sganciarsi dalla dimensione “sensazionalistica” (i robot soppianteranno il lavoro umano entro il 2030), mentre i riferimenti alle nuove tecnologie negli articoli un po’ più tecnici vengono accompagnati da una serie di sigle e complessi tecnicismi, che li rendono al di fuori della comprensione da parte del pubblico degli imprenditori, i quali potrebbero viceversa esser stimolati opportunamente dalla visione “strategica” nell’introduzione dell’innovazione.

Manca la proverbiale “via di mezzo” nella comunicazione, che può effettivamente rappresentare la chiave di volta per il consulente per ottenere attenzione quando si propone (o viene chiamato) a gestire l’innovazione nelle aziende. Uno dei grandi valori aggiunti che il consulente può portare alle aziende è quello di fungere da “traduttore” delle complessità tecniche e di linguaggio dell’innovazione digitale, sviluppando nell’imprenditore un apprezzamento per le ricadute di medio e lungo periodo per i trend tecnologici in atto.

Può sembrare paradossale, ma spesso nelle Aziende con cui ho collaborato ho dovuto fare affidamento più a tecniche che facessero riferimento ad una sfera psicologica, piuttosto che alla sfera tecnica dei sistemi informativi. Non ho una preparazione specifica in psicologia, per cui chiederò sin d’ora scusa agli esperti del settore per le eventuali bestialità, ma con l’esperienza che mi deriva dall’età ho imparato ad apprezzare molto anche questo aspetto meno materiale e più astratto e che in gioventù ritenevo, da buon ingegnere entusiasta della tecnologia, in un certo qual modo superfluo.

La percezione dell’Information Technology

Il panorama delle aziende in Italia è quanto mai variegato, e la stessa variabilità si riflette analogamente nella PMI, che però presentano – almeno nella mia esperienza di consulente – un approccio abbastanza uniforme nei confronti dei Sistemi informativi: a parte rarissimi casi (peraltro concentrati su Aziende di dimensioni medio-grandi), l’Information Technology Aziendale, lungi dall’essere considerata una funzione che può attivamente supportare gli altri dipartimenti aziendali nella ottimizzazione dei processi e nella creazione di reale valore aggiunto, viene concretamente considerata come la funzione aziendale che deve essere in grado di risolvere qualunque problema riguardante un qualsiasi “aggeggio” dotato di componentistica elettronica, oppure che deve recuperare la password di accesso al PC o al cellulare, che gli utenti invariabilmente dimenticano.

Non è infrequente che il gruppo IT venga identificato come “i tecnici del computer” e purtroppo spesso questa immagine è indicativa della considerazione delle reali potenzialità dell’IT in ambito aziendale.

Essendo la rivoluzione digitale, come abbiamo accennato in presenza, il motore principale delle innovazioni introdotte in Azienda, è giocoforza che nella quasi totalità dei casi le proposte di innovazione vengano assegnate all’attenzione del dipartimento di Information Technology se non per una decisione finale sulla implementazione (in cui entra il ballo la figura del Decisore implicito o esplicito, di cui si parla nel seguito) quantomeno per un parere sulla loro utilità ed applicabilità in Azienda.

Alcuni maligni, tra cui il sottoscritto, ipotizzano che il tutto venga affidato ai “tecnici” per due ragioni:

  1. sono gli unici che riescano a capire le specifiche a corredo, e
  2. il tema è considerato una “patata bollente” tale da essere affidato preferibilmente al dipartimento considerato meno importante per la generazione del fatturato.

E’ proprio in questa fase che diventa evidente una sostanziale discrasia fra le caratteristiche necessarie alla gestione delle innovazioni “strategiche” rispetto agli skill disponibili nell’IT aziendale.

E’ istruttivo ogni tanto sfogliare le sezioni “Lavora con Noi” dei siti aziendali, oppure i job posting delle società di selezione del personale (gli head hunters), per leggere le caratteristiche/qualità richieste per le posizione di IT Manager e/o Direttori Sistemi Informativi. Negli ultimi anni anche in Aziende di notevole strutturazione accanto alle auspicabili doti di conoscenza della lingua inglese, capacità di pianificare ed organizzare il lavoro, e (sempre meno spesso) capacità di interagire con il top management, si richiede ai candidati la capacità di lavorare “sotto stress” (mai che un’inserzione abbia meglio specificato cosa questo concetto effettivamente significhi), la conoscenza e padronanza di linguaggi di programmazione, ed esperienze pregresse di amministrazione di ambienti tecnici (Server, NAS, Active Directory etc. etc.) o di configurazione di apparati di networking Cisco o altri.

Sorge spontaneo quindi chiedersi (e forse anche facile darsi da sé una risposta al quesito) se tali Aziende abbiano veramente chiara la differenza tra un “tecnico dei computer” ed un manager dalle competenze più o meno spinte nella pianificazione e gestione dell’innovazione, e quale effettivo valore possa essere dato a queste ultime caratteristiche rispetto alla capacità (tattica) di risolvere velocemente i problemi. Non si esprime qui alcun giudizio di merito sulla prioritaria necessità di risolvere i problemi che impattano sulla operatività giornaliera (quello che gli americani definiscono “fire-fighting”), quanto piuttosto sulle differenti caratteristiche personali e sulle diverse competenze che sono richieste nei due diversi ruoli: capacità di gestire lo stress, rispondere in modo immediato e sapere trovare veloci “workaround” nel primo caso, contro capacità di sistematizzare, di pensare lateralmente e di possedere la “helicopter view” tralasciando i dettagli che invece è fortemente richiesta nella pianificazione strategica.

Prendendo spunto inoltre dalle considerazioni fatte nel precedente paragrafo in merito all’importanza di un approccio “psicologico” oltre che tecnico/manageriale alla consulenza, viene spesso da chiedersi se gli IT Manager delle PMI, che come abbiamo visto posseggono spiccate caratteristiche tecniche, siano essi stessi interessati a questo aspetto del lavoro.

Spesso mi è sembrato che il responsabile IT si senta a proprio agio – anzi ne sia in qualche modo orgoglioso – quando esprime la sua capacità (a volte veramente ammirevole) di mantenere il controllo nel fuoco di fila di problemi, e sia motivato nel suo lavoro dalla possibilità di trovare nel tempo più breve possibile le soluzioni ai problemi dei propri utenti, che in generale a lui si rivolgono in completo panico (mai sentito dire “il computer (!) ha cancellato tutti i dati del mio disco fisso”?). Eventuali possibilità di approccio strategico vengono spesso liquidate dai diretti interessati con frasi come “mi piacerebbe molto, ma sono troppo impegnato a risolvere i problemi e far andare avanti la baracca”.

In questo particolare frangente un consulente chiamato a gestire strategicamente l’innovazione può effettivamente essere un alleato dell’IT Manager aziendale, in quanto:

  • E’ slegato dalle dinamiche del day-by-day e dalla necessità di rincorrere le emergenze.
  • E’ slegato dalle dinamiche interne e dalla politics aziendale.
  • Ha un mandato operativo generalmente molto più circoscritto rispetto a quello dell’IT Manager.
  • E’ (o dovrebbe essere) in grado di trasferire all’imprenditore in un linguaggio comprensibile il valore aggiunto dell’IT.

Vuole dire questo che l’IT Manager è in generale alleato del consulente? Assolutamente no! Anzi il ruolo del consulente è spesso visto dall’IT Manager aziendale con sospetto, quando non addirittura con palese avversione. Questo è dovuto a diverse ragioni, non ultime la sensazione di dover sottrarre “tempo prezioso” alla gestione delle emergenze per interfacciarsi con il consulente, ed anche la percezione che il consulente stia “invadendo il campo” di esclusiva pertinenza dell’IT.

In questo senso per il consulente è assolutamente vitale assicurarsi l’appoggio dell’IT Manager, sia instaurando un rapporto di fiducia reciproca sia eventualmente sfruttando il canale privilegiato e spesso diretto che il consulente ha con l’imprenditore per dare visibilità all’Information technology. Quest’ultimo è forse un “trucco” di basso profilo, ma spesso funziona.

Dove si decide l’innovazione?

Nelle aziende maggiormente strutturate è in una certa misura più agevole capire i processi decisionali, specialmente se è disponibile un organigramma funzionale ed eventualmente anche una procedura aziendale che indica le competenze ed i budget di spesa massimi che sono delegati alle figure manageriali.

Non è detto però che quanto riportato dalle procedure aziendali sia poi il processo che si incontra sul campo ma – come ricordo spesso i miei professori di Ingegneria dicevano – può essere comunque una prima buona approssimazione della realtà.

Vale quindi la pena, nel caso si ingaggi un progetto in una azienda strutturata, chiedere innanzitutto una copia degli organigrammi e delle procedure Aziendali relativa all’ICT, essendo sempre pronti a ricevere documenti obsoleti o in perenne aggiornamento.

Molto diversa è la situazione nelle Piccole e Micro Aziende. In queste realtà infatti se le procedure e gli organigrammi sono presenti, sono invariabilmente quelli che sono stati elaborati all’inizio (all’inizio di cosa, poi? Dell’Azienda? All’inizio dell’Universo?) ma che poi non sono stati mai più aggiornati e/o non vengono utilizzati da tempo. In questo caso è sicuramente più difficile reperire il vero decisore finale, che potrebbe addirittura non apparire neanche nell’organigramma aziendale. In diverse Aziende mi è capitato di trattare direttamente con il Direttore Generale, le cui decisioni erano soggette all’approvazione di un “presidente onorario” (alias l’imprenditore) che nonostante non detenesse alcun ruolo in azienda era di fatto il vero decisore finale. Gli americani hanno un detto che considero illuminante in proposito: “Follow the money”, ovvero identifica chi detiene i cordoni della borsa, e con tutta probabilità troverai il reale “decisore aziendale”.

E’ evidente che il processo di identificazione del decisore finale possa esser estremamente laborioso e time consuming, ma nella mia esperienza dedicarsi nelle fasi iniziali di un progetto all’identificazione della figura decisionale principale può evitare lungaggini inutili nelle fasi successive, ed anche il rischio di puntare le proprie fiches sul “cavallo” sbagliato ritrovandosi magari nell’impossibilità di effettuare la delivery del progetto in quanto “non si è ancora giunti ad una decisione”.

L’identificazione del decisore finale può parimenti dare un’idea di massima della velocità con cui verranno prese le decisioni in Azienda. Spesso a torto si prevedono aprioristicamente decisioni molto lunghe solo in aziende molto strutturate, quando in realtà come già detto mi sono trovato spesso ad affrontare processi decisionali estremamente lunghi anche in Aziende di limitate dimensioni.

Il profilo del decisore

Nell’intraprendere un nuovo progetto di implementazione di nuovi processi/tecnologie è sempre molto utile, come in tutti i piani strategici, cercare di capire chi è la propria controparte (in battaglia si parlerebbe di “nemico”, ma in questo caso il nemico è anche colui che ti paga la parcella!).

Nel caso degli imprenditori/manager mi sono sempre trovato bene nel cercare di classificare l’imprenditore secondo il suo modello di “attitudine alla digitalizzazione”. L’imprenditore è per sua natura un innovatore, e lo deve essere per poter sopravvivere, ma è anche vero che tale attitudine all’innovazione subisce nel tempo un’evoluzione, dovuta al semplice ma ineluttabile fatto che “si matura” e quindi anche l’entusiasmo al cambiamento, tipico della gioventù, può sfumare con l’età. Nella mia esperienza ho trovato utile effettuare una classificazione dei decisori sulla base di quattro modelli di comportamento nell’approccio dell’innovazione:

  • L’entusiasta: È nuovo ed è sicuramente bello (anche se non capisco come funziona).
  • L’innovatore: È bello, ma non capisco come mi possa servire.
  • L’indeciso: Ma sarà proprio così bello? Mi devi giustificare ogni euro speso.
  • Il conservatore: Non lo capisco, quindi non mi serve!

E’ evidente che si tratta di una operazione di estrema semplificazione, perché è difficile che il decisore sia del tutto posizionato su uno di questi modelli in modo rigido. Spesso infatti il posizionamento in una delle caselle dipende come detto dall’età, ma anche dal tipo di innovazione e – perché no – a volte dipende semplicemente dal momento in cui si fa la proposta dell’innovazione. Però è altresì vero che ogni imprenditore/decisore ha un proprio atteggiamento “di fondo” nell’approccio alla digitalizzazione, così come è evidente che l’individuazione di questo approccio possa fornire al consulente una buona chiave di lettura su come strutturare la comunicazione verso il decisore, e come portare avanti il progetto.

L’entusiasta

È il sogno di ogni consulente, perché l’entusiasta abbraccia con gioia qualsiasi nuova idea gli venga proposta. È interessato a scoprire maggiori dettagli, si lambicca lui stesso il cervello per capire come applicare quanto proposto dal consulente, ed a volte è lui stesso a suggerire nuove applicazioni, addirittura invertendo in qualche modo il rapporto della consulenza.

Il focus della comunicazione di progetto deve essere quello di “limitare” l’entusiasmo cercando di consigliare con concretezza un approccio “a piccoli passi”, perché l’entusiasta per sua natura vorrebbe “tutto subito”. Il consulente deve essere particolarmente abile a stabilire le priorità di intervento sulla base di una chiara analisi di costi e benefici.

In questo caso il consulente può anche affrontare gli aspetti prettamente tecnici, utilizzando pure termini specialistici, perché l’entusiasta è avido di conoscere i dettagli tecnici dell’innovazione proposta ed anzi più dettagli si forniscono, maggiore è la possibilità di ottenerne l’attenzione.

L’innovatore

Forse è il decisore che da più soddisfazione al consulente, il cui ruolo è quello di fornire il maggiore supporto nell’individuare e presentare al decisore applicazioni creative ed ottimizzazioni. Se da un lato è forse un po’ più faticoso – perché l’innovatore ha pur sempre una ritrosia di base a spendere (del resto, i soldi alla fine ce li mette lui) – dall’altro lato è molto proficuo puntare razionalmente il focus della comunicazione sui benefici che l’innovazione può portare, sia in termini di miglioramento dell’efficienza e sia, se possibile, alla riduzione dei costi.

Nel caso dell’innovatore, il consulente deve saper trasmettere una certa dose di dettagli tecnici senza esagerare, perché se c’è un interesse ed attenzione di fondo da parte dell’Innovatore a questo tipo di particolarità, esagerando si rischia di risvegliare l’esigenza di ottenere un report puntuale e dettagliato per “capire meglio il problema e rimuovere il timore di fare una scelta avventata”.

L’indeciso

Sembra paradossale, ma forse questa figura di decisore è quella che nella mia esperienza di consulente mi ha creato più grattacapi (stranamente anche più del Conservatore….) e più stress nella conduzione del progetto. Se di base l’Indeciso non è in partenza contrario all’innovazione di per sé, è anche vero che la sua estrema determinazione nel giustificare ogni implementazione provoca richieste di report dettagliatissimi e defatiganti, con confronti tra diversi fornitori, e specifiche relazioni nelle quali siano ben evidenziate le differenze sostanziali fra un fornitore e l’altro.

Proprio la profondità dei report richiesti, unita alla scarsità di tempo che il decisore è in grado di dedicare alla loro analisi, che allunga in maniera a volte eccessiva i tempi di decisione (sempre che una decisione venga poi effettivamente presa).

In questo caso il focus del consulente più che quello di assecondare le richieste del decisore, dovrebbe essere piuttosto quello di cercare di comprenderne ed anzi anticipare quasi i suoi dubbi e le paure, dando priorità alle azioni a minor costo cosicché la paura dell’ignoto insita nell’Indeciso venga superata, e per il futuro valga ciò che dice il proverbio: “l’appetito vien mangiando”.

Vale la pena qui evidenziare che mentre nei due precedenti casi l’aspetto di professionalità e competenza tecnica del consulente (ovvii prerequisiti in qualunque progetto ICT) risultano forse di primaria importanza, per l’Innovatore ed il Conservatore diventano forse secondari rispetto alla capacità del consulente di assumere il ruolo di “consigliere fiduciario” del decisore (magari un ruolo più congeniale agli psicologi che agli ingegneri ed ai tecnici), cioè di colui di cui il decisore “si possa fidare”, nell’auspicio che si possa evitare di chiedere i report di cui si è detto in precedenza e si velocizzi il processo decisionale (che può altrimenti essere veramente lungo).

Il Conservatore

Ebbene, se ci si trova davanti ad un Conservatore, la mia cittadinanza romana (la meravigliosa città in cui mi sono trasferito ormai oltre vent’anni fa) consiglierebbe di chiedersi:“Ma qua, te, cche cce sei venuto affà?” (traduzione per i non romani “Ma perché mai ti sei palesato in questo luogo?”). In effetti sorge spontaneo il dubbio nel consulente su quali siano le motivazioni del progetto, se il terreno non è fertile. La risposta è molto semplice: in questo caso con tutta probabilità il progetto è stato imposto, o caldeggiato, da qualcun altro, ma il decisore non era pienamente d’accordo. E’ evidente che in tal caso, mancando l’appoggio interno del decisore, le chance di successo per un progetto di implementazione di questo tipo appaiono proprio prossime allo zero. Ma siamo sicuri che sia veramente così?

A pensarci bene, proprio il fatto che “qualcuno” abbia fatto calare dall’alto sul Conservatore la decisione di chiamare un consulente per introdurre della innovazione deve suggerire che l’effettivo potere decisionale (se non il commitment sul progetto) possa essere in carico al qualcuno di cui sopra. L’obiettivo del consulente in questo caso, piuttosto che intraprendere una snervante quanto inutile battaglia che al 99,99% si risolverà in una sconfitta, deve essere quello di valutare le possibilità di aprire un canale di comunicazione diretto con il vero decisore. Facile a dirsi ma, nella grande maggioranza dei casi, pressoché impossibile a farsi.

Vale la pena qui evidenziare di nuovo come mentre negli altri casi l’aspetto di professionalità e competenza tecnica del consulente (ovvii prerequisiti in qualunque consulenza ICT) risultano forse di primaria importanza, viceversa sia per l’Indeciso e sia per il Conservatore tale aspetto diventa quasi secondario rispetto alla capacità del consulente di assumere il ruolo di “consigliere fiduciario” del decisore, palese od occulto che sia.

Si, tutto bello, tutto chiaro, d’accordo, ma… quante sono le possibilità per un consulente di trovarsi davanti una qualsiasi delle figure di cui sopra? O meglio, entrando in un Azienda, quali sono le probabilità che una volta individuato il decisore io mi trovi davanti un tipico Conservatore o un Entusiasta? Qui la risposta è sicuramente molto complessa in quanto dipende da fattori assolutamente imponderabili e non controllabili dal consulente stesso. Nella mia esperienza da consulente credo che la percentuale di Entusiasti sia al disotto del 5%, la percentuale di Innovatori che ho incontrato sia vicina al 15%, mentre l’80% appartiene alle due categorie degli Indecisi e dei Conservatori: ho volutamente evitato la separazione fra le due categorie, non tanto per lasciare un po’ di suspense al lettore, quanto piuttosto perché, come accennato in precedenza, nella mia esperienza, trovarsi di fronte ad un Conservatore significava che il potere decisionale è effettivamente riposto un’altra figura aziendale, che ha spinto per la consulenza, e quindi chi si ha di fronte è effettivamente solo un esecutore, mentre il decisore reale probabilmente ha un profilo diverso. Se comunque dovessi indicare delle percentuali, direi che all’interno di questo gruppo ci siano il 60% di Indecisi ed il 20% di Conservatori.

Mi sento ancora una volta di sottolineare che questa è la mia personale esperienza riferita a PMI in settori e business “tradizionali” (servizi finanziari, edilizia, automotive, ristorazione), mentre nel caso di startup o settori a tecnologie avanzate mi aspetterei un rapporto di forze invertito fra i diversi profili.

Le relazioni di fiducia nelle PMI

Perfetto allora! Siamo riusciti a definire chi sia il decisore aziendale (o quantomeno pensiamo di esserci arrivati) e quale sia il profilo che definisce al meglio il suo atteggiamento prevalente nei confronti della pianificazione di tipo strategico e la gestione dell’innovazione tecnologica/digitalizzazione. Sembra di essere arrivati ad un buon punto del lavoro, no?

Diciamo che la buona notizia è che il cammino è cominciato e siamo sulla buona strada, ma rimane ancora un grosso passo avanti da intraprendere per una corretta gestione, e forse questo è il passo maggiormente significativo per garantire un efficace inserimento dell’innovazione nelle PMI. Per utilizzare una terminologia mutuata dal mondo militare (e qui eviterò accuratamente di menzionare un qualche passo dello stracitato “L’arte della Guerra” di Tsun-Zu) nella guerra che il consulente combatte (perché di guerra effettivamente si tratta) abbiamo definito con sufficiente dettaglio chi è il Comandante, ma adesso è fondamentale la comprensione di quale sia il campo di battaglia, e su quali mezzi e risorse operative è possibile contare. Uscendo dalla metafora militare, è necessario comprendere appieno la struttura e le dinamiche che governano le PMI.

Tale argomento è sicuramente di estremo interesse da numerosi anni non solo in Italia, ma in tutto il mondo. In quasi tutte le società occidentali infatti le PMI – o SME (Small and Medium Enterprises) come le chiamano gli anglosassoni – rappresentano una quota rilevante della ricchezza, su cui moltissimi autori hanno scritto saggi ed articoli, organizzato seminari ed anche tenuto corsi universitari. Considerazioni di questo tipo meriterebbero perciò sicuramente uno spazio molto più ampio, ma ci allontanerebbero forse dall’obiettivo di mantenere un taglio molto schematico e se possibile “pratico” sull’argomento innovazione nelle PMI.

Nella mia carriera professionale, come dipendente prima e consulente poi in aziende multinazionali Automotive e di Telecomunicazioni di dimensioni considerevoli, paradossalmente ho trovato la strutturazione ed i meccanismi di funzionamento interni a volte molto meno complessi e più facilmente comprensibili di quanto sia successo in Aziende familiari di dimensioni contenute e di struttura semplicissima, che però di fatto risultavano estremamente difficili da comprendere. Spesso è subentrata una fase di frustrazione nello scoprire che la buona dose di tempo ed energia messe in campo nelle fasi iniziali del progetto per tentare di definire e mettere in connessione il decisore, dovesse essere poi moltiplicata con nuovi sforzi e per un fattore grande a piacere nel cercare di definire in qualche modo i meccanismi e le dinamiche interne di funzionamento delle PMI, dinamiche che (molto) spesso sono diverse rispetto a ciò che l’apparenza esterna e/o il disegno organizzativo formale (i.e. l’organigramma) possono suggerire.

L’ottima notizia è che lo sforzo intellettuale ed il tempo dedicato nel lavoro sul decisore, di cui si è parlato in precedenza, non viene azzerato in questa fase: non si deve ricominciare (ovviamente) tutto da capo perché tutti gli indizi raccolti e classificati nel corso delle fasi precedenti del lavoro possono far desumere numerosi ed utili elementi atti a delineare il clima aziendale e le dinamiche informali che governano l’azienda, permettendo una maggiore sicurezza ed una più agevole navigazione al suo interno.

Se mi venisse chiesto quale sia il parametro che nella mia esperienza aziendale si risultato più significativo nello strutturare il lavoro da consulente all’interno della PMI, non avrei dubbi nella risposta: il rapporto di fiducia nella relazione in primis fra l’imprenditore e le sue prime linee e – allo stesso livello di importanza – fra le prime linee stesse. Anche qui mi rendo conto che la risposta abbraccia maggiormente ambiti più afferenti alla psicologia umana, piuttosto che di tipo tecnico/organizzativo, ma ritengo che tali considerazioni possano essere dal punto di vista pratico maggiormente rilevanti rispetto ad altre.

Anche nel caso dell’individuazione della tipologia di azienda in base al parametro della relazione di fiducia, ci si è proposti per quanto possibile di classificare le PMI in un insieme circoscritto di tipologie, soprattutto allo scopo di ottimizzare al massimo la praticità dell’analisi a scopi concreti. Tuttavia, rispetto al caso della classificazione in “modelli di decisore” effettuato in precedenza, ci si trova davanti ad ostacoli evidenti nello sforzo di schematizzazione.

A mio parere le ragioni di tale complessità possono essere ascritte a due tematiche:

  • All’interno delle Aziende, incluse anche PMI di dimensioni particolarmente contenute, spesso è possibile convivano diversi anime e sottogruppi, quasi fossero delle “sub-aziende”, che hanno quasi vita e identità proprie rispetto all’azienda principale, e possono addirittura appartenere a tipologie diverse. E’ questo è il caso a volte delle funzioni e/o dipartimenti (quelli “delle vendite”, dell’”amministrazione” oppure “i tecnici dei computer”) ben rappresentati nell’organigramma aziendale, ma può anche capitare che vi siano gruppi informali (quali per esempio quelli “che sono qui dalla fondazione dell’azienda”) che non trovano alcun riferimento formale nell’azienda, e che quindi sono particolarmente difficili da individuare.
  • Una seconda complessità risiede nella estrema dinamicità delle relazioni fiduciarie all’interno delle PMI. Anche nelle tipologie di figure di decisori descritte in precedenza esistono dinamiche che con il tempo possono modificarne il profilo, perché il decisore stesso acquisisce nuove esperienze (versione per ottimisti) o semplicemente perché invecchia (versione per pessimisti). E’ pur vero che se i cambiamenti che si manifestano con relativa lentezza permettono al consulente di adattarsi alla nuova situazione (sempre che il progetto non sia terminato), ove le dinamiche di cambiamento dei rapporti fiduciarie sono più frequenti e repentine – quali paradossalmente anche un semplice litigio fra due figure chiave dell’azienda (specie se una di esse è l‘imprenditore!) – può modificarsi in maniera profonda e permanente la stessa tipologia di azienda (o subazienda che sia).

Vale allora la pena di domandarsi se in una situazione di tale incertezza abbia ancora senso e utilità il temerario ingabbiamento dei rapporti fiduciari aziendali in una categoria “statica”. Secondo la mia esperienza la risposta non può che essere affermativa: identificare la tipologia di relazioni fiduciarie in azienda può se non altro fornire delle indicazioni attuali (“qui” e “ora”) sul modo migliore di rapportarsi per cercare di raggiungere i risultati sperati in tempi ridotti e con il minor stress possibile.

Il riconoscere inoltre che la situazione è estremamente dinamica funge da sprone per il consulente a mantenere alta la soglia della propria attenzione in ogni momento, cercando di distillare le dinamiche di funzionamento dal “rumore di fondo della comunicazione” ed adattare prontamente il suo stile di comunicazione alle nuove situazioni.

Con le dovute precauzioni espresse nella premessa generale, nel seguito elenco brevemente le relazioni interne alle varie aziende.

Rete a nodo singolo

Il modello a Nodo Singolo è caratterizzato da una rete di relazioni di fiducia organizzate principalmente in una direzione centripeta, dai dipendenti verso il centro, in cui si trova la figura del decisore (di norma, ma non sempre l’imprenditore). Tra i nodi periferici ed il nodo centrale è quindi instaurato un canale diretto di relazione e di fiducia. Da un punto di vista di descrizione schematica, il modello di relazioni può essere sintetizzato dallo schema di Figura 6‑1:

Figura 6‑1

Tale modello è molto ben rappresentato nelle microaziende imprenditoriali italiane, dove in generale il decisore/imprenditore ha un rapporto di conoscenza e fiducia dirette con ciascuno dei dipendenti o collaboratori. Spesso i dipendenti hanno una storia comune con l’imprenditore o perché sono entrati fin dalla creazione dell’azienda, o perché all’interno dell’azienda sono stati portati da una relazione diretta con il decisore.

E’ abbastanza evidente che in una azienda del tipo a Nodo Singolo il consulente abbia nel decisore (che spesso coincide in queste aziende con l’imprenditore) l’obiettivo primario di costruzione della relazione di fiducia. Dato che il riferimento decisionale e valutativo in queste aziende è centralizzato, se si riesce ad instaurare una buona relazione fiduciaria con tale nodo centrale, gli inevitabili problemi che il consulente incontra nel progetto possono fluire senza intermediari al decisore e quindi trovare soluzioni più rapide. E’ altresì evidente che la velocità effettiva con cui vengono prese le decisioni dipenda anche dal profilo del decisore, di cui si è detto nei precedenti paragrafi. Ed anzi, se il vantaggio principale dell’azienda a Nodo Singolo è appunto la linearità della comunicazione, d’altro canto il principale svantaggio è quello di avere quello che nei sistemi digitali si definisce SPOF (Single Point of Failure): se non si riesce ad instaurare una proficua relazione con l’unico nodo decisionale, il progetto può dichiararsi morto in partenza.

E’ importante ricordare che tale modello di relazione può anche non essere esteso all’intera azienda, ma essere limitato a quelle che nel paragrafo precedente sono state definite Sub—Aziende, che in questo caso potrebbero anche coincidere con un singolo dipartimento/funzione aziendale o addirittura un gruppo di progetto. Anzi, in quest’ultimo caso, il modello a Nodo Singolo è invariabilmente quello prevalente.

A questo punto del discorso, va comunque messo bene in chiaro il fatto che la presenza di una struttura a Nodo Unico non esime assolutamente il consulente dal rapportarsi con i nodi per cosi dire “periferici”. Infatti tali nodi sono quelli che dovranno poi effettivamente collaborare con il consulente nella implementazione, ed anzi spesso saranno essi stessi i principali destinatari dell’implementazione. Essi possono certamente diventare alleati o viceversa elementi frenanti, in base a diversi parametri, fra i quali uno dei più importanti è la percezione e la fiducia che il consulente riesce a stabilire con loro.

Rete a Nodi Interconnessi

Nell’Azienda a Nodi Interconnessi la rete di relazioni di fiducia è organizzata secondo un modello decisamente più complesso rispetto al precedente: le relazioni qui non trovano un immediato riscontro nella organizzazione formale rappresentata dall’organigramma aziendale, ma sono più legate a fattori esogeni. Possono essere relazioni dovute a ragioni storiche (esistono relazioni dirette fra le persone che hanno partecipato allo start-up aziendale), oppure a ragioni esogene (conoscenza extra lavorativa), oppure anche dalla partecipazione a gruppi di lavoro/progetti di lungo termine. Il rapporto di fiducia con il decisore non è in questo caso esteso a tutti i dipendenti, ma è limitato ad alcune figure “chiave”.

Volendo anche in questo caso proporre una grafica schematica di questo modello aziendale, si può fare riferimento alla seguente Figura 6‑2.

Figura 6‑2

Questo è un modello generalmente presente nelle PMI consolidate (in genere con qualche decennio di storia), ma che non hanno ancora effettuato il “salto di qualità” nella dimensione e strutturazione dei processi. Spesso si leggono articoli nei giornali economici o report nei media che lamentano la scarsa capacità (o, secondo me, anche la scarsa volontà) dell’imprenditoria italiana di crescere e strutturarsi per poter raggiungere una dimensione a livello continentale o globale. Bene, questo limite è ben rappresentato nel modello a Nodi Interconnessi.

In questo tipo di scenario, la relazione diretta fra il decisore ed alcune figure chiave da un lato permette all’imprenditore di mantenere un controllo anche su aziende di dimensioni non proprio limitate, ma d’altro canto rende in qualche modo le sue decisioni subordinate al “parere di gradimento” da parte dei nodi inclusi nella relazione, rendendo l’intero processo decisionale sicuramente più lungo e complesso rispetto agli altri modelli qui presentati. Per sperare in una introduzione efficace di progetti di innovazione, in realtà aziendali di questo tipo, il consulente non deve solo curare nel dettaglio la sua relazione con il decisore, ma allo stesso tempo deve riuscire ad interfacciarsi positivamente con i nodi che con lui hanno una diretta relazione di fiducia. È inevitabile che la decisione su qualsiasi argomento sia pesantemente influenzata dal giudizio di tali nodi.

Questo al consulente crea ovviamente diversi problemi, ma allo stesso tempo inaspettatamente offre opportunità insperate.

Nella categoria “problemi”, sicuramente includerei come principale quello relativo all’identificazione delle relazioni ed alla loro intensità. Come accennato, spesso le relazioni di fiducia a cui si fa riferimento nel grafico, non sono necessariamente rispecchiate nell’organizzazione e gerarchia dell’azienda. Questo ovviamente comporta che, una volta individuato il decisore, il consulente debba molto rapidamente cercare di mappare la rete di relazione, individuando i nodi interessati al progetto in ordine di priorità. Questo è molto dispendioso in termini di tempo ed energie del consulente, ma è essenziale per evitare problemi nella successiva fase di implementazione.

Un secondo (possibile) problema risiede nel fatto che, alla pari del decisore, anche i nodi fiduciari diretti hanno un proprio profilo ed atteggiamento autonomo nei confronti dell’innovazione e quindi da un lato potrebbero lavorare a favore del progetto (se appartengono alla categoria “Entusiasta”), ma dall’altro, se appartengono ai “Conservatori” e magari hanno una forte intensità di relazione col decisore, la loro influenza può rendere ingestibile o comunque molto più complesso il processo decisionale.

Fra le opportunità offerte invece inserirei il fatto che, non essendoci un forte accentramento delle decisioni (possiamo dire che la decisione è forse associabile più alla rete che al decisore stesso) manca in questo modello il “Single Point of Failure” presente nel modello a Nodo Centrale e quindi, se la relazione di fiducia con il decisore non è del tutto ottimale, l’agire “di sponda” sugli altri nodi può dare al consulente qualche chance in più. La cattiva notizia (Murphy è sempre in agguato…) è che è difficilissimo gestire una situazione di questo tipo.

Rete Nodi ad Albero

Nell’azienda modellata su Nodi ad Albero rientriamo in schemi in generale maggiormente comprensibili al consulente in quanto le relazioni sono organizzate su un modello che di solito rispecchia l’organigramma aziendale. Anche in questo caso il rapporto di fiducia è instaurato direttamente fra il decisore e le cosiddette “prime linee” gerarchiche.

Il modello schematico a cui si può fare riferimento è quello della seguente Figura 6‑3:

Figura 6‑3

Questo è un modello generalmente presente nelle aziende di medie dimensioni, in cui sono presenti gerarchie strutturate ed in generale formalizzate in un organigramma stabile.

Sembrerebbe quindi agevole per il consulente individuare velocemente i rapporti fiduciari in quanto questi dovrebbero essere ben documentati dall’organigramma Aziendale. Giusto? Ahimè la risposta al quesito è PROBABILMENTE, ma non DI SICURO. La complessità insita in questo modello è che la descrizione delle reti di relazione potrebbe essere sì ad albero, ma non sovrapponibile “sic et simpliciter” all’albero dell’organigramma.

In questo caso la seguente Figura 6‑4 è molto più illuminante di mille parole nello spiegare la complessità che può incontrarsi nelle realtà aziendali:

Figura 6‑4

Nell’azienda schematizzata – che rappresenta in effetti un caso reale di azienda in cui ho sviluppato un progetto di consulenza – l’organigramma formale non mappa effettivamente le relazioni fiduciarie interne. Per ragione diverse (nell’esempio concreto c’era stato l’avvicendamento del figlio dell’imprenditore alla guida dell’azienda) le relazioni fiduciarie potrebbero essere interdipartimentali.

La buona notizia in questo caso è che, seppur la situazione in oggetto può creare qualche problema in fase di analisi “del campo di battaglia” – dato che l’aspettativa naturale sarebbe quella che organigramma e relazioni siano equivalenti – è anche vero che A) la situazione di mismatch non è così frequente (almeno nella mia esperienza) e B) una volta definita la mappatura delle relazioni fiduciarie, l’approccio diventa simile a quello del caso precedente, con una importante differenza: laddove nel caso di Nodi Interconnessi, le relazioni sono più complesse e variegate, nel caso dei Nodi ad Albero la presenza di prime linee con funzioni ed ambiti di responsabilità ben definite dall’organigramma (ahimè qui penso di peccare di ottimismo rispetto alla realtà) rende più facile al consulente il processo di setting delle priorità.

Rete a Nodi Sconnessi

L’Azienda a Nodi Sconnessi potrebbe essere definita l’Azienda “piatta”, formata di battitori liberi o, come dicono i nostri amici americani, di una Azienda formata da “one-man-band” dotati di ampia autonomia, dove cioè non esiste una vera e propria rete di relazioni, e dove in effetti ciascuno può essere un decisore, come nel doppio schema di Figura 6‑5, che rappresenta due realtà diverse, a seconda esista formalmente un decisore unico, oppure ciascuno dei nodi prenda decisioni autonome per l’area di competenza.

Figura 6‑5

I due schemi qui proposti nella mia esperienza sono incarnati da alcune micro start-up fortemente innovative, quelle per capirci che normalmente nascono negli incubatori tecnologici, oppure negli studi professionali. Entrambi questi tipi di realtà sono fortemente legati a know-how specialistici di tecnologie (nel primo caso) o del settore di business (nel secondo caso) ed è veramente difficile dare indicazioni a carattere generale. A dire il vero tutti i casi che ho potuto trattare direttamente avevano lo schema Aziendale del secondo tipo.

Il consiglio generale è quello di verificare con grande attenzione se effettivamente le reti di relazione che ad una prima analisi non sono evidenti, non siano effettivamente nascoste da un “rumore di fondo” e che in effetti non ci si trovi di fronte ad un diverso schema aziendale, quale uno di quelli descritti in precedenza. Appurato di trovarsi effettivamente di fronte ad una azienda “Piatta”, è evidente che, come nel caso di Rete a Nodo Singolo, va in ogni caso instaurata una relazione con il nodo interessato al progetto, sia esso un decisore come nello schema 2, sia un nodo semplice come nello schema 1. In quest’ultimo caso la relazione con il decisore formale è secondaria e, probabilmente va gestita per tramite del nodo.

Altre tipologie di Rete

Come nel proverbio già citato “l’appetito vien mangiando”, è evidente che la estrema schematizzazione introdotta dalla descrizione delle categorie aziendali dei precedenti paragrafi possa dare luogo ad una certa dose di creatività nell’identificare altre forme di rete relazionale interna all’azienda.

Verificando alcuni casi di aziende reali in cui mi sono imbattuto, mi è venuta in mente un modello “a bersaglio” (no, nessun riferimento all’utilizzo di armi da tiro sugli imprenditori…..) in cui le relazioni hanno una tipologia diversa da tutte quelle individuate in precedenza, come dal grafico di Figura 6‑6:

Figura 6‑6

Il problema di applicare creatività nella modellizzazione è che si incrementa velocemente la complessità della analisi, senza però aggiungere utilità pratica, obiettivo primario che mi ero prefisso. Ciò però non toglie che chiunque possa sviluppare modelli di analisi “ad hoc” delle relazioni e trarne utili indicazioni su come procedere.

.

 Si può fare?

A questo punto può essere utile riordinare le idee e verificare quali sono i passi per una gestione ottimale e strategica dell’innovazione nelle PMI:

  1. Identificare immediatamente l’oggetto del progetto
  2. Distillare all’interno del progetto quali sono le finalità e gli obiettivi prettamente tattici, da quelle che sono le finalità e le ricadute strategiche
  3. Identificare il decisore (o eventualmente i decisori) in relazione al progetto, individuando la presenza o meno di decisori “occulti”, magari più influenti dei decisori “formali”.
  4. Una volta identificato il decisore, classificare il decisore in una delle categorie esposte, ma di primaria importanza comunque risulta chiarire a/con lui i differenti livelli di obiettivi tattici e strategici.
  5. Effettuare una approfondita analisi della tipologia e della intensità delle relazioni fiduciarie dell’Azienda, cercando di stabilire il modello aziendale di riferimento o eventualmente sviluppandone uno ad hoc, se questo è utile.
  6. Adeguare il proprio approccio al decisore/azienda in base alle tipologie identificate, mantenendo sempre alta l’attenzione ad eventuali modifiche delle relazioni che comportino la necessità di adattare tale approccio.

E come ultimo (difficile) aspetto autonomo rispetto a quelli della lista “standard” è importante secondo me per il consulente farsi una domanda il prima possibile nel corso del progetto: Ma l’Azienda è veramente pronta per tutto questo?

Analogamente ad una relazione sentimentale, in certe situazioni è possibile che l’analisi ci metta di fronte al dilemma “esistenziale” in merito alla capacità dell’Azienda di perseguire obiettivi strategici. Il consulente può trovare casi in cui la gestione “tattica” di reazione di fronte ai problemi sia l’unica possibilità, mentre una reale capacità di pianificazione strategica sia al difuori dalla capacità dell’azienda, del decisore o di entrambi.

In questo caso il mio consiglio per il consulente è quello di fare affidamento alla propria competenza ed integrità professionale, e comunicare chiaramente al committente quali sono i risultati che è possibile raggiungere, senza perseguire un impietoso e dannoso “accanimento terapeutico”.

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