Sono qui
“Sono quiiii!”, Khaspros imitò una voce lontana e disperata. “Questo è il grido che speriamo di sentire il meno possibile… Può arrivare dai muri, dai soffitti crollati, dalle cantine sfondate… ma soprattutto dai mucchi di macerie”.
Xina Shaiira guardava nel vuoto, alla ricerca di una sua memoria. “Ho letto che c’era una catena di passa parola, che pare raccogliesse il “sono qui” e l’io esisto d’ogni abitante del Pianeta”.
“Non ho capito…” replicò Sama Hargo.
“Sono passati quasi tre secoli Sama… E’ roba antica… Ma siamo qui per tentare di recuperare una traccia almeno… Non c’è memoria neppure del suo nome… Dicono fosse uno strumento che usavano tutti… Forse era solo un gran business…” Khaspros rispondeva di routine, con gli occhi esploratori oltre il finestrino scheggiato dagli anni. “E’ scomparso da tutte le memorie…”
“Abbiamo perso anche gli antichi Cd-rom e quelli dopo… si chiamavano DVD” aggiunse Stefano Magli, l’agente di Memoria Antica della squadra. “Posso spiegarvi che…”
“Non ora Stefano, non abbiamo tempo. Ogni secondo che passa, lì fuori muoiono”, si angosciava Shaiira. “Dio, ma come facciamo senza neppure le isomemorie?…”
“Io, comunque non ho capito… Quale catena?” insistette Hargo.
Il desert-van era angusto, recuperato da quelli di quarta generazione, ma con tutte le memorie azzerate, dunque non programmabile, non viaggiava in autonomia, aveva bisogno di un guidatore.
Nella sua Memory Squad, Khaspros era riuscita ad arruolare Enriko Von Mein, un pilota di rally, le corse mortalmente pericolose che si facevano ancora, indossando costumi del XXI secolo.
Il sistema di omnipresenza, tutti presenti e localizzati per tutti, si era dissolto tre mesi prima col Grande Ictus Mnemonico inflitto dal dottor Annthok Mabiis. Con il crollo delle reti mnemoniche individuali, le folle personali che accompagnavano tutti gli esseri umani, in ogni loro azione, si erano dissolte. Non rimaneva che chiamarsi a voce. Ma nessuno si conosceva più. L’amicizia era stata per secoli delegata alle macchine.
La missione era trovare ad ogni costo quella antica “catena di passa parola”. La squadra doveva recuperare quell’ormai dimenticato strumento, o almeno il suo nome, il suo “concept”, per tentare di costruirlo di nuovo, per riscrivere gli identikit e le coordinate degli abitanti della regione colpita, intrappolati sotto le macerie delle case, tutte rimaste col sistema di compensazione-totale-contro-i-terremoti fuori uso perché senza più geo-memorie.
Il paese fantasma si annunciò con la punta di un minareto intravisto dietro un’altura. Tre curve e le poche case abbandonate si mostrarono, addormentate da secoli. Il piccolo van si accasciò sotto un sole appena caloriante.
“Incominciamo dalle soffitte, quindi gli sgabuzzini e poi passiamo alle cantine, solita procedura, insomma” Khaspros bisbigliò, come se ci fossero ancora abitanti ad origliare dietro le persiane scrostate.
“Nulla di nulla!” Fu quasi un coro, dopo una giornata intera scartabellando tra polvere secolare, sabbia finissima e intonachi sbriciolati su ogni tappeto, ogni armadio.
Erano lì, per terra, nella casa più grande del villaggio, in un salotto ancora pieno di cuscini sfibrati dal tempo. Shaiira guardava assetata la parete grande, dove erano incorniciati i ricordi di una famiglia dell’inizio del Terzo millennio. Una cartolina di Expo 2015 spedita da quella che era una volta Milano, nel Nord Italia, due ritratti forse di famiglia, a matita, di un bimbo imbronciato e di una sorridente signora, un paesaggio desertico inciso direttamente sul muro, delle vecchie chiavi vocali allineate su un mensola di plastica. E una pagina di carta, disfatta dal tempo, forse prodotta da una qualche antichissima stampante a colori, con le tinte ormai evanescenti. Si intravedevano delle facce, molte facce, delle frasi, tutte incolonnate.
Shaiira si alzò, si avvicinò al muro. Il sole, ora in corsa verso la linea dell’orizzonte, sfondava la finestra e si frangeva proprio su quel foglio etereo sotto vetro.
Shaiira, decifrò a fatica “Io sono qui”. “Io sono qui”, ripeté a voce alta perché tutti sentissero. Sotto al testo c’era quella che a suo tempo era chiamata una “fotografia”. Nel tranquillo pallore dell’immagine le sembrò di riconoscere proprio la casa dove si trovavano. E poi sotto delle cifre. “Gradi”, forse, “minuti” “secondi”… Forse.
“Stefano, leggi qui… tu sei lo storico, ci capisci qualcosa?”, la voce di Shaiira era alterata da un’incalzante voglia di scoperta.
Stefano Magli si alzò in piedi. Il sole era scomparso. Il buio era pronto. Nella penombra ispezionò il foglio in lungo e in largo. In alto, a sinistra, individuò un quadratino forse originariamente colorato, forse blu. Dentro era scavata in bianco una “f”, minuscola e panciuta, che, Magli lo sapeva, in gergo tipografico di una volta si chiamava “bold”, grassetto.
“Dio mio” disse l’agente Magli concentrato, “incredibile… l’abbiamo trovato”, “F come ‘faccia’… Ecco come si chiamava! ‘Libro-delle-facce’… Ma con una sola pagina non ci facciamo nulla… Mancano gli amici, manca il passa parola…”
“Sono qui…” fu l’ultimo grido straziante di Abdal Naazar, prima di subire la sua misera sorte.
(3-continua)