L’Italia continua a spendere troppo poco per la ricerca e l’innovazione e il ritardo accumulato rispetto agli altri Paesi Ue è ampio. Essere consapevoli di questo gap, tuttavia, è un buon punto di partenza per cominciare a colmarlo. Un obiettivo che è alla portata del Paese qualora le istituzioni pubbliche operino di concerto e lo considerino prioritario.
I punti da cui iniziare sono chiari se si guardano gli indicatori che di seguito andremo ad approfondire: valorizzazione del sistema universitario e di ricerca; riduzione della burocrazia; utilizzo delle tecnologie digitali non solo nei settori i hi-tech, come il farmaceutico o l’aeronautico, ma anche per gestire al meglio le catene globali del valore e le forniture; stimoli alla formazione (pubblica) di una qualificata forza lavoro, educata e competente.
Ricerca e innovazione, un momento propizio per ripartire
Il momento sembra propizio: in questi giorni abbiamo assistito al varo del governo europeo e di quello italiano. Una coincidenza significativa, che ne accomuna le sorti, è l’aver istituito un apposito dicastero per l’innovazione e il digitale seguita dalla nomina, in entrami gli esecutivi, di una donna con specifiche competenze. “L’innovazione deve essere il motore che imprime una nuova spinta a tutti i settori dell’economia e della società”. Da queste parole, pronunciate dal premier Conte in Parlamento, emerge indiscutibile il tratto comune e di convergenza tra i due esecutivi.
A Bruxelles Margrethe Vestager, incaricata di dedicarsi ai colossi del digitale, sarà affiancata da un’altra donna, la francese Sylvie Goulard, commissario al mercato interno, alla quale nella lettera di missione, viene affidato un compito preciso: “rafforzare la sovranità tecnologica europea”, occupandosi di blockchain, computer quantistici e algoritmi di cybersicurezza. Ma la vera sfida sarà quella di recuperare il ritardo accumulato nei confronti di Cina e Stati uniti sul fronte dell’intelligenza artificiale e delle reti 5G.
A Roma Paola Pisano, a cui è stato affidato il Ministero senza portafoglio per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, rappresenterà quella guida politica autorevole – la cui assenza, in passato, è stata indicata come una carenza strutturale da colmare – e avrà il compito di affidare la missione strategica alle imprese pubbliche (a cominciare dal rendere accessibili in formato aperto tutte le banche dati pubbliche) coinvolte a realizzare quegli obiettivi indicati nelle linee programmatiche del Governo. Anche in questo caso, sarà affiancata dal Dipartimento per la trasformazione digitale (che vedrà la luce il 1 gennaio 2020), quale “struttura di supporto al Presidente per la promozione ed il coordinamento delle azioni del Governo finalizzate alla definizione di una strategia unitaria in materia di trasformazione digitale e di modernizzazione del Paese attraverso le tecnologie digitali.”
Senza dimenticare il ruolo di Agid che, in qualità di futura concessionaria del Dipartimento stesso, attraverso cioè uno specifico contratto di servizio, avrà il compito di vero e proprio braccio operativo, in coordinamento con gli altri enti (e sono tanti a cominciare dalle in house sia statali, come la Sogei e la Consip, sia regionali) che in qualche modo hanno competenza sulla trasformazione digitale del Paese. E, ancora, senza dimenticare il ruolo del Dicastero per il Sud e la Coesione territoriale che, insieme alle Regioni, dovrà attingere ai fondi strutturali per rilanciare, per esempio, il progetto Smart Cities attraverso il PON Metro, o potenziare il tessuto infrastrutturale del Mezzogiorno attraverso il PON Infrastrutture.
Il (necessario) coordinamento dei vari enti e istituzioni
Carlo Mochi Sismondi ha evidenziato la necessità di un’armonizzazione degli interventi e delle politiche di innovazione, invocando una sorta di cabina di regia specifica sui fondi per l’innovazione, mettendo in risalto le precondizioni per la buona riuscita di questa operazione di coordinamento: “una governance chiara e un assetto istituzionale ed organizzativo definito, condiviso, esplicito nei ruoli e nelle responsabilità”. La posta in gioco, infatti, è troppo importante e il tempo a disposizione è agli sgoccioli, per affidarsi ancora ad alchimie politiche, con annesse spartizioni partitiche, che alimentano confusione in termini di assegnazioni e di responsabilità.
Un buon governo di sistema che dovrà ricomprendere nei propri confini anche la futura Agenzia Nazionale per la Ricerca, indicata dal premier Conte come il luogo dove intensificare il dialogo tra Università ed Enti di ricerca, ma anche di miglioramento delle regole di selezione e di reclutamento dei nuovi ricercatori e di valorizzazione dei progetti di ricerca rispetto agli standard internazionali. Perché è anche nel settore dell’innovazione e della ricerca esiste una sfida globale che l’Italia deve saper affrontare. Come? Il Governo intende puntare proprio sull’istituzione dell’Agenzia Nazionale della Ricerca che, rafforzando il coordinamento e il raccordo tra i diversi soggetti, si faccia carico dell’applicazione di quei principi di finanziamento e valorizzazione dei progetti di ricerca realmente in grado di imprimere una svolta alla competitività del nostro sistema produttivo.
Il compito di giocare questa partita, per accrescere la qualità e l’efficacia delle politiche pubbliche sulla ricerca, spetterà in primis al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca; ma dovrà essere l’intero esecutivo a dover dare prova di crederci. Nell’intervento di replica sulla fiducia, infatti, il premier ha tenuto a precisare come il Governo intenda investire nella scuola, università e ricerca, con l’obiettivo non tanto di investire di più, ma di investire meglio per dare al Paese un volto futuro nuovo. Per questo ha parlato del settore educativo come una sfida affascinante, che coinvolge la capacità dei giovani di destreggiarsi nei sentieri della conoscenza, che rafforzi le loro competenze digitali.
Una spinta all’alta formazione di qualità
A tal fine occorrerà rafforzare e valorizzare il nostro sistema universitario e di ricerca, che deve spingere l’intero Paese verso le più avanzate frontiere della conoscenza. Il premier Conte ha tenuto a precisare che “la qualità della nostra ricerca, già eccellente, può e deve essere ulteriormente accresciuta anche attraverso un più intenso coordinamento tra centri universitari ed enti di ricerca, dei quali va assolutamente favorita l’internazionalizzazione”. Un obiettivo alla portata, anche perché un’istruzione diffusa è desiderabile in quanto tale e non occorrerebbe trovare particolari motivazioni per finanziarla. Secondo alcuni studiosi, infatti, la ritirata dello Stato dal settore della formazione è una delle maggiori cause della lunga recessione che vive il nostro Paese, dal momento che – proprio a ragione di questo e data l’incapacità o l’impossibilità della gran parte delle nostre imprese di produrre innovazioni – il tasso di crescita della produttività del lavoro (che dipende essenzialmente dalla dinamica degli investimenti) è in caduta libera da oltre vent’anni.
In ogni caso, non sarà certo l’istituzione di un nuova Agenzia nazionale – benché attesa da tempo – a trattenere i nostri giovani dal dover andare all’estero a cercare lavoro e veder riconosciuti adeguati salari rispetto alle loro elevate capacità e competenze. Come non sarà facile attrarre e trattenere in Italia i “cervelli” stranieri – vista la deludente esperienza delle cattedre Natta – se non si alleggeriscono le regole della burocrazia, per concedere loro accessi agevolati per i ricongiungimenti familiari, elargire incentivi economici certi, favorire la portabilità delle loro ricerche.
Il tema della riduzione della burocrazia – molto sentito anche dal mondo imprenditoriale – è stato indicato dal Governo come uno dei principali obiettivi da perseguire. Semplificare il quadro normativo, rendere più celeri le procedure amministrative e giudiziarie. Tempi rapidi e celeri, senza tanta burocrazia, ritardi, incertezze e contraddizioni.
Coordinamento e semplificazione. È questo il binomio che sta emergendo e da cui può passare quella rivoluzione dell’innovazione che ci condurrà verso l’orizzonte della Smart Nation. Un orizzonte che coinvolge tutti, il settore pubblico e quello privato. Coordinando in maniera sapiente intervento pubblico e iniziativa privata sarà possibile per l’Italia intercettare a pieno l’onda della digitalizzazione e vincere tutte le principali sfide che caratterizzano la “quarta rivoluzione industriale”. Fatto cruciale per l’Italia è che le nuove tecnologie digitali possono essere sfruttate non solo in contesti hi-tech, come il farmaceutico o l’aeronautico, ma anche da settori meno tecnologici come l’agricoltura e il settore dei servizi. Renderanno possibile gestire al meglio le catene globali del valore e le forniture, obiettivo centrale per il nuovo fenomeno delle imprese medie innovatrici che fanno dell’internazionalizzazione la leva principale delle loro crescita. Per l’Italia, come per gli altri Paese avanzati ed emergenti, si tratta di partire oggi, per decidere chi sarà dentro o fuori tra dieci anni.
Il tema si intreccia con la formazione di una qualificata forza lavoro, educata e competente, che deve essere fornita dalla formazione pubblica.
Il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e il neo Ministero dell’Innovazione digitale dovranno lavorare di concerto per una definizione delle nuove competenze e capacità da sviluppare, che spazino dalle materia umanistiche alle scienze astratte. Al contempo dovrà essere rilanciato il tema della formazione tecnica superiore, ancora troppo lontana dagli standard europei, e dalle opportunità offerte dall’industria. Anche in questo caso occorre che pubblico e privato cooperino in modo stretto e vincente. Un esempio concreto arriva dal programma P-Tech, il modello educativo innovativo per l’economia digitale promosso da IBM in collaborazione con il Politecnico di Bari, che in questi giorni sta partendo in quattro suole superiori di Taranto. In tutto il mondo, compresa ora l’Italia, 15 Paesi hanno già adottato o implementato il modello di formazione P-Tech, con l’adesione di oltre 75 Università e più di 600 partner industriali. Si prevede che nel mondo ci saranno 200 scuole P-Tech, con 125.000 studenti iscritti entro la fine del 2019.
Il primo vero banco di prova del Governo, per aiutare imprese e pubbliche amministrazioni a sfruttare adeguatamente il loro potenziale di innovazione, è l’imminente legge di bilancio. Non potrà risolvere tutto, innanzi tutto perché i segnali che arrivano dall’economia sono ancora negativi (produzione industriale in calo dello 0,7% nel mese di luglio), ma anche perché l’eredità con cui il Governo dovrà fare i conti è pesante. Pur tuttavia accelerare sul Fondo Innovazione, collegandolo al Piano Industria 4.0, da rilanciare con il rafforzamento di specifici incentivi, darebbe sostegno alla crescita di startup attive nel settore della digitalizzazione dei processi produttivi.
La legge di bilancio e i nodi della crescita
La prossima legge di bilancio rappresenta quindi un vero e proprio spartiacque per spegnere i focolai di recessione, come quelli che si intravedono esaminando i dati in tema di ricerca e sviluppo. L’ISTAT, nel suo recente report “Ricerca e Sviluppo in Italia”, ha certificato che la spesa per ricerca e sviluppo, con un ritmo di crescita sempre più lento, rischia di esaurire presto la sua spinta propulsiva, tagliando i ponti alla futura innovazione tanto invocata. Il traino delle imprese – da sempre locomotive in questo settore – non riesce più a compensare come prima il minore apporto che arriva dalla componente pubblica.
È di 23,8 miliardi l’ammontare complessivamente speso in ricerca e sviluppo nel 2017. Un cifra in aumento sul 2016 (quando se ne spesero circa 23,2) ma che in termini di crescita percentuale è quasi dimezzata rispetto all’anno precedente (+2,7% contro il +4,6% riscontrato nel 2015). Un campanello d’allarme che suona anche per il 2018 e 2019. I dati ISTAT, infatti, prevedono una frenata per quest’ultimo biennio soprattutto da parte delle imprese (+2,8% nel 2018 e +0,8% nel 2019). Un’altra particolarità segnalata dall’ISTAT – su cui occorrerà riflettere in termini di sostegno alle infrastrutture materiali e immateriali – è che nel nostro Paese gli investimenti in innovazione e ricerca provengono soprattutto dalle imprese del Nord produttivo o dalla Capitale. Nel 2017 la grande maggioranza della spesa (il 68,1%), ossia 16,2 miliardi di euro, si è concentrata in sole cinque Regioni: Lombardia, Lazio, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto.
Al di là dei dettagli, questi numeri ci dicono che l’Italia continua a spendere troppo poco per la ricerca e l’innovazione. Quei 23,8 miliardi di euro corrispondono infatti all’1,38% del Pil, con un miglioramento di 0,01 punti sul 2016. Una percentuale bassa sia rispetto alle media della zona euro (+2,15%), sia nel confronto diretto con le altre economie industriali: in Germania la spesa ha raggiunto il 3% del Pil, in Francia il 2,2%. Serve a poco constatare che c’è chi sta peggio di noi, come la Spagna (+1,2%) e il Portogallo (+1,33). Per un’economia a vocazione industriale ed esportatrice, che quindi deve lavorare per mantenersi competitiva a livello internazionale, l’innovazione è fondamentale. Non a caso il Governo si è impegnato per “creare le condizioni affinché il tessuto del Paese sia forte e altamente produttivo e basi la sua capacità di stare sui mercati non sul lavoro precario e a basso costo, ma sulla qualità e l’innovazione dei prodotti.”.
Bisogna essere consapevoli che il gap da colmare rispetto agli altri Paese europei in termini di innovazione è enorme e la strada si presenta in salita. La consapevolezza del ritardo nell’innovazione, inclusa quella digitale, non deve servire per lamentarsi, non solo, ma per rendersi conto che bisogna rimboccarsi le maniche. Se si guardano gli indicatori sappiamo anche dove e come intervenire.
Per esempio la nuova edizione dell’Assirm Innovation Index, aggiornato al primo trimestre 2019, che mette a confronto 11 nazioni in Europa sul tema dell’innovazione. L’indicatore, che misura la capacità di un Paese di promuovere e generare innovazione, parte dall’assunto che l’Innovazione Paese sia funzione dell’investimento in ricerca e sviluppo e non solo delle sue condizioni macroeconomiche. Il gap fatto registrare dall’Italia è ampio. Il nostro Paese, pur evidenziando un lieve aumento del suo valore (7,6), mostra come sia aumentato sempre di più il divario con gli altri Paesi europei, posizionandosi al penultimo posto, prima della Grecia, unico Paese con un indice negativo (-9,7). Il podio resta saldamente occupato dalla Svezia (22,9), seguita dall’Olanda (19,8) e dalla Gran Bretagna (18,9). Seguono Germania (18,1), Austria (16,5), Francia (12,8), Spagna (11,4) e Portogallo (9,5). A pesare in particolare, secondo Assirm, è l’insufficiente impegno sugli investimenti in tecnologia, nei processi, nel marketing e nell’organizzazione lavorativa.
Tutti questi dati, che rappresentano il punto di partenza per misurare la bontà dei prossimi interventi che il Governo saprà mettere in campo, dicono chiaramente su cosa e dove intervenire. Ci sono tutte le possibilità. Ne è consapevole anche il premier Conte che ha usato queste parole: “la nostra forza, che ci viene universalmente riconosciuta, è un sistema industriale in grado di far incontrare la produzione di massa con la capacità di personalizzazione del prodotto e anche la flessibilità nei processi. Occorre rafforzare la determinazione e l’impegno affinché questa spiccata vocazione all’innovazione possa essere adeguatamente sfruttata.”. Sembra quindi che nel nostro Paese l’innovazione possa finalmente trovare un terreno più fertile. Un’occasione da sfruttare è sicuramente la call lanciata da Digital360HUB in favore di chi, tra giovani talenti, esperti digitali, startup e aziende tech, volesse cimentarsi nel mercato delle attività di marketing e della lead generation B2B. La call, aperta fino al 30 novembre 2019, permette a chiunque di proporre soluzioni tecnologiche (anche prototipi), servizi, modelli di business innovativi in tutti gli ambiti del marketing e della lead generation B2B (content marketing, storytelling, social engagement e selling, marketing automation).
In questa direzione però occorrono impegni concreti e occorre fare presto, come auspicato dal direttore di Agendadigitale nel suo ultimo editoriale.
L’Innovazione deve superare il solo contesto tecnologico, per diventare anche innovazione sociale, innovazione finanziaria; ogni approccio e strategia deve essere aperto e attento alla dimensione internazionale.
L’occasione sembra propizia, anche se l’Italia di settembre in realtà è uguale a quella di luglio: piena di problemi, acciaccata e impaurita, solo un po’ più divisa, perché la crisi ha lasciato un sedimento di rancore molto profondo, aggravando la tendenza alla «democrazia dissociativa». Il nuovo umanesimo evocato da Conte, una sorta di re-invenzione digitale del capitale umano, e il suo richiamo a toni più miti e concilianti, insieme alla boccata di ossigeno che potrebbe arrivare dalla Commissione europea, in termini di maggiori margini finanziari, potrebbero rappresentare le basi su cui impostare una nuova stagione programmatica di lungo periodo. Serve una responsabilità collettiva di individui, istituzioni, politica, imprese, in una logica di fiducia reciproca. Con un’avvertenza. La flessibilità, laddove concessa dall’Europa, sarà l’ennesima occasione sprecata, se verrà usata per comprare consenso invece di puntare sulla trasformazione digitale e costruire crescita per uno sviluppo sostenibile.