Nell’epoca della connessione costante e continua, dispute e litigi la fanno da padrone, trasformando qualsivoglia tentativo di confronto online in una sorta di riunione di condominio generalizzata. E’ l’effetto di quella che può essere definita “diversità aumentata“.
Eppure esistono delle strategie che permettono di dissentire senza andare allo scontro e sono a portata di mano, anzi di dita.
Ma procediamo per gradi.
Schiacciati in una discussione continua
Nella maggior parte delle conferenze sul web a un certo punto appare lei: l’infografica su quello che accade online ogni 60 secondi. È un ritratto che in pochi numeri riassume il sovraccarico informativo a cui siamo sottoposti. Ce ne sono di diversi tipi, tutte realizzate molto bene. Chiunque si occupi di comunicazione o tecnologia ne ha almeno una nelle sue presentazioni. Anche io, confesso, l’ho usata per anni. Poi però ho smesso. L’ho fatto appena mi sono reso conto di quanto quell’immagine fosse fuorviante.
Infatti il problema principale della nostra vita connessa non è l’information overload. Pensare che la sfida sia solo mettere ordine in un caos di “troppe” informazioni, significa avere in mente un modello di essere umano molto astratto e ideale. Come se l’uomo fosse una specie di intellettuale puro, alle prese con una sfida puramente razionale nell’interpretazione della realtà tra i dati sparsi. Come se fosse un membro della Scuola di Atene: un filosofo tutto intento a capire il mondo, per amore del sapere.
Ecco, non siamo affatto membri della Scuola di Atene e questo sovraccarico non è una semplice abbuffata di informazioni e contenuti che se ne stanno lì, pronti a confonderci mentre noi lottiamo per mettere ordine. La questione è molto più intricata. Il vero sovraccarico, infatti, non è dato dalla mole di informazioni e di contenuti, ma da qualcosa di ben più potente e destabilizzante.
Perché a ben vedere è un sovraccarico di discussioni: non sono contenuti che ci vengono addosso in modo sparso e confuso, ma hanno un modo ben preciso di investirci. Sono, infatti, questioni, domande, provocazioni, idee che ci arrivano “già litigate”, cioè ci raggiungono con tutto il loro carico relazionale perché qualcuno che è in contatto con noi le sta sottoponendo alla nostra attenzione, in base a una sua reazione nei loro confronti. Reazione che può essere di ogni tipo: dal gradimento più sbilanciato, all’antipatia più aggressiva, passando per l’indignazione, il rifiuto, il plauso e tutte le possibili combinazioni delle reazioni umane di fronte ai fatti della realtà.
Il web come un condominio, col suo sovraccarico di differenze
Altro che sovraccarico di contenuti, a investirci sono piuttosto differenti modi di percepire la realtà e di entrare in relazione con essa che costantemente ci ritroviamo nei nostri spazi connessi. Essere online comporta, infatti, anzitutto la riduzione delle distanze: ciò che prima potevamo tenere fuori, lontano, altrove, oggi entra nelle nostre timeline e nei nostri spazi di connessione anche quando non lo vogliamo e in situazioni decontestualizzate (mentre siamo su un autobus e andiamo al lavoro, mentre ci distraiamo e guardiamo lo smartphone). Non siamo noi a decidere quando e come, ma è la differenza dell’altro che ci raggiunge in ogni momento. E ciò provoca una situazione di reattività continua, simile a quella che provocherebbe una convivenza forzata, in cui tutti sono vicini, loro malgrado.
È l’effetto della diversità aumentata: così come la realtà aumentata tramite il digitale evidenzia alcuni aspetti di ciò che ci sta attorno mettendoli in primo piano, l’essere iperconnessi porta a una magnificazione della presenza delle differenze degli altri che percepisco costantemente vicini e presenti nella mia vita. Non a caso la reazione più comune è quella più umana: rifugiarsi in cerchie il più possibile omogenee per circoscrivere confini e sentirsi dentro di esse al riparo dalla differenza; oppure spegnere, disiscriversi, disintossicarsi dalla connessione per ridurre il disagio provocato da queste differenze sempre in contatto.
Per questo non è l’infografica del sovraccarico, ma un’altra immagine secondo me a rappresentate meglio la nostra situazione connessa. Se siamo diventati tutti così “vicini”, qual è il momento per eccellenza in cui le persone vicine, messe a confrontare i propri interessi, danno il meglio/peggio di sé? È la riunione di condominio. Direi che questa è un’immagine molto più rispondente alla situazione di diversità aumentata a cui la connessione ci sottopone: essere online è essere coinvolti in una specie riunione di condominio generalizzata in cui il problema non sono solo le troppe informazioni, ma il fatto che ciascuno le immette nel sistema e le affronta con il trasporto di chi sta difendendo il suo mondo e il suo spazio vitale dall’invasione dell’altro, diverso. È per questo che i litigi, l’odio, gli scontri online sono all’ordine del giorno: sono l’effetto della diversità aumentata che ci spinge, per reazione, a ricreare distanze.
Il litigio come exit strategy
Sì perché la funzione specifica del litigio è proprio questa: creare distanze laddove ci si incontra su una differenza che richiederebbe un confronto. La differenza, infatti, è un problema: incontrarla ci costringe a una messa alla prova, a un collaudo, come dice Adelino Cattani (un maestro di dibattito). Le nostre idee fino a prima del suo affiorare erano le uniche in circolazione, ora che incontro l’altro con la sua diversa idea, non ho più il monopolio della visione sul mondo. Se però arrivo a litigare, se riesco a trovare un motivo di scontro inconciliabile, non dovrò davvero confrontarmi. Il litigio è una perfetta exit strategy che ha un effetto utilissimo: perdere per strada il tema. Quando arriviamo allo scontro smettiamo di discutere dell’argomento da cui eravamo partiti e andiamo su altro, molto più gestibile della messa alla prova delle differenze.
Le tre vie del litigio
Con le parole siamo bravissimi ad ottenere l’effetto “fuga dal tema”. Lo facciamo fondamentalmente in tre modi (da cui ne derivano molti altri ricchi di sfumature e tonalità):
1. Il primo e più veloce modo per andare allo scontro è buttarla sul personale: “Sei tu che non ci arrivi!” è la frase simbolo, ma le sue formulazioni possono essere infinite. La tecnica è quella di trovare a qualcosa che manca nell’altro, a livello personale, per dimostrare che non va bene ciò che dice. L’effetto è quello di spostare l’attenzione dall’argomento di cui stavamo parlando, che ci costringeva ad affrontare la differenza, al piano della accettabilità o meno dell’interlocutore. Ciò ripristina un’immediata e confortevole distanza.
2. Un secondo modo, leggermente più impegnativo, è buttarla sull’indignazione. Chiamo in causa un vago quanto indistinto riferimento a principi morali per usarli come vessilli di inaccettabilità su ciò che hai appena detto l’interlocutore. “Quello che dici è vergognoso!”. Ci si pone in una posizione di superiorità morale e da quel piedistallo di virtù auto-attribuita si ripristina una asimmetria distanziante. Pensate alle varianti “è inaccettabile”, “non puoi dire così”, trapela da esse il vero scopo: non vogliamo discutere ciò che non va in quello che ha detto l’altro, semplicemente lo vogliamo rifiutare senza troppi sforzi. Ancora una volta, ci siamo salvati dal dover affrontare l’argomento messo in campo.
3. Infine, se proprio non possiamo indignarci o andare sul personale, facciamo la terza operazione, la più raffinata e complessa: travisiamo volutamente le parole dell’altro, riformulandole. “Mi stai forse dicendo che…”, segue la rielaborazione, a proprio vantaggio, dell’idea espressa dall’interlocutore. Così, a partire da quella versione adulterata delle sue parole, troviamo più agio a criticarlo. Di nuovo una manovra per manomettere l’argomento, mitigarlo e ridurlo, per evitare la messa alla prova a cui ci sottoponeva così come era posto all’origine.
L’effetto collaterale del litigio
Ma il litigio ha anche un altro effetto, una specie di effetto collaterale non desiderato che, come tutti gli esiti non previsti, è anche il punto da cui ripartire per uscire dalle sue grinfie frustranti. Ogni litigio infatti è “trasparente”: mostra cosa abbiamo dentro, tradisce le nostre debolezze, evidenzia le lacune, porta a galla i limiti e li sbatte in faccia agli astanti che lo osservano da fuori. Nello scontrarci, infatti, perdiamo spesso i filtri e ci lasciamo andare un po’ più del dovuto, visto che stiamo difendendo ciò che abbiamo più a cuore: il nostro mondo di idee coerenti e funzionanti! Pensate a quanto appaiono infantili persone serie e autorevoli quando iniziano a insultarsi elegantemente online. Il litigio ci denuda agli occhi degli altri.
Perché questo è il punto: quando affrontiamo un dilemma, la differenza che emerge – piccola o grande che sia – mobilita tutte le aspettative di ciascuno dei contendenti. Una discussione, infatti, non è mai uno scambio di idee nella Scuola di Atene – di cui ci piace pensare di far parte – ma uno scontro tra mondi. E il mondo, per ciascuno, è l’insieme dei significati che ha dato alle sue relazioni: è il posto che vuole ricoprire nella realtà così come la conosce.
Pensiamo al dilemma per eccellenza, il bicchiere mezzo vuoto o pieno: discutere su quell’acqua non è un esercizio di misurazione, ma uno scontro tra visioni del mondo, in cui ciascuno nel dire la propria non sta solo proponendo un’ipotesi tra le altre, ma sta dichiarando qual è il suo mondo e come si pone all’interno di esso. In una parola sta dicendo chi è.
Ogni discussione, insomma, mette alla prova chi siamo veramente. Troppo spesso ce lo dimentichiamo e, andando sul personale, indignandoci o fabbricando fantocci che travisano le idee degli altri, aggraviamo l’intensità di questo vero e proprio momento di crisi. Se poi ci mettiamo che tutti, volenti o nolenti, indossiamo il visore della diversità aumentata a causa della connessione, il mix è esplosivo. Ma allora cosa fare?
Alla continua ricerca del consenso
Tornando all’immagine della riunione di condominio, pensiamo a come vengono prese in essa le decisioni: per “alzata di mano”. È lo stesso meccanismo che abbiamo online: i like, l’engagement, i calcoli del sentiment e dell’opinione che va per la maggiore, il sondaggismo esasperato che ci porta a stare sempre lì a fare la conta di dove va il consenso e a misurare tutto in base a quello. Tanto che la domanda delle domande non è più “cosa dico e perché lo dico” o “cosa propongo e perché lo propongo”, ma diventa anzitutto e inesorabilmente: “quanti saranno d’accordo?”.
Vediamo questo fenomeno sempre dall’alto, dalla distanza, con una helicopter view come direbbero i bravi manager. Contiamo il consenso, le metriche, l’engagement, lo share, le percentuali. Vediamo sempre moltitudini di mani alzate e ne cerchiamo la rilevanza in termini di quantità. E spesso diciamo “oggi è così”, “la tendenza è questa”, “secondo i dati si va in questa direzione”, come degli anziani saggi e stanchi che ormai le hanno viste tutte e che se ne stanno sulla loro panchina a osservare queste dinamiche più grandi di loro.
Così facendo, però, ci perdiamo ciò che invece è vicino, a portata di mano. Infatti si può puntare l’attenzione su quante mani si sono alzate e con che posizione (la misura del consenso) oppure iniziare a guardare ciascuna mano, al perché si è alzata in quel modo e in quel preciso momento. E, così facendo, riscoprire la propria mano che si alza o non si alza in quella riunione, che interagisce con altre mani, che può incidere apportando in essa qualche cambiamento. Dalla massa informe di mani che non è sotto il mio controllo, alla mia mano che partecipa alla riunione di condominio generalizzata e in essa può in qualche modo portare il suo contributo.
Dissentire senza litigare in cinque passi, anzi in cinque dita
La nostra capacità di dissentire senza litigare è tutta, da sempre, in questa mano. E, come al solito, visto che ce l’avevamo sotto il naso da sempre, è la cosa più difficile di cui tener conto. Le dita ci dicono tanto, se solo sapessimo ascoltarle e guardare come sono fatte.
Il primo spunto ce lo dà il mignolo. Il dito corto e piccolo. Questo dito ci ricorda che più riconosciamo quel poco che sappiamo, le poche esperienze che abbiamo fatto, quello su cui davvero abbiamo qualcosa da dire, e più saremo rilevanti nel dire la nostra. Il problema infatti è quando ci magnifichiamo nelle discussioni. Quando siamo tracotanti, tuttologi e cerchiamo di difendere ciò che non padroneggiamo veramente. La maggior parte delle volte andiamo allo scontro perché non abbiamo pensato a fondo a ciò di cui si sta parlando. Quel poco che siamo, invece, la nostra “mignolitudine”, rappresenta proprio quell’unicità che ci rende riconoscibili, credibili e capaci di discuterne con tutti.
Segue l’anulare, il dito dell’anello nuziale, quello che ci parla dei legami. Discutere non è scambiarsi informazioni, ma costruire o distruggere legami e relazioni. Se solo ci ricordassimo questo ogni volta che ci confrontiamo, ci impegneremmo di più nella scelta delle parole. Dissentire, stare nel conflitto, è sempre e comunque una relazione che necessita del mantenimento del legame con l’altro. Non è mera formalità o cortesia: per andare fino in fondo nella differenza è necessario rimanere legati.
È qui che ci aiuta il dito medio: quando lo alziamo con insulti, aggressività, odio, sicuramente si romperà il legame con l’altro e le relazione di dissenso andrà a farsi benedire. Il dito medio ci ricorda il paradosso: chi più usa violenza meno esprime bene il suo dissenso. Le orecchie dell’altro, infatti, di fronte all’insulto si chiudono automaticamente. Quell’operazione di prevaricazione, di vittoria sull’altro, che apparentemente è così forte, in realtà porta solo a creare distanze e a evitare la messa alla prova. È la debolezza più grande, è la fuga. Chi dissente pacifico, invece, costringe a farsi ascoltare ed è molto più forte nel portare gli effetti della sua differenza nel mondo dell’altro.
E poi c’è l’indice. Il famoso dito su cui ci concentriamo costantemente e ci dimentichiamo di guardare a cosa punta. Ci ricorda che in una discussione non dobbiamo soffermarci sugli aspetti personali dell’altro, sui suoi limiti, ma andare alla Luna che sta cercando di indicare. È su quella, e non su come viene indicata, che verte la discussione. Ciò significa soprattutto una cosa: prendere sul serio l’oggetto indicato, prendere cioè per buono ciò che l’altro dice così come lo dice, per criticarlo in modo concreto da dentro il suo stesso ragionamento. Dissentire è stare nel merito dell’argomento.
Infine c’è il pollice. L’amato pollice del like a cui tanto ambiamo e che tanto usiamo per esprimere il nostro consenso. Un’affermazione di posizione facile, immediata, remunerativa perché ci fa sentire parte dello stesso mondo, non come quel dissenso che continua a mettere in connessione mondi alieni che non ci risultano.
Ecco, quel pollice si può posizionare in un altro modo, assumendo la funzione dell’indice mentre si rivolge verso il suo proprietario, rivelando su chi dobbiamo lavorare per migliorare le discussioni: su noi stessi. La strada, in un mondo di sovraccarico di differenze, non può che essere quella della autoironia e del distacco da se stessi. Quella che già il mignolo ci indicava (come al solito i più piccoli e gli ultimi hanno un punto di vista più lucido sulla realtà): quella per cui impariamo a prenderci meno sul serio e ad avere confidenza con i nostri limiti.
L’autoironia salva il mondo
I limiti e i difetti, infatti, a prima vista ci sembrano un problema. Istintivamente, quando emergono, ci fanno mettere sulla difensiva perché ci sembra ci facciano perdere il nostro posto nel mondo. In realtà quei buchi e quelle mancanze sono i punti che ci permettono l’incontro con l’altro. È quando ci riteniamo perfetti e autosufficienti invece che andiamo allo scontro: è un modo per dire che non abbiamo bisogno di nessuno.
Ora sull’autoironia la tecnologia ci offre oggi un’esperienza importante, di cui dobbiamo saper fare tesoro. Vi sarà capitato sicuramente. Tirate fuori lo smartphone, volete scattare una foto a qualcosa di interessante, ma quando aprite la fotocamera è rivolta dalla parte sbagliata, verso di voi. Quell’immagine della nostra faccia, senza preparazione, senza aver avuto il tempo di fare un’espressione intelligente o plausibile, ci provoca un certo orrore. Quello è un momento intenso di autoironia: per un attimo ci vediamo così come siamo, da fuori. Quel selfie involontario è qualcosa che dovremmo imparare a scattare ogni volta che discutiamo animatamente con gli altri: provare a fermarci un attimo e guardarci da fuori, vedendo chi sembriamo in quel modo di replicare.
Questo atto di distacco da se stessi, dona due poteri fondamentali. Il primo è perdere l’ansia di avere l’ultima parola. Avete presente quando ormai si è capito che non si va da nessuna parte e si continua a discutere all’infinito, ciascuno facendo a gara per dare l’ultima risposta? Dinamica aggravata dal fatto che online l’ultima risposta è visivamente l’ultima riga che chiude il thread. Così gli scambi si fanno tanto infiniti quanto vuoti. Ecco, l’autoironia aiuta a ritrovare la misura: una volta data la risposta, una volta esposto il proprio pensiero, se ancora l’altro non ne vuole sapere è il momento di mollare. Discutere all’infinito è l’ennesima manifestazione di autoreferenzialità, come il bambino che vuole che tutto vada come dice lui.
Il secondo potere è quello dell’ignorare. Chi ha un po’ di distacco da sé diventa capace di lasciar cadere le polemiche e di non offendersi quando riceve il trattamento di cui abbiamo parlato (buttarla sul personale, essere oggetto di indignazione, essere travisato volutamente). Riesce anche ad andare oltre la parte polemica di ciò che gli altri dicono per vedere se, una volta tolta quella, sia rimasto un qualche argomento da riportare all’attenzione. Di solito ripartire da quello può dare la possibilità di ridare fiato al dibattito. Per tutto il resto c’è l’ignorare. Anzi potremmo dire che al potere dell’ignoranza – fatto di insulti, odio, aggressioni, provocazioni – si può e si deve opporre il potere dell’ignorare. Perché in rete, il bello, è che ciò che non viene raccolto, ciò su cui non si ha reazione, muore di per sé e finisce nel dimenticatoio.
La fine della comunicazione felice, l’inizio dell’era della disputa
Ma l’autoironia ci spinge ancora oltre. E ci aiuta a capire che anche l’espressione guardarsi da fuori che abbiamo usato fin qui, è essa stessa un po’ troppo autoreferenziale. Definire, infatti, “fuori” ciò che è diverso da me è, in fondo, un’ulteriore manovra per tenerlo a distanza. Allora dovremmo correggerla in modalità autoironica dicendo: occorre guardarsi dal mondo dell’altro. Cioè entrare in discussione con lui a partire dal riconoscimento della posizione che si è ritagliato nel suo mondo, cioè capire il suo sistema di relazioni significative per trovare una connessione con lui all’interno di esse.
È finita l’epoca (se c’è mai stata) della comunicazione felice, che vuole mettere tutti d’accordo, è iniziata l’epoca della disputa tra differenze in connessione. Se vogliamo che questa disputa sia felice, abbiamo una sola alternativa: o fare la differenza in prima persona, mettendo le mani in pasta, come partecipanti a una riunione di condominio generalizzata; oppure saremo costretti a subirla in continui litigi che cercano di spegnere disperatamente la diversità aumentata. Ecco, non si spegnerà, perché la differenza, se ci pensiamo bene, non è un elemento aggiunto o artificiale, ma è il modo più comune di presentarsi della realtà in cui viviamo, che è fatta dei nostri mondi in connessione. Non c’è altro universo dove andare, tanto vale cercare di convivere in questo.