SHARING ECONOMY

Perché sono necessarie regole “smart” per Uber

Proteste sempre più violente da parte dei tassisti, sentenze che operano su regole non adeguate al fenomeno. La sharing economy entra nella cronaca quotidiana e con il caso di Uberpop obbliga ad azioni di regolamentazione rapide e illuminate, come quelle proposte da Boccadutri (PD). Sapendo che siamo in un contesto in continua evoluzione, non neutra

Pubblicato il 01 Lug 2015

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Le immagini delle proteste dei tassisti parigini, con le auto rovesciate e in fiamme nei pressi dell’aeroporto di Parigi, evidenziano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che il tema della regolamentazione delle nuove forme di economia, come quella rappresentata da Uber, è ormai uscito dai convegni, o dalle piccole comunità, e circola per le strade e nelle discussioni quotidiane.

Un bene, perché la politica è spinta a occuparsi dell’evoluzione delle forme economiche legate al digitale. Un male, perché ci arriviamo nella totale impreparazione sia da parte delle istituzioni sia da parte dei cittadini e degli operatori. Come ci ha detto Sergio Boccadutri (PD), tra i politici più attenti al tema, “non si può utilizzare il tema della tutela dei consumatori per non far nulla sulla mobilità in città”, così come non si possono fare scelte pensando a chi vuole difendere la situazione acquisita e non cambiare.

Anche perché il cambiamento è nei fatti, e non a caso fenomeni come Uber sono a diffusione internazionale (così come ad esempio Airbnb e BlaBlaCar) e sono solo alcune delle forme con cui si inizia a manifestare questa dimensione nuova che prende il nome di sharing economy.

E quindi, se la sentenza del Tribunale di Milano di fatto ha sospeso l’attività di Uber, il nodo della normativa è già cruciale e l’averlo fin qui eluso (non solo in Italia, gli avvenimenti francesi lo dimostrano pienamente) è certamente un problema e non può che spingere a un’azione rapida.

La normativa attuale è chiaramente inadeguata.

Ma quale logica seguire?

Una proposta

Innanzitutto, partendo dalla piena comprensione dell’accezione e quindi anche delle caratteristiche specifiche della sharing economy e, d’altra parte, dei rischi connessi ad alcune possibili dinamiche di evoluzione. In altri termini, guardando a una regolamentazione non burocratica, che non tenti di ricondurre queste nuove forme a quelle già esistenti e consolidate, e che però non cada nell’errore contrario di pensare che siano intrinsecamente virtuose e da non ostacolare nella loro libera evoluzione.

Regolamentare con consapevolezza o, come suggeriva qualche settimana fa il Guardian, regolamentare in “modo smart”.

Da questo punto di vista le proposte iniziano a convergere anche a livello internazionale, dall’Australia ad Amsterdam. In Italia, la proposta di Boccadutri su Uberpop è quella che si è più spinta sul dettaglio, così da essere di fatto una traccia operativa per una regolamentazione formalizzabile anche a breve, magari come emendamento al ddl Concorrenza.

La proposta tende a definire un “quadro di regole per la tutela del consumatore”, ma che sia anche base essenziale per differenziare i livelli di azione degli autisti Uber e quelli dei taxi ufficiali (“i taxi mantengono corsie preferenziali e soste riservate”), e allo stesso tempo rappresentare una “spinta alla qualità”, proprio beneficiando del confronto tra i servizi. Nella logica per cui, nelle parole del parlamentare Pd, “questa è una battaglia importante, in quanto modifica il mercato della mobilità locale e lo rende ancora più competitivo, grazie ad una maggiore libertà di scelta.”.

I punti principali della sua proposta tengono conto dei diversi obiettivi:

  • la definizione di un registro pubblico degli autisti Uber, con tracciatura del rispetto del codice stradale;
  • la presenza di alcuni requisiti per gli autisti (essere autista con esperienza – es. patente da più di 10 anni, avere la fedina penale pulita, avere un’altra attività lavorativa prevalente);
  • la presenza di alcuni requisiti per le auto (essere in regola con le revisioni, avere una copertura assicurativa anche per terzi);
  • la possibilità, per i clienti, di segnalare sulla piattaforma gli eventuali problemi incontrati;
  • l’assunzione di responsabilità di Uber come sostituto d’imposta.

Mantenendo chiaramente distinti i due livelli di servizio, servizio pubblico e con privilegi di mobilità l’uno, occasionale e privato ma comunque regolamentato l’altro, ecco che si potrebbero porre le basi per osservare l’evoluzione delle nuove forme di ride sharing, come Uber, comprendendo le modalità per evitare sviluppi distorti e conflitti per concorrenza sleale.

E avendo coscienza che la regolamentazione sui servizi di ride sharing non è che un primo passo verso una nuova normativa adeguata alla sharing economy, come anche la parlamentare Galgano sollecita.

Evitare l’evoluzione distorta, guidare il cambiamento

Ma quali sono i principali rischi evolutivi?

Diversi osservatori ne individuano tre principali:

  • lo scivolamento fuori dall’ambito della sharing economy, verso forme economiche diverse, anche di “business as usual”. La base del concetto di sharing economy è che chi ha una risorsa che vuole condividere lo dichiara e cerca qualcuno interessato. Il rapporto si instaura tra individui. La modalità per cui è invece l’utente finale che chiede il servizio e il sistema lo soddisfa è troppo simile a un normale servizio utente (“on-demand economy”). Di fatto, rischia di predominare l’organizzazione di business di chi gestisce la piattaforma (in forma quindi “business-to-consumer”) piuttosto che dei singoli che mettono a disposizione le proprie risorse (“consumer-to-consumer”, proprio della sharing economy). Questo sbilanciamento crea una situazione tale da portare ad assimilare gli autisti a dipendenti di Uber (vedi il caso della California);
  • la creazione di posizioni monopolistiche in capo a poche piattaforme oggi esistenti, e che senza la predisposizione di meccanismi di trasparenza (es. sulla qualità del servizio) e di salvaguardia dei nuovi entranti (Frenken suggerisce “nuove regole che permettano agli utenti di passare facilmente da una piattaforma all’altra, portandosi dietro le valutazioni e i rating effettuati”), può portare alla chiusura degli spazi, come succede in rete per buona parte dei servizi di maggior successo;
  • annesso al precedente, il tema dell’utilizzo dei dati degli utenti, che diventano un patrimonio gratuito a disposizione dei gestori della piattaforma.

Ecco, la consapevolezza necessaria (diffusa, non solo di poche élite d’avanguardia) deve consentire di affrontare queste situazioni sapendo che siamo del tutto all’interno di un contesto che iniziamo a conoscere adesso e di cui non possiamo prevedere del tutto le evoluzioni successive. Un contesto di cui dobbiamo comprendere le dinamiche e che sempre più ci obbliga ad un monitoraggio costante e attento, con alcuni valori “faro” da salvaguardare (centralità del cittadino e della comunità, qualità dei servizi, sana concorrenza, equità fiscale, …) e la capacità di pensare digitale per indirizzare secondo questi valori un cambiamento che è una opportunità formidabile, ma non è affatto neutro.

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