un contratto per il web

I monopoli digitali soffocano l’economia e i nostri diritti: quale riforma per internet

Nessuno poteva prevedere che società come Apple, Google, Amazon o Facebook avrebbero conquistato posizioni di incontrastata egemonia tecnologica, economica e finanziaria. Hanno ristretto così la libertà della rete, minacciano i nostri diritti. E può andare anche peggio. Ecco la via tracciata di Tim Berners-Lee

Pubblicato il 26 Nov 2019

Marina Rita Carbone

Consulente privacy

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu

intelligenza artificiale pregiudizio

La crescita delle grandi società del web – Google, Facebook, Amazon, Apple – è stata finora indisturbata ed esponenziale, al punto da creare giardinetti chiusi di potere. Già ora il fenomeno ha ristretto molto la portata innovativa – sulla società e l’economia – di internet, ma può ancora peggiorare. Cosa accadrà quando l’aria inizierà a mancare e le Big Tech metteranno in campo tutte le armi a loro disposizione per non morire?

Ecco perché serve con urgenza pensare a un quadro normativo in grado di alimentare la sana concorrenza, disincentivando tattiche sleali che iniziano a farsi sempre più attuali. Solo così si può recuperare lo spirito libertario e innovativo di internet (e del web) delle origini.

Il punto è che non solo questo spirito sembra essere soffocato, così come la portata pro-innovativa della rete (verso la società, l’economia); ma addirittura ora i colossi di questa rete sembrano minacciare i nostri diritti di base (privacy, libertà di espressione…), come emerso negli ultimi anni, in un susseguirsi di notizie (lo scandalo NSA delle intercettazioni di massa, quello di Cambridge Analytica…).

In questo contesto si incardina la proposta in nove punti di Tim Berners-Lee, presentata ieri, che come vedremo rappresentano un fondamentale punto di partenza per disciplinare l’attività di governi, società e utenti.

E in Italia queste istanze arrivano negli stessi giorni in cui Facebook ha bloccato la pagina del movimento libertario dal basso delle “sardine”, ostacolandone fortemente le attività; anche se l’ha sbloccata il giorno dopo, ha dimostrato così ancora una volta quanto potere si sia ormai concentrato nelle sue mani (senza contraddittorio né contrappesi).

Nascita e crescita del fenomeno dei “Tech Giants”

Tutto è iniziato con la nascita del web: uno spazio virtuale potenzialmente infinito, nel quale tutto era ancora da creare e non vi erano vincoli. L’enorme potenzialità del web, unita alla crescita tecnologica degli ultimi anni, ha fatto nascere grandi sogni e grandi progetti. Dallo spazio angusto di piccoli garage, uomini sin lì sconosciuti hanno saputo sognare in grande e soprattutto trasformare quei sogni in realtà, trasformando piccole start-up nei giganti che oggi tutti conosciamo. Un piccolo sito di eCommerce; un motore di ricerca; un annuario digitale e, infine, un telefono senza tastiera ma con i neuroni di un computer: idee innovative di grande successo che, col tempo, hanno assicurato a piccole società la possibilità di farsi strada in un ambiente che sembrava solo parallelo a quello fisico, nel quale tutto era possibile perché nulla era ancora esistente.

Oggi, Google, Amazon, Facebook, Apple, Alibaba e gli altri colossi digitali hanno conquistato la quasi totalità di quello spazio che sembrava non finire mai: al pari di imperi, si sono fatti largo all’interno del web conquistando nuove fette di mercato e raggiungendo livelli di utenza che, al tempo, non sarebbero mai stati neppure immaginabili.

Uno dei modi di misurare la forza di queste società è la capacità di acquisire ingenti quantità di dati personali: si stima che, ad oggi, il valore medio annuale pro capite dei dati personali sia pari a 616,82 dollari; moltiplicato per l’enorme numero di utenti, capire la portata del patrimonio virtuale delle società del web diventa molto semplice. Peraltro, il commercio dei dati personali è molto più connesso al mondo “reale” di quanto possiamo immaginare: gli ultimi eventi di cronaca ci hanno insegnato come le aziende tecnologiche siano in grado di influenzare persino la politica.

La continua innovazione, però, comporta il dispiego di capitali economici ingenti: lo sviluppo di una app al giorno d’oggi richiede necessariamente dei server capaci di gestire enormi flussi di dati; dei sistemi di gestione dell’utenza; delle misure di sicurezza che impediscano la trapelazione dei dati e garantiscano la tranquillità dei soggetti che utilizzano la piattaforma, anche inserendovi dati economici o sensibili.

È qui, dunque, che nasce il bisogno di cooperare e, conseguentemente, l’intreccio indissolubile che lega tutte le società del web in una rete di dimensioni colossali.

È così, dunque, che si assiste alla nascita di reti di società di servizi: ne è esempio la dipendenza di Netflix dagli spazi e dai server di Amazon, che le consentono di offrire il proprio servizio di streaming senza, dall’altro lato, sobbarcarsi gli enormi costi di una infrastruttura propria; Pinterest, la quale trova il proprio successo grazie all’”aiuto” (a pagamento) di piattaforme quali Google e Facebook; Spotify, la cui esistenza non può prescindere dall’utilizzo dei server di Google. Per di più, cosa sarebbe di tutti questi servizi, qualora nessuno potesse avvalersi degli app store, di proprietà di Google ed Apple?

Lo stesso vale nel mercato cinese del software, nel quale grandi società quali Alibaba e Tencent, dal potere pari a quello delle loro “sorelle” americane, fanno da appoggio a centinaia di altre società.

Sono intrecci che creano situazioni anomale, sul mercato, dove aziende innovative hanno bisogno di appoggiarsi a loro potenziali concorrenti: Netflix su Amazon, che pure fa e distribuisce film; Pinterest su Facebook, che controlla Instagram. Facebook su Apple e Google (tramite i relativi store) eccetera.

Competizione e connessione

Finora, grazie allo spazio di crescita ancora disponibile, questi intrecci si sono tenuti in equilibrio. Qualche inciampo si è già visto nella battaglia di Apple per la privacy, dove ha in più di un’occasione preso di mira Facebook e limitato l’uso del suo app store.

Ma la crescita non può durare per sempre e nessuno spazio è infinito. Dove prima non vi era competizione e ogni società poteva crescere liberamente, offrendo ognuna il suo servizio innovativo, oggi gli spazi per crescere sono estremamente ridotti e la continua necessità di fornire nuovi servizi comporta, inevitabilmente, l’intrecciarsi di piccole e grandi società del web. A catena, si assiste all’impossibilità, per le piccole start-up innovative, di crescere ed espandersi al di fuori dei confini già tracciati dalle più “anziane”, quali Facebook, Google, Apple, Amazon.

Ciò è inevitabile: solo Facebook, tramite Instagram e Whatsapp, gestisce il 26% del traffico globale dei social media ed il 16% della messaggistica istantanea. Allo stesso modo, Amazon e Alibaba, sebbene nati da contesti globali differenti, veicolano la quasi totalità dell’e-commerce tramite le proprie piattaforme.

Mettiamo subito in chiaro che ciò non sempre è qualcosa di negativo: la cooperazione al fine di ridurre i costi e la maggiore “libertà” concessa nel web ha i suoi vantaggi quali, per esempio, la possibilità per il consumatore di accedere a servizi talvolta indispensabili, a costo zero (o quasi). Regole eccessivamente rigide o standard qualitativi di gestione dei dati e monitoraggio delle pubblicità troppo elevati potrebbero, anzi, danneggiare il mercato, consentendo solo alle poche società che ne hanno la possibilità di rimanere sul mercato, imponendo ancor maggiormente il proprio oligopolio sul mercato.

Ben venga dunque uno spazio di libertà quando utile alla concorrenza, all’implementazione della qualità dei servizi, al mantenimento della legalità, senza travalicare i confini della finalità commerciale non manipolatoria.

Tuttavia, in ogni mercato sappiamo bene che la collaborazione è sempre qualcosa di labile: dove i numeri devono crescere, le “amicizie”, nella stragrande maggioranza dei casi, devono cessare. Cosa potrebbe succedere se Amazon, al fine di annullare la capacità di Netflix di fargli concorrenza, decidesse di impedire a quest’ultimo di utilizzare i propri server, favorendo esclusivamente il proprio prodotto?

L’amore è bello finché dura

Il clima di tensione creato dalla possibile perdita di utenza determina l’insorgere del “lato più oscuro delle tecnologie digitali” (citando Margrethe Vestager, Commissario Europeo per la concorrenza): acquisizioni, imposizioni, tattiche sleali, comportamenti anti-etici che non fanno altro che testare continuamente i limiti delle attuali leggi antitrust.

La collaborazione diventa dipendenza; la dipendenza, sfruttamento. Le grandi società del web che consentono alle “piccole” (per così dire) di utilizzare le proprie strutture, improvvisamente scendono in campo personalmente, divenendo allo stesso tempo “arbitri e giocatori” e cambiando tutte le regole del gioco in base ai propri personalissimi interessi.

Due profili di rischio

Nascono così due profili di rischio. In primo luogo, la concorrenza sleale nei confronti delle società che dipendono dalle grandi per poter sopravvivere, tramite acquisizioni delle start-up che potrebbero divenire potenziali concorrenti, o la creazione di prodotti identici a quelli delle concorrenti e l’utilizzo delle proprie piattaforme per garantire un miglior collocamento dei propri prodotti sul mercato online. È chiaro che una situazione del genere presenta evidenti ed enormi problematiche sotto il profilo della lotta ai monopoli: ad oggi, essere online significa scendere a compromessi con le richieste e le condizioni degli “imperi” tecnologici.

Tale profilo, peraltro, risulta già in atto, in special modo nell’ultimo anno: sono sempre state controverse le politiche di acquisizione ed inglobamento, tra le tante, di Facebook e Google: alle stesse si contesta di usare il proprio potere economico per annullare la concorrenza in principio, utilizzando studi di mercato che consentono loro di battere i propri nemici in partenza. È proprio il caso di dire: “se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro”. Su Facebook ci sono inchieste in corso di Fcc negli Usa; su Google, della Commissione europea (chiusura concorrenza per l’ambito shopping e Android).

Altrettanto censurate le tattiche di mercato di Amazon e Apple, le quali non sono per nulla nuove alla manipolazione degli algoritmi delle proprie piattaforme, una di e-commerce ed una di software, al fine di mettere in luce i propri prodotti e screditare quelli (uguali) della concorrenza.

Riassumendo, sono principalmente di tre tipologie i comportamenti anticoncorrenziali messi in atto dalle “Giants”, sempre maggiormente necessari nell’ipotesi di crescita lenta del business principale:

  • Crescita attraverso l’acquisizione dei propri competitors principali, con conseguente impossibilità per le altre società di essere veri competitors: occorre precisare, tuttavia, che non sempre all’acquisizione segue l’innovazione ed il miglioramento dei servizi offerti; la stessa non costituisce talvolta nemmeno un incentivo per le nuove società, le quali spesso hanno quasi timore di creare un prodotto che possa entrare in concorrenza con le Big Tech ed essere, così, oggetto di acquisizione indiscriminata;
  • Crescita attraverso l’ingiusta manipolazione dei prezzi; ne è un chiaro esempio quanto fatto da Qualcomm, alla quale si è imputato l’utilizzo di offerte esclusive sui prezzi delle licenze che hanno comportato lo “strangolamento della competizione”.
  • Crescita attraverso il posizionamento strategico dei propri prodotti o delle pubblicità.

Il secondo profilo di rischio riguarda, invece, la concorrenza fra le stesse “Tech Giants”: con l’aumento del valore dei dati personali pro capite, anche grazie ai sistemi di intelligenza artificiale, e il contestuale assestamento del numero di utenti raggiungibili dai servizi digitali, le tensioni cresceranno fino a raggiungere un punto di rottura. Se finora, infatti, era possibile crescere anche al di fuori dei servizi offerti dalle concorrenti (l’abbandono del progetto Google Plus, ad esempio, non ha comportato una diminuzione della crescita di Google), il futuro non si prospetta altrettanto roseo: Apple e Google potrebbero impedire a Facebook di consentire sui propri dispositivi l’uso della sua piattaforma; Facebook a sua volta potrebbe impedire alle stesse l’accesso agli spazi pubblicitari, che oggi raggiungono centinaia di milioni di utenti. Sarebbe una dichiarazione di guerra: e le conseguenze, soprattutto per gli utenti, per i quali l’utilizzo sul proprio smartphone di app quali Whatsapp è a dir poco fondamentale, sarebbero enormi. Per non parlare delle tensioni esistenti fra le tech society americane e le loro concorrenti cinesi.

È dunque necessario, a questo punto, attuare degli interventi che consentano di gestire il potere delle “Tech Giants”, evitando l’insorgere, per quanto possibili, di situazioni critiche che accentrino la forza di mercato nelle mani di pochissimi, senza tuttavia castrarne le possibilità nei confronti dei consumatori digitali, i quali, come già detto, beneficiano dei servizi offerti dalle varie società del web a costi contenuti.

I rischi per gli utenti

Molteplici le ricadute negative per gli utenti. La restrizione della concorrenza di per sé, anche se non aumenta i prezzi, riduce la portata innovativa della rete e quindi la possibilità che nascano nuovi servizi. La concentrazione di potere in poche aziende crea anche un aumento delle diseguaglianze economiche e un’eccessiva capacità di pochi gruppi industriali di incidere sulle scelte politiche, sullo sviluppo della società. In altre parole, è una minaccia per la democrazia – lo stesso motivo che è alla base della nascita delle autorità Antitrust, in fondo.

Direttamente gli utenti sono colpiti quando per esprimere le proprie idee, formare movimenti dal basso come le sardine, appunto, sono costretti a passare da Facebook (e alle sue regole) e a sottostare agli algoritmi (sempre cangianti) di Google. In questi giorni il gruppo Submarine lamenta di essere censurato su Facebook, per alcuni post pro-Rojava: non è stato bloccato ma la sua pagina sembra – per ammissione della stessa Facebook – de prioritizzata nel news feed.

Un tempo bastava fare un sito web per farsi sentire e si era impermeabili a blocchi e a meccanismi di cooptazione. Era questa la portata innovativa, disruptive, della rete. Adesso, oltre a correre l’ovvio rischio di essere boicottati da Facebook, c’è il più sottile rischio di essere in balia dell’algoritmo di Google, che sempre più tende a rispondere alle domande dei lettori direttamente dalla sua home page. Molti siti perdono così clic. Quando questo non è attività anticoncorrenziale – come lamentato da Tripadvisor – è una minaccia alla pluralità informativa resa possibile dal web.

La proposta in nove punti di Tim Berners-Lee

Svolte le dovute considerazioni e valutazioni, occorre rivolgere uno sguardo al futuro. La feroce competizione tra le compagnie digitali per fornire ogni tipologia di servizi, dal più al meno grande, serve al mercato per garantire dei prezzi sempre più bassi, incentivare l’innovazione tecnologica, migliorare la qualità dei propri prodotti.

La possibilità di avvalersi delle strutture messe a disposizione dalle Big Tech consente ai nuovi protagonisti del mercato digitale di fornire soluzioni a basso costo, sicure e funzionali. Sviluppare servizi al di fuori di tali confini non consentirebbe a quest’ultime di competere in alcun modo all’interno di un mercato, come quello digitale, in continuo mutamento. La partnership fra le Big Tech, a sua volta, rimane comunque costruita su mutui benefici: le conseguenze di una concorrenza cieca e mirante esclusivamente all’annullamento dell’altra parte comporterebbero ingenti per tutte le parti in causa.

Per tali ragioni, sebbene il clima sia sempre più teso, è necessario creare uno schema normativo che, prendendo spunto dalle leggi antitrust attualmente esistenti, si adatti alle specifiche necessità del mercato digitale e ne alimenti la sana concorrenza, disincentivando tattiche sleali che iniziano a farsi sempre più attuali.

In tale direzione si colloca il progetto portato avanti da Tim Berners-Lee, il padre del web, ossia il “Contratto per il web”, un codice di condotta “anti-distopico” per utenti, società e governi, in garanzia dell’accesso libero alla rete. I punti chiave del Contratto, che nel seguito si sintetizzano, sono 9 e rappresentano un fondamentale punto di partenza per disciplinare l’attività di governi, società e utenti:

  • Assicurare che tutti possano connettersi ad internet, per garantire che ogni utente, indipendentemente dal luogo ove vive, possa partecipare attivamente alla “vita digitale”;
  • Assicurare che ogni parte del web sia sempre disponibile, e che a nessuno possa essere negato il diritto di accedere alla globalità delle pagine;
  • Rispettare e proteggere il diritto fondamentale di ogni soggetto alla privacy ed alla sicurezza dei propri dati, per creare un ambiente libero e senza paura;
  • Garantire l’economicità dell’accesso ad internet, anche migliorando la qualità dei servizi offerti;
  • Rispettare e proteggere la privacy degli utenti e i dati personali per accrescere la fiducia nel web, anche attraverso la trasparenza;
  • Sviluppare tecnologie che supportino il lato migliore dell’umanità e disincentivino il lato peggiore;
  • Creare e collaborare insieme apportando contenuti di qualità al web;
  • Costruire solide comunità che rispettino il discorso civile e la dignità umana;
  • Combattere per il web, affinché rimanga sempre libero e rappresenti una risorsa pubblica a favore di tutti, adesso e nel futuro.

E’ il web che sogniamo tutti e che, si spera, diventi finalmente realtà.

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