Nel 2007 – 2008, per salvare le banche implicate nello scoppio della bolla finanziaria che avevano alimentato con tanta orgogliosa sicurezza e protervia, si diceva – e i media sostenevano questa tesi – che erano too big to fail, troppo grandi per fallire.
Oggi, davanti allo strapotere – economico, ma anche politico e aggiungiamo antropologico – che hanno le grandi aziende tecnologiche come Amazon, Google/Alphabet, Apple, Facebook, Netflix e dintorni (ci limitiamo alle imprese occidentali e americane in particolare; per la Cina occorrerà fare un discorso a parte) nessuno (tranne pochissimi) prova a dire che dovrebbe intervenire almeno l’antitrust. Il New York Time Magazine[1] ha dedicato una serie di riflessioni e approfondimenti su questo tema, ma serve anche ricordare che la critica al potere delle multinazionali nasce o rinasce già con i no global di fine Novecento, con il Rapporto Lugano di Susan George, con i Forum sociali di Porto Alegre, con le riflessioni di Padre Ernesto Balducci, con quelle di Luciano Gallino in Italia o di Ignacio Ramonet.
I super-poteri della Silicon Valley
Prendiamo dunque qualche spunto dal NYT Magazine: queste imprese sono poteri espansionistici, sono ben più potenti di quanto possa dimostrare il semplice numero dei loro utilizzatori, conquistano spazi e territori con lo zelo di missionari. Sono dei super-poteri, dove l’imperativo della crescita è stato sostituito da quello del rafforzamento (del proprio potere e della propria posizione di potere) e sono ormai un impero. Globale.
E ancora: i giganti tecnologici, divenendo super-poteri tecnici si sono spostati in ogni direzione, strutturandosi in modi che non vediamo, insieme costruendo un ‘nuovo mondo’ e un ‘nuovo ordine del mondo’ a nostra totale insaputa, da cui è impossibile uscire. Vero. E sembra una accresciuta gabbia d’acciaio della vita umana, secondo Weber. Sembra la Fattoria degli animali, dove i maiali (uno, in particolare) sono andati al potere dopo avere abbattuto il potere dello stato (del padrone della fattoria) in nome della libertà e della uguaglianza degli animali (come di ciascuno nella rete), alla fine realizzando invece la forma più perfetta di potere dispotico e soprattutto distopico, che oggi non è più lo stalinismo sovietico a cui pensava Orwell, ma quello tecnologico e della Silicon Valley.
Nuovi cortigiani e nuovi zerbini
Troppo. Troppo potere, troppo concentrato in poche imprese private; e un potere senza controllo. Questo è oggi la Silicon Valley (e dintorni): un luogo fisico e insieme metafisico per tutti i tecnofili a prescindere, o una sorta di Cattedrale della religione della tecnologia (ben oltre il solo capitalismo come religione di cui scriveva, già nel 1921, Walter Benjamin). Un luogo dove uomini politici e capi di stato – strisciando o facendosi zerbini come tutti i cortigiani/amanti servili, ma con gli occhi pieni di stupore e di meraviglia infantile – si recano ossequienti e devoti in pellegrinaggio per adorare il dio stesso della tecnica, del profitto e dell’innovazione; e soprattutto coloro – chiamati guru – in cui dio si è incarnato, prima in Steve Jobs, poi in Jeff Bezos e in Mark Zuckerberg. E fino a quando ci inchineremo a questo potere, non si produrrà alcuna secolarizzazione rispetto a questa religione tecno-capitalista ormai globale e senza più eresie[2] – oppure sono nascoste e non riescono a cambiare la narrazione tecno-capitalista – non si realizzerà alcuna laicizzazione della società rispetto alla tecnica/rete.
E allora, la domanda che dovrebbe essere (ma ancora non è) sempre più urgente: il potere – quello vero, quello che produce effetti sulla società e sulle persone – dov’è? Evidentemente non è più nello stato (che da tempo ha cercato e ormai realizzato l’eutanasia di se stesso in nome del mercato e delle magnifiche sorti e progressive della tecnica – assecondando l’ideologia neoliberale e quella anarco-capitalista e insieme il determinismo tendenzialmente autopoietico degli apparati tecnici), ma da tempo è concentrato in una oligarchia/casta tecnologica, viene gestito e usato a proprio piacimento da imprese private per i propri interessi, producendoci/attivandoci incessantemente per sostenere la dynamis del sistema e gestendoci tutti come lavoratori, consumatori e oggi anche come produttori di dati.
Se infatti il capitalismo è iniziato come capitalismo industriale è poi divenuto in breve tempo anche capitalismo del consumismo perché senza consumo non vi è produzione e produrre prodotti a valore di scambio e non in base al loro valore d’uso, presuppone che insieme alle merci si produca anche il bisogno e poi il desiderio/pulsione di consumare e quindi si producano materialmente e antropologicamente anche i consumatori: a questo servono appunto il marketing e la pubblicità).
Uno, nessuno e centomila capitalismi
Era un capitalismo dove si produceva valore (D-M-D’) ed è diventato un capitalismo dove oggi sommamente si estrae valore (dal lavoro, dall’ambiente, dalla vita intera, anche sociale, degli uomini), dove quindi si bypassa la fase di produzione (e quindi di redistribuzione della ricchezza prodotta) – trasferendola là dove costo del lavoro, diritti sociali e normative ambientali sono ridotte al minimo – e si produce sempre più denaro a mezzo di denaro (D-D’). Ma è insieme
- capitalismo delle emozioni (ancora nel consumo e nel manager empatico e motivatore e nella industria culturale e dello spettacolo);
- capitalismo delle piattaforme;
- capitalismo della sorveglianza (lo spionaggio globale per l’estrazione di dati);
- capitalismo dell’innovazione incessante e diffusa nella folla/sciame delle sue risorse umane nel nuovo capitalismo del lavoro a domicilio grazie alla rete e al personal computer.
Tutto mascherato da parole magiche come smart, sharing, AI, IoT, Industria 4.0.
Proteiforme e trasformista per natura, il capitalismo ha trasformato antropologicamente la vita dell’uomo in mera competizione economica, la società in mercato, l’uomo in merce e in lavoratore/consumatore. Quel mercato che, secondo Polanyi (ne La grande trasformazione, Einaudi) era un mero accidente della storia, quindi niente di naturale e/o deterministico, è diventato l’unica storia/narrazione dell’uomo. Il mercato e la tecnologia non sono più un mezzo al servizio dell’uomo, ma il fine della vita dell’uomo, suddivisa in parti/merci da porre sul mercato, da mettere al lavoro, ciascuno dovendo valorizzare non se stesso ma il proprio capitale umano. Dove non serve il sapere, aude (Kant), ma servono solo competenze a fare, senza pensare.
La Silicon Valley è infatti una fabbrica di dispositivi tecnologici e di dispositivi normativi (il dover essere connessi; il dover condividere; il dover diventare start-up di se stessi; il dover innovare a prescindere dalla utilità sociale e ambientale di tale innovazione; il dover essere leoni o gazzelle, importante è correre-fare-innovare più velocemente degli altri-competitors nella savana/giungla-stato di natura del tecno-capitalismo); è una fabbrica di immaginario collettivo/narrazioni-favole per bambini che non devono crescere; ma soprattutto è management delle proprie risorse umane ormai globali, cioè tutti noi connessi in rete, che lavoriamo producendo dati e non solo e con un lavoro che passa attraverso la rete, organizzato scientificamente-one best way nel nuovo taylorismo digitale (anche nell’Industria 4.0 e nei lavori di piattaforma – e lo si è visto da ultimo nello sfruttamento del lavoro e dell’ambiente nell’ultimo Black Friday, orgia collettiva celebrata nella Cattedrale virtuale del consumismo, prodotta/inventata dal sistema capitalistico per moltiplicare i propri profitti e per dare sempre nuova linfa e nuove motivazioni ed emozioni al nostro lavoro di consumatori, da compiere anch’esso a produttività crescente).
Un lavoro in lean production-just in time/just in sequence, inventato dagli ingegneri/creativi per organizzare il nuovo sfruttamento del proletariato dei servizi e delle piattaforme e dell’Industria 4.0; così me dei lavoratori del consumismo, organizzati dagli uomini di quel marketing che è l’organizzazione prima scientifica e poi in lean consuming – ma sempre scientificamente determinata – del nostro lavoro di consumo: esattamente come gli ingeneri di Taylor ingegnerizzavano lo sfruttamento degli operai alla catena di montaggio – come ci ricorda, con un confronto forte ma vero, Carlo Formenti.
La rete come fabbrica integrata/integrante globale
Continuiamo la nostra ricerca genealogica sul nuovo potere tecno-capitalista. La rete, come sosteniamo da tempo, è divenuta una fabbrica integrata globale ben oltre la fabbrica integrata di Taiichi Ohno per la Toyota, ben oltre il sogno di Ford e di Taylor. Una fabbrica integrata/integrante dove tutti siamo incessantemente (a mobilitazione totale) messi in produzione/consumo: a produttività crescente, a pluslavoro crescente (lavoriamo sempre di più ma siamo pagati sempre meno o addirittura non pagati, come nel lavoro di produzione di dati, negli stage, nell’apprendistato), a sussunzione crescente nel sistema del capitalismo e della tecnica.
Noi tutti siamo infatti ornai governati non più dalle leggi di uno stato (lo siamo anche e ancora, ma sempre meno), ma dalle norme del mercato e della tecnica come apparato. E se la legge è per definizione generale e astratta, la norma è invece personalmente vincolante, come nel caso della moda, della pubblicità, nel World class manufacturing e nella Industria 4.0 e oggi negli algoritmi che ci dicono cosa fare e come e ci portano a voler consumare sulla base dei nostri consumi del passato, anche le app, come la pubblicità di un tempo essendo una sorta di nostro mansionario a dover consumare (Anders), come oggi lo sono gli algoritmi predittivi – norma che normalizza e standardizza i comportamenti umani.
Ma allora, se la tecnica e il capitalismo producono non solo merci e apparati, ma soprattutto specifiche forme di vita funzionali al proprio funzionamento e al proprio accrescimento; se tutta la nostra vita un tempo umana e liberamente determinabile è oggi organizzata e ordinata capitalisticamente e tecnicamente – oltre la società amministrata secondo i francofortesi come Horkheimer, dove tutto è automatico e automatizzato, dal traffico al governo e “tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società” – ebbene, tutto questo non determina forse una forma nuova di totalitarismo? Non più di un partito politico e della sua ideologia che si fanno stato e società, ma di imprese private capitalistiche e della loro ideologia/management delle risorse umane che si fanno stato e società.
Se nel Novecento i totalitarismi erano politici e a questi totalitarismi i nostri vecchi si sono ribellati in nome della libertà e della democrazia, oggi il totalitarismo e ritornato, fuggiamo nuovamente dalla libertà (Erich Fromm) e ci adattiamo convintamente o fatalisticamente al nuovo totalitarismo: che è economico (capitalista) e tecnico e nessuno si ribella perché ormai la grande narrazione/ideologia tecno-capitalista/neoliberale ha sostituito le grandi narrazioni politiche novecentesche ed ha conquistato il nostro cuore e le nostre pulsioni portandoci a un feticismo estremizzato e quindi irrazionale per ogni innovazione tecnologica e insieme, e conseguentemente, facendoci integrare/connettere felicemente e volontariamente (sussumere appunto) dentro l’apparato e nell’ordine del tecno-capitalismo (dopo l’ordo-liberalismo siamo anche all’ordo-macchinismo)[3], di cui la rete/IoT/IA/algoritmi è la massima espressione e realizzazione (per ora) – a questo apparato delegando la valutazione, la riflessione e la decisione, ovvero la nostra vita intera. E se qualcuno ancora crede di vivere nell’Antropocene dobbiamo convincerlo che da tempo siamo ormai entrati nel Tecnocene[4], dove è la tecnica a governare la vita dell’uomo e a determinare l’ambiente oggi appunto quasi totalmente artificiale/virtuale, l’uomo avendo rinunciato alla propria soggettività, alla costruzione dei propri processi di individuazione, alla propria libertà.
Totalitarismo. Un concetto troppo forte?
Siamo cioè ormai arrivati alla realizzazione quasi completa di un potere totalitario attraverso il mercato e la tecnica come apparato. È scandaloso dirlo? No. Ed è giunto appunto il tempo – per scienziati della politica, filosofi e sociologi – di recuperare (dalla Scuola di Francoforte, ad esempio e da Anders) e riaggiornare (attualizzando un classico sul totalitarismo come quello di Hannah Arendt) questo concetto e questo processo di involuzione. Siamo in un nuovo totalitarismo/olismo/integralismo, quello appunto del mercato e della tecnica-rete, di un potere invisibile ma potentissimo che produce potere per sé attraverso la produzione di un sapere tecnico e funzionale/strumentale-industriale che diventa anche sociale (le forme/norme tecniche che diventano forme/norme sociali per un comportamento meramente adattativo rispetto alle esigenze preordinate e preordinanti della rivoluzione industriale – come sosteneva Anders). Un potere biopolitico – un biopotere – direbbe Michel Foucault; o biopolitico disciplinante diciamo noi[5], capace cioè di ingegnerizzare i nostri comportamenti rendendoli funzionali alle esigenze di funzionamento del sistema, ma facendoci credere di essere liberi e indipendenti, lavoratori autonomi e imprenditori di noi stessi, creativi e post-fordisti quando tutto il sistema economico e tecnico anche via rete è solo una forma/norma diversa di fordismo-taylorismo.
Un potere – quello totalitario tecno-capitalista – che cioè governa (governamentalizza, ancora Foucault) – ovvero orienta, guida, indirizza, motiva – la vita intera delle persone, omologandola e uniformandola al mercato e alle esigenze della tecnica come apparato attraverso la produzione/attivazione eteronoma di comportamenti condizionati e/o motivati[6]. Che crea il suo uomo nuovo ipertecnologico e potenzialmente post-umano (portato ad essere sempre meno umano nel pensare, valutare e decidere), integrandosi/ibridandosi/sussumendosi sempre più nella macchina e nella sua razionalità solo industriale; un uomo per il quale social è l’equivalente di società (come ieri lo era il partito nei totalitarismi novecenteschi – ma ricordiamo ancora una volta che i social sono imprese private il cui unico scopo è quindi il profitto; la socializzazione degli uomini nei social è funzionale – è una socializzazione di ruolo-funzione – a questa produzione di profitto nel capitalismo estrattivo di oggi); un uomo sempre controllabile/spiabile (un algoritmo invece del capo-caseggiato del fascismo); un uomo che delega tutto se stesso e la ricerca della verità ancora a un algoritmo[7].
Il potere delle imprese: sbilanciato e quindi non democratico
Che il potere delle imprese private sia enorme e troppo grande per non andare in conflitto con la democrazia e la libertà è cosa antica, pensiamo alle norme antitrust che nascono negli Usa con il Sherman Antitrust Act del 1889, anche se poi concretamente applicato solo nel 1911 contro l’impero petrolifero di Rockefeller e l’American Tobacco Company. Per quanto già allora la commistione tra politica e capitalismo fosse fortissima, l’impresa restava impresa e non si faceva essa stessa stato o non si sostituiva allo stato. Oggi invece, le imprese della Silicon Valley (e non solo), cioè il Big Tech globale sono molto di più e di molto peggio – sempre in termini di impatti negativi/nichilistici su democrazia e libertà dell’uomo, rispetto ad allora. Non solo fanno a meno dello stato, aggirandone ad esempio le norme fiscali, oppure oggi arrivando ad emettere moneta, ma sono più grandi e potenti di uno stato, che resta nazionale mentre le imprese sono un potere globale – e insieme realizzando il sogno anarco-capitalista di Murray N. Rothbard. In realtà, il totalitarismo non è delle imprese-tech, ma è del tecno-capitalismo di cui quelle imprese sono anch’esse parti funzionali, come i loro guru e il loro immaginario collettivo/grande narrazione unidimensionale e standardizzante.
La parola totalitarismo fa paura, non piace, sembra eccessiva? Domandiamoci però come mai la promessa degli anni ’90 – grazie alle nuove tecnologie lavoreremo meno, faremo meno fatica, avremo più tempo libero per le cose belle della vita (e persino a sinistra qualcuno pensava, ingenuamente, che le conoscenze informatiche e il lavoro di conoscenza avrebbero permesso finalmente di arrivare al post-capitalismo, cioè al comunismo) – si è trasformata nel suo esatto contrario: maggiore sfruttamento del lavoro, maggiore pluslavoro, totale sussunzione nell’apparato e totale alienazione da se stesso dell’uomo, la vita ridotta a merce e a capitale umano da valorizzare in termini economici e di competizione.
Ritorniamo quindi e ancora a Marcuse, che già negli anni ’60 scriveva (ne L’uomo a una dimensione), a proposito di società tecnologica avanzata: “In questa società l’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti [i comportamenti] socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. In tal modo esso dissolve l’opposizione tra esistenza privata e ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali. La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale [cioè è un potere dis-ordinante-disruptivo e insieme ordinante/rassicurante, come con i social, prodotti dallo stesso sistema che dinamizza e de-socializza incessantemente la vita del suo uomo nuovo], più efficaci e più piacevoli [il consumismo, l’edonismo, il divertimento]. (…). Essa plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale. Entro il medium costituito dalla tecnologia, la cultura, la politica e l’economia si fondono in un sistema onnipresente che assorbe o respinge tutte le alternative”.
Ma domandiamoci anche come sia stato possibile che un pensiero come quello liberale, fondato sulla libertà dell’individuo, abbia prodotto poi la negazione totale dell’individuo e la sua integrazione/sussunzione integrale dentro a un apparato che nega l’individualità anche se lo fa in nome della libertà, offrendo un massimo apparente di libertà e di creatività. Perché, come scrive Byung-Chul Han in Psicopolitica, il neoliberalismo (in realtà, il tecno-capitalismo) “è un sistema molto efficace nello sfruttare la libertà, intelligente perfino: viene sfruttato tutto ciò che rientra nelle pratiche e nelle forme espressive della libertà, come l’emozione, il gioco e la comunicazione. Sfruttare qualcuno contro la sua volontà non è efficace: nel caso dello sfruttamento da parte di altri il rendimento è assai basso. Soltanto lo sfruttamento della libertà raggiunge il massimo rendimento (…). Il regime neoliberale trasforma lo sfruttamento da parte di altri, in autosfruttamento, perché: “(…) assai più efficace è la tecnica di potere che fa sì che gli uomini si sottomettano da sé al potere. Questa tecnica vuole rendervi attivi, motivare e ottimizzare; e non impedire e reprimere. La sua particolare efficacia deriva perciò dall’agire non per mezzo di divieti ed esclusioni, ma attraverso piacere e soddisfazione. Invece di rendere docili gli uomini, cerca di renderli dipendenti. Il potere intelligente, benevolo non opera frontalmente contro la volontà dei soggetti sottomessi, ma li guida secondo il proprio profitto.
Esso è più affermativo che negativo, più seduttivo che repressivo. Si impegna a suscitare emozioni positive e a sfruttarle. Seduce, invece di proibire. (…) E ci invita di continuo a comunicare, a condividere, a partecipare, a esprimere le nostre opinioni, i nostri bisogni, desideri o preferenze e a raccontare la nostra vita. Si sottrae ad ogni visibilità. (…) Il neoliberalismo è il capitalismo del like e si distingue dal capitalismo del XIX secolo, che operava mediante obblighi e divieti disciplinari. Il potere intelligente legge e interpreta i nostri pensieri consci e inconsci. Si basa su un’auto-organizzazione e un’auto-ottimizzazione volontarie. Così non deve superare alcuna resistenza”. Il fine? “Che ciascuno realizzi prestazioni di sé sempre maggiori (…) Il nuovo obiettivo del potere non è controllare il passato, ma indirizzare in senso psicopolitico il futuro; (…) è prospettico, permissivo e proiettivo. (…). La psicopolitica neoliberale si impossessa dell’emozione, così da influenzare le azioni umane proprio sul piano preriflessivo”.
Tipica tecnica di potere, aggiungiamo, di un totalitarismo anche se non più politico, ma tecnico e capitalistico.
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Riferimenti
- https://www.nytimes.com/interactive/2019/11/13/magazine/internet-platform.html ↑
- L. Demichelis (2015), La religione tecno-capitalista. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis, Milano ↑
- L. Demichelis (2019), https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-18-sem-2/ordo-liberalismo-e-ordo-macchinismo-leclissi-della-democrazia-e-della-giustizia-sociale/ ↑
- L. Demichelis (2018), La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano ↑
- Ivi ↑
- Cfr., A. Ehrenberg (2019), La meccanica delle passioni, Einaudi, Torino ↑
- E. Sadin (2019), Critica della razionalità artificiale, Luiss, Roma ↑