il libro

Perché serve più Antitrust contro i monopoli del web

Nell’era digitale, dominata da Google, Amazon, Facebook e Apple, i mercati sono più concentrati che ai tempi della Gilded Age. E L’Antitrust? Non pervenuto. Un libro della giornalista di punta del Financial Times, Rana Foroohar propone dei rimedi e ci aiuta a capire perché in Europa stiamo meglio che negli Usa

Pubblicato il 29 Gen 2020

Stefano Mannoni

giurista, professore di Storia del Diritto Medievale e Moderno e di diritto della comunicazione all'Università degli Studi di Firenze, ex commissario Agcom

techno-caputalism

Negli Usa, fondazioni del calibro della Ford e della Hewlett hanno deciso di stanziare consistenti finanziamenti ai centri che si impegnano a promuovere il risveglio dell’antitrust nei confronti delle grandi piattaforme high-tech. Difficile dire se questo fervore contagerà anche l’Italia dove, a parte la traduzione del libro della Shoshana Zuboff sul capitalismo di sorveglianza (peraltro recensito su queste colonne con largo anticipo rispetto alla versione italiana…), i GAFA continuano a godere di uno straordinario consenso nonché a beneficiare di un certo torpore delle istituzioni.

Così si odono le lamentele dell’azienda di prodotti audio Sonos che accusa Google di averne copiato la tecnologia e poi aver discriminato Sonos sul motore di ricerca; Popsocket (accessori smartphone) secondo cui Amazon l’ha “bullizzata” costringendola ad accordi commerciali iniqui e non difendendola da contraffazioni presenti sul portale; Tile che è stata penalizzata sullo store di Apple dopo che questa ha lanciato un prodotto simile a quello di Tile (tag per trovare oggetti perduti). In passato ci sono state storie simili da Tripdavisor ed Expedia contro Google.

Non è forse allora superfluo dare conto di un libro che si iscrive perfettamente nella linea della vibrante contestazione, tanto più che è scritto talmente bene da suscitare un autentico piacere nella sua lettura. Autore ne è una giornalista di punta del Financial Times, Rana Foroohar, e il titolo non lasca adito a dubbi: Don’t be Evil. How Big Tech Betrayed Its Founding Principles and all of US, Currency, New York, 2019. Parodiando il notorio motto di Google “siate buoni”, l’autrice si applica a dimostrare che buone le piattaforme non lo siano per niente: anzi: “evil was baked into the business plan”.

Monopoli naturali, queste imprese hanno creato ecosistemi in cui è facile entrare ma da cui è molto difficile uscire, costringendo tra l’altro i settori più tradizionali a imponenti consolidamenti (vedi AT&T e Time Warner) per provare a tenere testa a questi behemot dell’informazione. Il risultato è che i mercati sono oggi più concentrati che ai tempi della Gilded Age dei Vanderbilt, Morgan e Rockefeller.

E l’antitrust dove è?

Si potrebbe pensare che il monopolio alla fine sia più efficiente della concorrenza caotica. Ma non è così: dati alla mano pare che la propensione all’innovazione si riduca man mano che l’impresa consolida il suo potere di mercato. E l’antitrust dove è? Non pervenuto. Il che è sconcertante perché, secondo un calcolo presentato da Rana, il valore dei dati – si dei nostri dati! – ammonterà (solo per gli USA) nel 2022 a 197.7 miliardi di dollari: più dell’intero prodotto dell’agricoltura americana. Algoritmi e pubblicità di questi dati fanno man bassa, incollando gli utenti agli schermi, non senza avvalersi di sofisticate tecniche di psicologia persuasiva.

Eppure non era così che l’idea di Google era nata. Non è forse vero che i due fondatori, Larry Page e Sergey Brin, avevano paventato i rischi di una commistione tra pubblicità e ricerca? Certo, ma all’epoca erano ancora nel track accademico e non avevano spiccato il volo verso l’empireo imprenditoriale. Cosa che hanno fatto nel momento in cui hanno realizzato la combinazione magica fra dati, effetti di rete e visualizzazione della pubblicità come parte organica della ricerca e funzione di un targeting millimetrico. Patto faustiano, dice l’autore, che è perfettamente riuscito: spiare gli utenti per carpire e sfruttare le loro preferenze. E non solo.

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I fattori che hanno contribuito al successo delle piattaforme

A concorrere al successo delle piattaforme sono stati due fattori importanti: da una parte l’esenzione della responsabilità per i contenuti online; dall’altra l’indebolimento negli USA della protezione accordata ai brevetti. Quest’ultimo è degno di nota: se da un lato l’algoritmo è il segreto gelosamente custodito, dall’altro è invece aperta la caccia alle invenzioni altrui che non possono più trovare riparo efficace dietro la proprietà intellettuale. Un discorso che vale anche per il copyright, vicenda ben nota, dove gli europei sono riusciti, grazie alla Direttiva del 2019, a limitare i danni, non senza enorme fatica. E se consideriamo le risorse umane anch’esse un asset intellettuale, il patto di non concorrenza tra i giganti della Silicon Valley, con il quale si impegnano a non rubarsi i dipendenti, rappresenta un limite niente affatto secondario alla circolazione delle idee.

Se a questo si aggiunge l’impatto devastante dell’irruzione della nuova economia sui rapporti di lavoro (vedi le asimmetrie tra Uber e i suoi autisti) e sulla creazione di lavoro (molto modesta) nonché sulla latitanza sul fronte della qualificazione al nuovo mondo della vecchia forza lavoro, il saldo netto è decisamente negativo. Secondo l’autore questi sviluppi non devono stupire. L’enorme quantità di potere economico e politico accumulato da queste piattaforme, soprattutto a partire dalla presidenza Obama, ha consentito loro di installare un regime di economia centralizzata, se non pianificata, che schiaccia lavoro, democrazia e innovazione.

Si l’innovazione perché lo shopping sistematico di start-up taglia alla radice le prospettive di una sfida su nuovi prodotti che possano mettere in discussione le enormi rendite acquisite dai soliti noti. Rana mette a nudo a questo punto una delle ricorrenti ipocrisia dei GAFA: “ ma noi siamo i campioni nazionali contro la Cina!”. Niente affatto replica lei, ribattendo innanzitutto che queste imprese gli affari con la Cina li fanno eccome, e in secondo luogo osservando che, avendo beneficiato di internet, invenzione finanziata dal Pentagono, privatizzano i profitti e socializzano le perdite, prosperando nei paradisi fiscali.

I rimedi allo strapotere dei GAFA

A questo punto scatta nel lettore la curiosità sui rimedi che propone l’autore. Eccoli, in nuce:

  • rimuovere l’esenzione di responsabilità delle piattaforme online;
  • separazione funzionale/strutturale tra piattaforma e attività commerciale, in modo da evitare i conflitti di interessi;
  • rilanciare l’antitrust;
  • se i dati sono il nuovo petrolio, ebbene ad essi deve essere attribuito un valore. Chi li usa deve pagare, ai titolari direttamente o indirettamente alla collettività;
  • riforma del sistema fiscale per intercettare il valore dove si trova realmente: nella raccolta dei dati.

Proposte forti, si vede bene, che però risultano in piena sintonia con il dibattito internazionale, ad esempio quello animato dall’OCSE. E soprattutto proposte condivisibili, la cui unica consolazione è al momento che l’Europa se la vede meglio degli USA. Ma non eravamo abituati a pensare il contrario? Grazie a Rana allora per l’importante incoraggiamento.

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