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I social e il web decentralizzato: che c’è di vero dietro l’utopia

Il CEO di Twitter, Jack Dorsey, ha annunciato l’intenzione di decentralizzare il social. L’idea non è nuova, interessa anche a Facebook. Ma qual è il vero obiettivo del progetto? Sulla carta quello di ridare agli utenti il controllo dei loro dati, ma gli attori del dWeb sono abbastanza scettici. Vediamo perché

Pubblicato il 13 Gen 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

blockchain - DAS - blochchain IoT

I giganti dei social media sembra non vogliano più opporsi alla filosofia del decentramento, rappresentata in primis dalla tecnologia blockchain.

La stanno anzi abbracciando, pare, per risolvere i problemi legati alla centralizzazione del web e per riportare il controllo dei dati nelle mani delle persone.

L’ultima iniziativa in ordine di tempo è quella di Twitter, come vedremo. Ma i social saranno mai disposti, per davvero, ad andare in senso opposto rispetto alla logica dello sfruttamento dei nostri dati, sulla quale hanno fondato il loro business?

Vediamo perché c’è molto scetticismo a riguardo (i social, per intenderci, pare vogliano più che altro lavarsi le mani dalla responsabilità e dai problemi della moderazione dei contenuti, scaricandola sugli utenti) e quali sarebbero, comunque, i vantaggi per gli urenti partendo, appunto, dall’annuncio di Jack Dorsey, non proprio l’ultimo arrivato sulle piazze virtuali.

L’annuncio del Ceo di Twitter: verso un social decentralizzato

Il CEO di Twitter, Jack Dorsey, ha annunciato l’intenzione di rendere Twitter decentralizzato. Lo ha reso noto direttamente sul social network attraverso un tweetstorm che ha rivelato la prossima costituzione di nuovo piccolo gruppo indipendente chiamato Bluesky dedicato alla mission.

” Twitter sta finanziando un piccolo team indipendente composto da un massimo di cinque architetti, ingegneri e designer open source per sviluppare uno standard aperto e decentralizzato per i social media. L’obiettivo è che Twitter sia in definitiva un cliente di questo standard”

In breve, Dorsey ha affermato di essere stato ispirato da una proposta del fondatore di Techdirt Mike Masnick, che da tempo promuove uno standard di “protocolli, non piattaforme” per Internet e ha descritto le motivazioni che hanno portato alla decisione di rendere Twitter un social media decentralizzato, citando in particolare alcune situazioni attuali che le applicazioni centralizzate hanno difficoltà a soddisfare.

La centralizzazione, infatti, secondo il CEO, agevola un meccanismo non virtuoso per il quale si sarebbe portati a: “focalizzare l’attenzione su contenuti e conversazioni che generano polemiche e indignazione, piuttosto che conversazioni che informano e promuovono la conoscenza.”

Una situazione che, invece, uno standard open e decentralizzato reso possibile dalle tecnologie come blockchain potrebbe, a suo dire, risolvere consentendo “un hosting aperto e durevole, una governance e persino una monetizzazione dei dati degli utenti”.

Sempre secondo Dorsey, l’approccio tradizionale alla moderazione finirebbe inevitabilmente per creare delle diseconomie di scala: “i social network crescono e con l’incremento della partecipazione aumenta anche l’esigenza di far fronte a fake news ed hate speech, ci si trova così a dover impegnare ingenti risorse economiche e umane in uno sforzo che prevede investimenti con ritorni limitati”.

Il carosello di tweet di Dorsey si conclude con i riferimenti a Bluesky: il team indipendente composto da cinque tra architetti, ingegneri e designer e guidato da Parag Agrawal, cto del social network che, Dorsey, intenderebbe finanziare sin da subito, per lavorare al preannunciato standard decentralizzato solido, scalabile e applicabile ai social media, specificando tuttavia come l’obiettivo possa essere raggiungibile solo a medio lungo termine.

“Per i social media, vorremmo che questa squadra trovasse uno standard decentralizzato esistente che possa aiutare ad andare avanti o, in mancanza, crearne uno da zero”, ha specificato Dorsey.

Uno standard aperto e decentralizzato per i social media: di che stiamo parlando?

Diciamo subito che l’idea non è nuova.

Non lo è sul piano teorico: ormai 10 anni fa uscì il paper “Decentralization: The Future of Online Social Networking”, cui contribuì nel 2009 lo stesso Tim Berners-Lee.

E nel giugno 2016, un primo gruppo di costruttori, archivisti, politici e giornalisti si è riunito per il primo vertice Web decentralizzato all’interno delle colonne del quartier generale di Internet Archive a San Francisco, sede di una delle più grandi biblioteche digitali del mondo. Il suo fondatore, Brewster Kahle, lanciò in quell’occasione una sfida a questi primi sviluppatori: usiamo tecnologie decentralizzate per “Lock the Web Open”, questa volta per sempre.

Non lo è sul piano pratico: oggi esistono diversi social network decentralizzati, come Diaspora, i due social incentivized (che remunerano in cripto-valuta gli utenti che contribuiscono con i loro contenuti) Steemit e Minds e All.me.

Sono già operativi Mastodon, una sorta di Twitter decentralizzato, il russo Golos, DTube (che si ispira a YouTube) e Sola, il “social network decentralizzato di nuova generazione”, come recita la descrizione ufficiale che sfrutta l’architettura dei nodi e a differenza delle principali piattaforme di oggi, non si basa sui concetti di follower ma utilizza algoritmi di AI in combinata con le reazioni degli utenti per diffondere informazioni.

E non lo è neppure per Twitter che con i propositi preannunciati sembrerebbe mirare ad un ritorno alle origini: fino al 2012 alcuni dei progettisti di interfacce utente più talentuosi del mondo, i suoi sviluppatori, lo avevano reso un parco giochi del design, dover poter realizzare qualsiasi tipo di app Twitter desiderassero; incluso un client Twitter completo di funzionalità e privo di pubblicità che potevano personalizzare come volevano.

In pratica, se nei social tradizionali la gestione dei dati avviene in modo centralizzato, in quelli decentralizzati le cose funzionano diversamente: la logica che li contraddistingue è la stessa alla base della catena di blocchi della tecnologia blockchain di bitcoin. I dati risiedono su server indipendenti, interconnessi tra i quali le trasmissioni di dati avvengono attraverso un meccanismo di consenso. Si parla per questo di rete distribuita ma in realtà non tutti i social network decentralizzati sono necessariamente distribuiti o totalmente decentralizzati.

Gli utenti dei social decentralizzati restano comunque proprietari dei loro dati detenendone il controllo. Crittografia e condivisione solo previo consenso esplicito (in funzione di autenticazione) fungono da presidi di sicurezza dei relativi trattamenti.

dWeb, uno strumento da maneggiare con cura

Tutte caratteristiche che evidentemente non giocano a favore della logica su cui Facebook, Twitter e altri big tech del web hanno costruito il loro modello di business: la gratuità del servizio cela l’apprensione dei dati forniti dall’utente, a loro volta “beni preziosi” per attività di marketing,  pubblicità programmatica e “lauto bottino dei data broker” .

Gli utenti non hanno modo di disporre in completa autonomia dei loro account che sono infatti gestiti dal social attraverso determinazioni di immediata efficacia come il blocco di un utente o la censura di determinate tipologie di contenuti.

Quando accediamo a Internet, i nostri computer in generale utilizzano il protocollo HTTP sotto forma di indirizzi Web per trovare informazioni archiviate in una posizione fissa, di solito su un singolo server.

Al contrario, nel progetto di DWeb le informazioni vengono recapitate in base al contenuto, il che significa che questo potrebbe essere memorizzato in più luoghi contemporaneamente coinvolgendo anche tutti i computer che forniscono servizi e accedono ad essi. Ciò è quello che si definisce in gergo tecnico connettività peer-to-peer. Nei social network decentralizzati l’unico responsabile è l’utente stesso. Con tutto ciò che ne deriva, oneri e onori: un individuo può apparire come vuole, senza usare necessariamente la propria identità. Può interagire nel modo che vuole nel bene e nel male.

Uno strumento dunque da maneggiare con cura e ad oggi privo di una chiara connotazione di diritto: non è ancora chiaro se l’attuale spinta verso una maggiore regolamentazione si allineerà ai principi di responsabilità che dovranno caratterizzare lo logica che anima il Dweb.

Fin dall’inizio, i maggiori esponenti nei settori finanziari e tecnologici (social compresi) si sono opposti con veemenza alla tecnologia legata a Bitcoin, la blockchain, identificandola come una minaccia. Tuttavia, il concetto di Internet decentralizzato attivato da Satoshi Nakamoto si è prepotentemente imposto come elemento disruptive dell’innovazione tecnologica coinvolgendo tutti i settori industriali, finanziari, compresi i social network.

Pubblicità e centralizzazione del servizio vanno sempre a braccetto. Ma tutto il peso della moderazione dei contenuti, della rimozione degli hate speech, della creazione di modelli virtuosi da esporre a livello globale ricade sulle piattaforme.

Le reazioni del dWeb all’annuncio di Twitter

Quali sono state le reazioni da parte degli attori del Dweb (il web decentralizzato, appunto) e dei creatori degli attuali network decentralizzati?

Il co-founder di Wikipedia, Larry Sanger esprime il suo dubbio concludendo il suo tweet con un “Ci crederò, quando lo vedrò”.

Sean Tilley, gestore della comunità della prima rete decentralizzata Diaspora, riporta:

“L’interpretazione pessimistica è che Twitter vuole non solo entrare in ActivityPub, ma anche controllarne lo standard”.

ActivityPub è un protocollo esistente (creato da W3C, Social Web Working Group, un gruppo di sviluppatori), standard e open source decentralizzato per il social networking che fornisce una API client to server per la creazione, l’aggiornamento e la rimozione dei contenuti e, al contempo, si comporta anche come una API server to server occupandosi della consegna delle notifiche e del subscribing dei contenuti. Sostanzialmente ActivityPub fornisce allo sviluppatore e all’utente due layer:

  • un server to server federation protocol, che di fatto va a decentralizzare il modo in cui i siti web condividono le informazioni;
  • un client to server protocol, in modo che gli utenti, ma anche ibot e i vari processi automatizzati, possano comunicare con ActivityPub tramite il proprio account, direttamente da uno smartphone o da un PC attraverso delle Web App.

Nel contesto di ActivityPub ciascun utente è rappresentato come un “attore” che corrisponde ad un account sul server. Ogni attore ha a disposizione una “inbox” dove riceve i suoi messaggi ed una “outbox” dove può inviare messaggi.

Darius Kazemi, co-fondatore di Feel Train, noto per le sue collaborazioni tra cui Mozilla Open Web, volte a sviluppare la decentralizzazione del web, si chiede con evidente sarcasmo perché si dovrebbe investire per creare un nuovo protocollo, dal momento che ne esistono già alcuni molto interessanti. E si riferisce anche lui come Tilley ad ActivityPub, nato in seno al Word Wide Web Consortium (W3C).

E ha twittato:

“Ho sentito che Twitter vuole investire nella creazione di un nuovo protocollo di social media decentralizzato, nel frattempo molti di noi sono già qui a fare il duro lavoro. Twitter potrebbe aiutare circa il “1.000 percento in più” semplicemente finanziando selezionati progetti già esistenti.”

Ma, in particolare Mastodon, uno dei più noti social network decentralizzati fondato nel 2016, il cui fondatore è Eugen Rochko, non ha mancato di rispondere direttamente a Dorsey, sottolineando come l’intento di Twitter sia null’altro se non quello di “costruire un protocollo che riesca a controllare, come fa Google con Android“. In pratica Twitter creerebbe un suo protocollo per raccogliere dati sugli utenti.

Una versione twittata quindi piuttosto mordace del tipo “Embrace, Extend, Extinguish”

Bluesky, una scelta non proprio casuale

Che finalità persegue dunque Twitter con l’iniziativa Bluesky? Dorsey è uno dei pochi tecno miliardari nostalgici degli ideali primordiali dell’Internet 1.0?

La scelta di Twitter come anche di Facebook di non combattere l’avvento delle cripto valute e l’idea del decentramento, bensì di incentivarne lo sviluppo non è certo casuale. E le possibilità che tutto ciò è in grado di offrire appaiono allettanti tanto quanto affascinanti: se da una parte, infatti, un sistema decentralizzato consente agli utenti riacquistare il controllo delle loro informazioni, con meno annunci e meno algoritmi addestrati ad agire nella sfera di libera determinazione di ciascuno; dall’altra per Twitter e altri come lui ciò significa la possibilità di deviare la responsabilità ed i costi dei copiosi problemi relativi alla moderazione dei contenuti trasferendola ad altri: gli utenti.

Secondo Nathaniel Popper, giornalista del NYT e autore di “Digital Gold: A History of Bitcoin”, i maggiori social media intendono utilizzare il decentramento per superare alcune delle sfide dei loro settori. Popper scrive:

“A decentralized internet was hailed as a way to dethrone Twitter and Facebook. But to the tech giants, the idea could unload some of their burdens”

Allo stesso modo, sebbene Mark Zuckerberg sembri impegnarsi proattivamente (con scarso successo per ora) per arginare la diffusione di informazioni false ed inquinate sulla sua piattaforma, non ha certamente mancato di prestare attenzione e risorse alla creazione della propria criptovaluta Libra e neppure di guardare con un certo interesse al potenziale della decentralizzazione.

“I believe very strongly in trying to decentralize and put power in individual’s hands” ha ribadito ad inizio anno.

Da dove trae profitto un social network decentralizzato?

Per Dorsey un social decentralizzato trae profitto dalla capacità l di rendere la propria user experience la migliore possibile, orientando l’attenzione degli utenti verso tweet significativi e di valore, spogliandosi allo stesso tempo, dei costi economici e reputazionali derivanti dalle problematiche sottese alla moderazione dei contenuti e alle criticità legate alla sfera dei diritti fondamentali, privacy e libertà di espressione in particolar modo. La tecnologia blockchain, in tutto ciò, assume un ruolo strategico fondamentale “consentendo di valutare una serie di soluzioni decentralizzate per l’hosting dei contenuti, la loro governance e anche la loro monetizzazione”. In una parola cripto valute. Un passo alla volta ma inesorabili.

I social e il “mercato dell’attenzione”

Twitter, Facebook, Google. Il “mercato dell’attenzione” degli utenti è oggi concentrato nelle mani delle maggiori aziende del tech. Parliamo di un semi-monopolio digitale caratterizzato da numerosi problemi di sicurezza e pericolosamente fallace a scapito dei diritti e delle libertà fondamentali.

Ed anche gli effetti collaterali dell’information overload e dell’attention economy (già nel 1971, Herbert Simon, premio Nobel per l’economia, scriveva: «L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare».) sono chiari: dalla disinformazione, all’alterazione della libera concorrenza, dai problemi di sicurezza alle criticità legate alla data protection, dalla violazione della proprietà intellettuale ed industriale alla polarizzazione che genera al contempo divisione ed appiattimento della capacità di ciascuno di esprimere opinioni, dalle problematiche del microtargeting politico e pubblicitario alla crisi della fiducia.

Il Report di Amnesty International intitolato Giganti della sorveglianza: come i business model di Google e Facebook minacciano i diritti umani evidenzia, non a caso, come la sorveglianza “onnipresente” operata da Facebook e Google su miliardi di persone rappresenti una “minaccia sistemica” per i diritti umani in tutto il mondo.

E allo stato dei fatti il mondo sociopolitico pare aver ingenuamente delegato al mondo privato-imprenditoriale il disegno e la gestione dell’architettura dell’informazione. Questo, se può aver generato efficienza e flessibilità, ha tuttavia anche provocatoun vuoto di accountability. Il rischio è enorme.

Il web verso una svolta liberale e a lungo termine?

Dorsey cita “Protocols, Not Platforms: A Technological Approach to Free Speech”, un bel saggio pubblicato da Mike Masnick il 21 agosto 2019 sul sito del Knight First Amendment Institute presso la Columbia University.

Masnick si schiera in favore della Rete delle origini fatta di protocolli universali e scrive:

“La prima Internet ha coinvolto molti protocolli diversi: istruzioni e standard che chiunque potrebbe quindi utilizzare per costruire un’interfaccia compatibile. Email utilizzata SMTP (Simple Mail Transfer Protocol). La chat è stata effettuata tramite IRC (Internet Relay Chat). Usenet ha funzionato come sistema di discussione distribuito utilizzando NNTP (Network News Transfer Protocol). Il World Wide Web stesso era il suo protocollo: HyperText Transfer Protocol o HTTP”.

E ne auspica il ritorno in difesa non solo in ottica di sicurezza e tutela della privacy degli utenti ma anche di una maggiore libertà di parola, e quindi una riduzione delle derive patologiche del web quali il trolling, l’hate speech, il micortargeting psicografico e la disinformazione. Il beneficio andrebbe a vantaggio degli utenti e allo stesso tempo anche delle piattaforme che a questo potrebbero sfruttare l’occasione di trarre il giusto profitto dai dati senza il rischio di incorrere in abusi.

Dello stesso avviso un altro guru della rete, sempre citato da Dorsey nella sua catena di tweet, Stephen Wolfram: un noto matematico britannico ideatore, fra l’altro, del motore di ricerca Wolfram Alpha, che recentemente in un’audizione alla Sottocommissione per le comunicazioni, la tecnologia, l’innovazione e Internet della Commissione per il commercio del Senato degli Stati Uniti ha avuto modo di illustrare con entusiasmo le sue teorie sulla decentralizzazione.

Conclusioni

Anche ammesso, quindi, che la decentralizzazione possa costituire una così valida alternativa, perché Mastodon e gli altri social decentralizzati già esistenti rimangono realtà di nicchia sconosciute ai più e del tutto innocui?

Per una questione di tempo certo, ma in primis per un problema di cultura sociale. La questione è più culturale che tecnologica. Il digitale non è un tema tecnologico, di business o di comunicazione, non è un punto in un’Agenda politica: è uno Stato senza confini che al momento necessita di una “Buona politica”.

Internet oggi è un’esperienza ordinaria per miliardi di persone nel mondo: serve a vivere una vita normale, alla stregua di strade, elettricità, o acqua potabile. Non è un semplice strumento. Piuttosto un ambiente digitale che si sviluppa e trasforma ridefinendo le regole e i confini tra reale e virtuale, tra esistente non esistente, tra vero e falso, tra atto individuale e atto collettivo, tra lecito e illecito. E dove si fa sempre di più ostentazione che educazione, marketing più che conoscenza. Un universo funzionale dal quale è emerso anche il “Lato oscuro delle Forza”.

È quindi venuto il momento di invertire il processo.

È certo, l’aumento di consapevolezza degli utenti e il fardello della moderazione dei contenuti sulle spalle delle grandi piattaforme contribuiranno alla svolta.

Ma nel frattempo la vera sfida urgente rimane quella della governance del digitale. Sono le regole del gioco che faranno la differenza. L’opportunità importante e non più procrastinabile è quella dell’empowerment dell’individuo sia a livello personale sia a livello di gruppo.

Se da una parte Twitter, Dorsey e altri, potrebbero aver intuito che i vantaggi sul breve raggio non ripagano nei tempi lunghi (soprattutto se per perseguirli si mette a repentaglio la salute della società, che è la prima condizione per prosperare economicamente), dall’altra tutto ciò evidentemente non compensa la necessità di colmare il vuoto di accountability in corso e neppure la mancanza di una politica lungimirante a sostegno di progetti umani globali sostenibili e soddisfacenti.

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