L’anno che si è appena chiuso, per l’ecosistema italiano delle startup e del venture investing è stato un anno di illusioni, attese e disillusioni. È trascorso tra annunci, da parte della politica, che sembravano il segnale di un punto di svolta per chi si ostina a credere nel potenziale del paese. E si è concluso sempre tra gli annunci ma stringendo quasi un pugno di mosche, con la sola soddisfazione di un segnale forte all’ultimissimo minuto: il discorso di fine anno agli italiani del Presidente della Repubblica.
Startup, un 2019 di illusioni, assalti alla diligenza e colpi di scena
Il 2019 è iniziato con la grande illusione della manovra di bilancio, che aveva confortato tutta la comunità degli innovatori: creazione del Fondo Nazionale Innovazione (FNI) con un miliardo (e più) di dotazione dato dall’allocazione del 15% dei dividendi delle partecipate di Stato, il credito d’imposta per gli investimenti in startup innovative innalzato al 40%, una percentuale dei PIR (i Piani Individuali di Risparmio) veicolata sul venture capital. Sembrava davvero un punto di svolta favorito da una volontà ferrea, incassato nonostante i tentativi di sabotaggio e le resistenze di un pezzo di paese che osteggia il venture investing in parte per interessi contrapposti e in parte per incompetenza e incapacità di visione prospettica, abituato a spartire e mai ad accrescere.
Dalla manovra di bilancio, passando per le dimissioni di Stefano Firpo dal MiSE (condite da molti gossip sui retroscena), si arriva alla passerella di marzo a Torino dove Fabrizio Palermo annuncia per imminente l’avvio dell’operatività di FNI. Quello che non viene annunciato, però, è che quanto preesisteva viene imprudentemente messo nel congelatore: prevedendo di far convergere le attività, CDP non rinnova la dotazione per il fondo di fondi a Fondo Italiano di Investimento, e il MiSE comunica a Invitalia Ventures di bloccare ogni nuovo investimento. Questo ha fatto sì che i VC che stavano lavorando sui nuovi fondi si trovassero senza l’apporto di FII che storicamente era sempre stato anchor investor per i fondi italiani, e che le startup che stavano negoziando con Invitalia Ventures non ricevessero gli investimenti su cui contavano. In un colpo solo, un buco nell’offerta di capitali di rischio nel paese grave ed irresponsabile.
Si arriva a maggio, dove l’aggiustamento di bilancio fa scattare l’assalto alla diligenza. I dividendi del 15% delle partecipate di Stato da destinarsi al Venture Capital diventano “fino al 10%”, dove il quanto sia questo “fino al” non si capisce chi dovrebbe determinarlo, in che momenti e con quali strumenti. Di fatto, siccome un “può” non significa “deve”, quei soldi vengono ripresi dalla politica per destinarli altrove.
Nel frattempo, Assogestioni , che raggruppa gli operatori finanziari che gestiscono il risparmio, si mette a fare la guerra all’obbligo di stanziamento in Venture Capital di una quota dei PIR, prima congelando la raccolta di questi strumenti e poi incassando la correzione della norma adducendo una serie di motivazioni che sarebbero facilmente superabili, semplicemente con del dialogo tra le parti in causa. Ma se Assogestioni è ben presente sui tavoli, è invece assente AIFI, l’associazione dei gestori dei fondi di Private Equity, ossia il soggetto che secondo molti avrebbe dovuto cercare e potuto trovare un punto di incontro con Assogestioni. Questo strabismo e scarsa cura verso una parte della propria base associativa finisce con il costare ad AIFI lo scisma: gli operatori di Venture Capital associati formalizzano la trasformazione di un loro comitato informale in una vera associazione, facendo nascere VC Hub e consumando la frattura con quella che diventa la loro ex organizzazione di rappresentanza.
D’altra parte si può dire che la nascita di una associazione specifica di operatori di VC non legata a quelli del Private Equity fosse una evoluzione ineludibile del mercato ed un buon segnale di maturazione culturale del paese, essendo un mestiere completamente differente che solo gli operatori di Private Equity ritengono essere un sottocapitolo della propria attività.
Fondo nazionale innovazione, storia di una rivoluzione tradita
Buoni segnali da crowdfunding e angels
Buoni segnali provengono in parte dal crowdfunding, che cresce verticalmente tra millantato credito, overselling se non sospetti di truffe e scenari di ritorno poco chiari da quando si è aperto questo strumento di raccolta alle PMI: ora per il sottoscrittore non si sa più se si sta investendo ad alto rischio per potenziali multipli elevati, o se a rischio moderato per avere dei dividendi. Ma, peggio della confusione il fatto che nessuno controlla che i valori di premoney abbiano una ratio, che le informazioni dichiarate dalle imprese siano reali, così come nessuno approfondisce se le somme che si cercano siano quelle davvero necessarie all’espletamento dei progetti e non semplicemente delle somme plausibilmente raggiungibili con un po’ di marketing. La sensazione è che le piattaforme spingano per chiudere il maggior numero possibile di operazioni per incassare le commissioni sulla raccolta, abdicando a qualsiasi controllo che non sia meramente formale. CONSOB, nonostante il suo nome sia sempre invocato per far sentire garantiti gli investitori retail circa una presunta vigilanza, è la grande assente dalla scena cadendo nel solito e diffuso vizio italico di regolare in modo rigido e giammai controllare.
Anche gli angels si fanno più numerosi: nel 2019 nascono nuovi gruppi più o meno formali in cui spesso ci sono dei “veri” angels che operano con cognizione di causa essendo stati in precedenza dei founder di startup che hanno raccolto fondi dai privati. È un segnale di maturità interessante del mercato, seppur minato da sacche di disinformazione e pratiche negative che si traducono nell’applicazione di modelli di valutazione da impresa tradizionale e condizioni di investimento vessatorie. Peccato per la scomparsa dai radar dell’attuazione della norma che determinava l’istituzione del Registro dei Business Angels: in Banca d’Italia ritengono che la categoria sia fatta da “scappati di casa” della finanza e comunque non sanno minimamente come approcciare il punto dei requisiti per creare questo registro, quindi il registro va nel limbo. Studiare come risolvono la cosa in posti con una pluridecennale esperienza come gli USA o Israele sembra troppo difficile.
Chi sembra andare sempre peggio sono alcuni dei VC “storici” del paese: a partire da quelli che cercano di svendere potenziali unicorni per un piatto di lenticchie pur di tentare di dichiarare l’exit, per passare da quelli che non riescono a chiudere i nuovi fondi, fino ad arrivare a quelli che proseguono a posizionarsi sullo stadio growth dove non si rischia molto e si lavora poco. Peccato che se nessuno alimenta l’early stage poi non si trovino i progetti growth su cui investire, ma tanto le management fee nel frattempo le si intasca.
Questo per non infierire su quei VC che investono solo su startup indicate dai sottoscrittori dei fondi stessi: anche quello di cantarsela e suonarsela in “giri” che si lavano la mano gli uni con gli altri è un vizio italiano storico.
Buone notizie dai nuovi gestori di venture capital
Buoni segnali arrivano poi da quei nuovi gestori di VC e club deal che iniziano ad affacciarsi per cogliere l’opportunità dell’early stage: questi team potranno colmare il buco di mercato incoscientemente aperto dai fondi che erano già presenti e che si sono spostati su un arroccamento difensivo credendo che fosse il modo per accrescere la dimensione dei fondi, senza fare niente per uscire dalla loro mentalità da piccolo private equity. I nuovi VC early stage italiani lavoreranno direttamente come partner locali per il crescente numero di fondi nordeuropei e statunitensi che guardano al nostro paese.
Incoraggianti anche le voci su alcune corporate che iniziano a svegliarsi e comprendere che fare “startup competition” è un modo per pagare consulenze di comunicazione ma non certo per fare open innovation in modo efficace per rimanere competitivi. Si sente parlare di Corporate Venture Capital e Corporate Accelerators in modo crescente.
I segnali negativi
Un elemento di cui preoccuparsi invece è la accresciuta rarefazione degli acceleratori, quelli veri, affiancata al numero di società di vendita di consulenza o di formazione che tentano di qualificarsi come tali abusando dei termini e promuovendosi in ogni dove. Gli approfittatori di nuovi ed ingenui imprenditori esistono ovunque, perfino in Silicon Valley, ma coesistono insieme ad operatori seri. Qui da noi invece si fatica a identificarne, in mezzo ai troppi millantatori. E i pochi che operano continuano ad imporre condizioni e term sheet che tengono ben lontana la probabilità che poi arrivino investitori internazionali. A questo punto, vedendo come l’Italia è incapace di autoregolarsi, è auspicabile un qualche genere di intervento normativo che regolamenti l’uso di alcuni termini, ed introduca dei contratti tipici.
Altro segnale inquietante è CDP, che rimane in confusione – come molti altri operatori finanziari di provenienza banking – nel non saper distinguere tra private equity e venture capital. E soprattutto ha il buio assoluto sulla struttura della filiera del venture business, su come sia organizzata e su quali logiche opera, su tutto quello che esiste prima di arrivare al taglio di investimento che le è comprensibile. Tutto quello che si sa/pensa all’interno di quello che dovrebbe essere il motore finanziario del settore è che sarebbe opportuno fare qualcosa con gli acceleratori: qualcosa di sviluppato sulla base di una strategia vendutagli da una big consulting anni fa, ma attuato senza che nessuno sia minimamente in grado di distinguere cosa sia un acceleratore, e quindi riducendosi a convocare riunioni tra quelli che più o meno sembrerebbero inquadrabili come tali, sono visibili a livello nazionale e ben relazionati politicamente, per chiedere a loro come aiutarli. Proprio un buon modo per creare mercato
La Regione Lazio best practice italiana
La sorpresa positiva dell’anno è l’emersione della Regione Lazio come best practice italiana nell’allocazione di fondi pubblici verso le startup: sebbene ci sia ancora molto da fare per migliorare il sistema in costruzione, ma le misure gestite da Lazio Innova – che fa in piccolo e su scala locale quello che dovrebbe fare FNI sul piano nazionaled– fanno scuola.
L’anno si conclude con notizie poco incoraggianti: a parte la vicenda del teatrino delle nomine del CDA di FNI, dal Ministero dello Sviluppo Economico si viene a sapere che la misura dell’incremento del credito fiscale al 40% per gli investitori in startup non è mai stata notificata a Bruxelles. La motivazione fornita è che la misura sarebbe contraria alle norme comunitarie, e quindi si è ritenuto di non procedere. Ora, che il Ministero decida di non procedere con l’attuazione di una legge votata dal Parlamento è già un fatto surrettizio gravissimo, peraltro con un pretesto non vero perché in altri paesi UE il bonus fiscale è anche superiore. Ma il problema vero è che si dice che la motivazione addotta pubblicamente sia anche una plateale scusa, e che la notifica non sia stata fatta semplicemente perché sarebbe andato in pensione il dirigente che si occupa delle notifiche alla UE, non sostituito per tempo. Attendiamo di saperne di più, perché non si possono prendere in giro gli investitori in questo modo.
Per ora è più adeguato sorvolare sugli annunci circa il “diritto ad innovare” e sul programma Made.it fatti dal Ministro per l’Innovazione Paola Pisano, prima di tutto perché non si sa niente di dettaglio su questi progetti al di là del pochissimo che se ne è detto su come dovrebbero funzionare, e soprattutto perchè non si sa ci sia accordo sulla proposta da parte del Ministro per lo Sviluppo Economico visto che per ora tace nonostante sia il vero “proprietario” delle deleghe su imprese e l’economia. Ad ora la spiacevole impressione, sperando che sia sbagliata, è che dopo anni in cui le grandi aziende facevano marketing sulle startup, ora sia il turno del Governo.
La lezione del Presidente Mattarella
La notizia migliore del 2019 per le startup arriva dall’attivismo ed interessamento di Sergio Mattarella, il Presidente della Repubblica che a sorpresa in autunno si era recato in Silicon Valley e che ha riportato nel messaggio di fine anno la lezione appresa: il mondo evolve, il futuro non è eludibile e il benessere si costruisce anticipandolo e cavalcandolo anziché cercando di prolungare la vita degli schemi e dei modelli di riferimento del passato. Il discorso del Presidente è stato un inno al coraggio, al guardare al futuro, ai giovani, al cambiamento, al potenziale del paese, come mai si era sentito prima.
Ha parlato così agli italiani perché la politica capisse? C’è da augurarselo, come c’è da augurarsi che negli ultimi due anni di settennato almeno lui vigili ed operi per ispirare il potere legislativo ad operare un vero cambiamento, affinché l’Italia divenga quel luogo favorevole verso la libera iniziativa, l’innovazione, la concretizzazione delle visioni trasformative verso il miglioramento del mondo, e che ritorni quindi ad essere quel faro di civiltà che è già stato nella storia.
Il 2019 in conclusione è stato un anno che si è rivelato di annunci senza seguito. “Molto rumore per nulla”, se volessimo usare il titolo di una commedia per rappresentarlo: dodici mesi di fumo, di demagogia, di scontri sotterranei, di protagonismi senza protagonisti e senza fatti, di molte parole vuote, di gattopardismo, ma almeno con il lato positivo di accresciuta attenzione verso un tema di cui si parla maggiormente, cosa che potrebbe preludere al darsi da fare sul serio: il problema dell’ecosistema startup del paese continua a soggiacere nella inadeguatezza del quadro regolatorio, nell’assenza di cultura di venture business a troppi livelli, negli sbarramenti tra settori contigui. Solo la politica può risolvere la situazione, intervenendo sulla semplificazione delle regole, sugli incentivi verso schemi virtuosi, sull’imporre agli stakeholder di adottare – studiandole – le metodologie internazionali.
Per il 2020 facciamo il tifo per il ruolo del Quirinale e per colui che vien da appellare come Presidente del Futuro, che sembra l’unico nei palazzi ad avere le idee chiare, perché si faccia sentire nuovamente dal Colle più alto.