CULTURA DIGITALE

Da Instagram a TikTok, l’attimo fuggente dei figli di Orazio

I social più amati dalle nuove generazioni riaffermano il primato del tempo come categoria esistenziale, filosofica, semantica. Facendo emergere, dalle “storie” destinate a scomparire nell’arco di una giornata, la forza del logos

Pubblicato il 28 Mag 2020

Roberto Pozzetti

Psicoanalista, Professore a contratto LUDeS Campus Lugano, Professore a contratto Università dell'Insubria, autore del libro 'Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali', già referente per la provincia di Como dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia

selfie - dismorfia digitale

Lancia un segnale importante, la brevissima vita delle “storie” pubblicate sui social (da Instagram a TikTok). Non solo per interpretare il pensiero delle nuovissime generazioni che le producono, ma anche per rileggere quanto filosofia, letteratura e psicanalisi hanno elaborato sul concetto del tempo. Ecco un percorso possibile, dentro e fuori la cultura digitale.

Da Snapchat a Instagram (e gli altri)

«Perché un domani non ci sarà, come le storie su Instagram»: questo il refrain di uno dei tormentoni dell’estate 2018, cantato da Annalisa, affiancata dal rapper Mr Rain, nel brano Un domani, estratto dal suo sesto album Bye Bye. Era accompagnato da un video, nel quale entrambi gli artisti vestivano completamente in bianco, che ha spopolato su Internet e oggi fa registrare oltre 41 milioni di visualizzazioni su YouTube.

E’ forse superfluo spiegare di cosa parla questo ritornello: le stories pubblicate, tanto su social network come Instagram e Facebook quanto su canali di messaggistica come Whatsapp, non hanno un domani poiché rimangono visualizzabili esattamente per un giorno. Allo scadere delle 24 ore, scompaiono definitivamente e inesorabilmente, a meno che le si aggiunga alle storie in evidenza, come non pochi hanno la consuetudine di fare su Instagram. Si tratta di istantanee relative a svariate situazioni oppure di brevi video della durata di pochi secondi. Vanno dai paesaggi di luoghi di villeggiatura alle immagini di momenti festosi, dai selfie ammiccanti a istanti di armoniosa vita familiare, da attimi relativi a baci appassionati a ritratti di cene conviviali, da schegge di brani musicali a spezzoni di film, da fotografie di copertine di libri a frammenti di una conferenza e ad altro ancora.

Le stories sono un metodo di comunicazione inventato da Snapchat, uno fra i social network che ha maggiore presa sugli adolescenti mentre è meno conosciuto e apprezzato dagli adulti. Le hanno introdotte nel mese di ottobre 2013 Evan Spiegel e Bobby Murphy, dopo aver esonerato dal trio dei fondatori iniziali il loro compagno di università a Stanford, Reggie Brown. I teenager le gradivano per l’occasione di far vedere queste stories soltanto a una ristretta cerchia di amici, senza inviare video o immagini che sarebbero stati divulgabili e senza neppure diffondere post sulle proprie bacheche con il rischio di renderle visibili ai propri genitori.

Pubblicare delle foto e dei brevissimi video per un tempo limitato, senza dare alla fotografia una caratteristica duratura, ha avuto molti riscontri favorevoli rendendo Snapchat un social dal trend positivo. Molti credevano persino sarebbe divenuto il social del futuro ma tale previsione non si è dimostrata azzeccata, dal momento che quanto escogitato è stato poi implementato anche da Instagram e ormai da Facebook i quali proseguono nel loro esponenziale radicamento.

Gli “attimi fuggenti” catturati da TikTok

Snapchat ha inoltre trovato un temibile concorrente, quanto al mercato dei millennials, con l’emergere nel 2017 del nuovo social di origine cinese, TikTok, che si basa sulla pubblicazione di clip musicali di 15 secondi. Anche Tik Tok, fondato da Alex Zhu e Luyu Yang dopo lo scarso successo di un proprio precedente social network dagli obiettivi educativi, punta dunque su un tempo rapido, fulmineo. Lo stesso termine onomatopeico Tik Tok sembra indicare un rapporto celere con il tempo, dato che ricorda il suono incalzante delle lancette di un orologio non digitale.

Come agiscono e perché ci incuriosiscono le stories? Qual è la loro evidente efficacia che tiene molte persone a lungo dinanzi agli schermi dei computer e dei propri smartphone? Cosa ci attrae in queste storie?

In generale, nel nostro consesso sociale, si tende non senza un certo moralismo a elevare l’onorabilità del tempo come durata. Si ricordi quello descritto dalla filosofia di Bergson il quale criticava il tempo della fisica che ogni volta misura in forma verificabile e riproducibile i secondi occorrenti allo sciogliersi di una zolletta di zucchero in una tazzina di latte, lasciando insoluto il problema del rapporto soggettivo e singolare con il tempo.

Ecco la questione del tempo vissuto, descritta in un celebre libro omonimo dallo psichiatra di orientamento fenomenologico Eugene Minkowski, nato a San Pietroburgo e stabilitosi, dopo vari spostamenti, in quel di Parigi ove diede alle stampe la suddetta opera – Il tempo vissuto – nel 1933. Minkowski riconobbe Bergson come uno dei filosofi cui era maggiormente debitore per lo sviluppo delle proprie elaborazioni, anzitutto a proposito del concetto cruciale del vissuto. Se siamo allegri e gioiosi, quando giochiamo e ci divertiamo, ci sembra che il tempo trascorra molto rapidamente tanto da svanire con nostro rammarico.

Quando, invece, siamo immersi in un momento di noia o in una fase di tedio esistenziale, di taedium vitae, oppure e in forma ancor maggiormente palese quando avvertiamo un lancinante dolore, anche cinque minuti ci sembrano un periodo biblico, anche un breve lasso di tempo ci pare eterno e interminabile. Non vediamo l’ora di sottrarci a tale situazione annoiante o tediante, di mettere fine a quel dolore o quantomeno di giungere a lenirlo. Ogni essere umano affronta, infatti, il compito esistenziale di attenuare il dolore e di ridurre gli attimi nei quali avverte percezioni dolorose.

Secondo Minkowski, il tempo va a configurare le caratteristiche di ciascun vissuto. Per molti psichiatri e psicopatologi di area esistenziale e fenomenologica, il tempo costituisce infatti la struttura esperienziale originaria. A fianco al tempo, si trova lo spazio quale struttura a priori della conoscenza; assume rilevanza pari a quella del tempo, anche secondo la filosofia di Kant.

Le stesse condizioni psicopatologiche, in questo orizzonte culturale, vengono appercepite grazie al tempo. Risulta, per esempio, in effetti del tutto condivisibile la prospettiva clinica secondo la quale condurre la propria esistenza avendo come prospettiva il tempo futuro suscita ansia mentre vivere centrandosi sul tempo passato, con o senza nostalgia, con o senza senso di colpa, determina un effetto di tristezza e di depressione. Anche secondo la psicoanalisi lacaniana, alla quale mi riferisco in via principale nella conduzione delle cure, il tempo fa sintomo.

Giusto per riportare alcune fra le varie figure cliniche del tempo come sintomo, incontriamo il disorientamento nel tempo oltre che nello spazio, il non riuscire a situare un avvenimento nel tempo attribuendogli una data precisa, la confusione fra quanto avviene prima e quanto avviene dopo che caratterizza non di rado bambini cosiddetti autistici, il tempo della paura, il tempo di una certa attesa, il tempo nel quale ci si annoia, il tempo che si spera finisca ben presto, il tempo del dolore. Potremmo continuare elencandone svariati esempi.

Di solito, per coloro che si pongono con un atteggiamento austero, sarebbe prioritario il tempo del progetto à la Heidegger nel quale l’essere umano, nato nel mondo ove il destino lo scaraventa e lo getta, giunge con autenticità a costruire un futuro dal tempo duraturo nel quale si progetta. Uno sguardo moralistico si abbatte spesso su coloro che vivono il piacere dell’evento, puntando alla giocosità, al divertimento, senza preoccuparsi di una solida progettazione del futuro. Tale sguardo giudicante pare particolarmente inclemente e impietoso nei confronti dei giovani che sarebbero privi di un desiderio, carenti quanto alla passione e perciò volti al tempo della quotidianità gaudente.

Perché le stories attirano i giovani (ma non solo)

Senz’ombra di dubbio, sono in effetti proprio i giovani a fruire maggiormente di queste rapide stories sui social. Ben altra consistenza avrebbe il tempo di un progetto portato avanti con continuità, come quello del legame matrimoniale, imperniato sulla promessa del restare insieme fino a quando non sia la morte a separare i coniugi mettendo la parola fine sulla loro esistenza terrena.

Credo che la dinamica delle stories si focalizzi bene approcciandole a partire dal tempo evento. Un tempo, quello del tempo evento, che riveste una certa rilevanza anche per la psicoanalisi. Vi è anzitutto il tempo del carpe diem, insegnatoci dai latini. Come è noto, il poeta latino Orazio scriveva il verso: “Carpe diem, quam minimum querula postero”. Viene tradotto con “afferra la giornata, cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani”. Orazio propone un’impostazione filosofica che si situa nel solco dell’epicureismo volto a lenire il dolore dell’esistenza. Provare piacere consiste innanzitutto nel ridurre le tensioni e nell’attenuare il dolore. Del resto, ricordiamo bene la frase per certi versi analoga fugit irreparabile tempus, studiata al liceo e tratta dalle Georgiche di Virgilio. La si ritrova in un romanzo appassionante e tuttora attuale come Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll.

La lezione dello sguardo di Freud

Quanto alle stories, ci troviamo dunque dinanzi a due forme contrapposte dello sguardo. Già Freud aveva incluso lo sguardo fra gli oggetti pulsionali e la pulsione scopica, configurata sull’osservare e il venire osservati, fra le forme della pulsione. La coppia voyeur – esibizionista ne costituisce l’esempio emblematico. Da una certa prospettiva, sovente quella adulta, scorgiamo lo sguardo giudicante di chi critica i social e il mondo digitale in nome del tempo della durata.

Da un secondo punto di vista, comune fra adolescenti e giovani, riscontriamo da parte di coloro che hanno la consuetudine di pubblicare stories non senza una dose di esibizionismo, un frequente appello allo sguardo altrui che si caratterizza anzitutto come un appello ludico, scherzoso, a volte finanche esageratamente volto a celare la sofferenza. Lo sguardo risulta in effetti palesemente in gioco in questi rapidi eventi descritti nelle stories pubblicate sui social, con fotografie, con video di breve durata o con  screenshot di post significativi. Sguardo da intendere sempre quale sguardo altrui, come ha ampiamente scritto Sartre nella sua celebre e complessa opera L’essere e il nulla. L’essere visto da altri è, per Sartre, la verità del vedere altri.

Abbiamo inoltre due parametri quanto allo sguardo altrui convocato dalle stories: il numero complessivo di visualizzazioni o reazioni quali il like oppure il cuoricino del love, per un verso; la visualizzazione o la reazione di una persona ben precisa, per un secondo verso. Risulta gratificante quando le proprie stories suscitano molteplici visualizzazioni e parecchie reazioni di apprezzamento; risulta ancor più soddisfacente, quanto all’umano desiderio di riconoscimento tanto ben descritto da Hegel, un unico contatto che suscita interesse e attrazione quando visualizza ed eventualmente reagisce a quello che viene pubblicato.

Lo sguardo sui social ha una misura: il numero di coloro che visualizzano quanto viene presentato; questo dato permette di passare da un frequente vissuto di angoscia nei confronti di uno sguardo altrui evanescente e non localizzabile a uno sguardo quantificabile nelle specie del numero e del tipo di utenti dei social che visualizzano le proprie stories. Usufruire delle statistiche di Instagram o di Facebook si dimostra in questo davvero paradigmatico.

Le storie delle app sul lettino

Lo sguardo si dimostra, tuttavia, spesso tutt’altro che anonimo. Molti pazienti ci raccontano di come pubblichino delle stories per suscitare una reazione in chi verosimilmente le visualizzerà; le pubblicano spesso per qualcuno cui sono legati affettivamente oppure per un precedente partner del quale si sentono ancora innamorati. Come il tatuaggio, le stories fanno segno e rappresentano qualcosa per qualcuno. Diverse ragazze vi ricorrono in termini provocatori, volti a instillare una reazione di desiderio, di rabbia, di gelosia, di eccitazione in un determinato ragazzo. Non si tratta, dunque, soltanto della dimensione quantitativa delle visualizzazioni vale a dire del loro numero ma anche e, spesso, soprattutto della dimensione qualitativa ovvero la visualizzazione di un ragazzo amato e desiderato vale più di centinaia di visualizzazioni di followers sconosciuti.

A proposito del tempo, la psicoanalisi distingue il tempo cronologico e il tempo logico. I greci differenziavano a loro volta Kronos e Aion. Un libro di Jung ha per titolo proprio Aion e, soprattutto, il filosofo francese Gilles Deleuze sviluppa questa differenza, a proposito del Lewis Carroll di Alice nel paese delle meraviglie e del suo sequel Alice attraverso lo specchio, in uno dei suoi libri maggiormente interessanti denominato Logica del senso. Lo scrive qualche anno dopo la celebre intervista di Lacan alla radio pubblica francese, risalente all’ultimo giorno dell’anno 1966, il 31 dicembre 1966, circa la figura di Lewis Carroll.

Quello di Alice rimane il tempo di Kronos, riscontrabile anche nella frenesia dello stesso Bianconiglio il quale teme sempre di essere in ritardo, e procede secondo una successione comune a differenza del tempo del Cappellaio Matto che resta eternizzato sulle cinque del pomeriggio, ora della degustazione del tè secondo la tradizione inglese. Per il Cappellaio Matto, esistono soltanto passato e futuro ovvero si riscontra continuamente il tempo in cui si beve il tè e nel quale lo si sta per bere ancora. Non esiste neppure il tempo per lavare le tazzine del tè in quanto siamo di nuovo nel momento di berlo per una ennesima volta. Celebre rimane la conversazione fra Alice e White Rabbit, nella quale Alice domanda: “Per quanto tempo è per sempre?” e il Bianconiglio risponde: “A volte, soltanto per un secondo”. Vi sarebbe una spinta vitale in Aion, non senza nessi con lo slancio vitale situato al cuore dei lavori di Bergson.

Cosa rappresenta il tempo in Lewis Carroll

Per approfondimenti sulla questione del tempo e della logica in Lewis Carroll, consiglio gli atti di un convegno internazionale dedicato a Lewis Carroll e svolto una quindicina di anni or sono nella nota Università di Rennes, la città universitaria più ampia del nord della Francia dopo Parigi, a cura di Sophie Marret Maleval, attuale direttrice del Dipartimento di Psicoanalisi nel contesto universitario di Parigi 8 che ha come titolo Lewis Carroll et les mythologies de l’enfance. Della stessa autrice, suggerisco il volume Lewis Carroll. De l’autre coté de la logique. Entrambi i lavori non sono purtroppo ancora tradotti in italiano.

Questo argomento relativo alla differenza fra tempo cronologico e tempo logico risulta cruciale nella pratica della cura analitica. Secondo una certa ortodossia propria del metodo proposto circa un secolo fa dallo psicoanalista Max Eitington, direttore del Policlinico psicoanalitico di Berlino che era volto a rendere fruibile a tutti la psicoanalisi, le sedute dovrebbero durare 45 minuti. La più ampia organizzazione analitica al mondo, detta International Psychoanalytical Association, fondata direttamente da Freud, si basa tuttora su questo standard, permettendo eventualmente di accorciare lievemente il tempo della seduta, sino a 40 minuti.

Lo psicoanalista Jacques Lacan ha mostrato, invece, la funzione del tempo come lampo. Al posto del tempo della procrastinazione, abbiamo il tempo relativo al compiere un atto. Atto che accade nella fretta, senza perdersi nei propri pensieri, senza meditare troppo, senza rimuginare. Tempo accostabile a quello del Kairos. Se Kronos costituisce il tempo quantitativo, Kairos costituisce il tempo qualitativo.

La psicoanalisi lacaniana si basa soprattutto sul tempo qualitativo, sul tempo specifico di un evento, di un istante, nel quale avviene un peculiare atto. La conclusione della seduta, anziché avvenire sulla scorta del timing di 45 minuti, viene decisa dallo psicoanalista attraverso il taglio, che costituisce una ben ponderata interpunzione, fondato su quanto il paziente afferma in quell’incontro. Se una seduta si concludesse quando suona la campanella, come fosse una lezione svolta al liceo, andrebbe a interrompere il discorso del paziente. Impedirebbe al paziente di giungere a un punto significativo ed essenziale.

L’analisi lacaniana si impernia sul tempo logico, sul tempo del logos, il tempo della parola detta in seduta, il tempo del linguaggio. Attenersi al tempo standard e prestabilito porterà sovente gli appuntamenti a riempirsi di orpelli e fronzoli. Al contrario, il linguaggio stesso è un taglio; taglio che la durata prestabilita di una seduta stenta a far emergere. Noi siamo tagliati, divisi, dal campo del linguaggio e senza questo taglio mancherebbero le condizioni per accedere al desiderio. La seduta di tempo variabile, tendenzialmente breve, punta a suscitare degli interrogativi che andrebbero sviscerati nel lasso di tempo che intercorre fra un appuntamento e quello successivo. Per questa ragione, il paziente al lavoro in analisi viene descritto da Lacan come analizzante al posto di analizzato per sottolinearne il ruolo attivo nella pratica della psicoanalisi stessa. Porre termine alla seduta con la rapidità di un lampo tende a sorprendere il soggetto e ad attivare la spinta pulsionale e il moto di desiderio verso l’oggetto da sempre perduto.

Per questo, se sospendiamo il giudizio con una sorta di epochè, il tempo delle stories ci insegna qualcosa di prezioso circa la dialettica del desiderio e il funzionamento della pulsione scopica. Accantonando una quota parte di moralismo, vi scoviamo quanto sia capitale lo sguardo nella formazione del desiderio umano che è sempre desiderio dell’Altro, desiderio di trovarsi sotto lo sguardo dell’Altro. Nel tempo circoscritto delle stories, si svela un tempo destinato a svanire per gli altri ma a restare fondamentale per il soggetto il quale ne conserva la memoria nella propria mente e persino la traccia nei propri dispositivi digitali. Nella brevità del tempo delle stories, c’è qualcosa di quel taglio che spinge a giungere all’essenziale. A farsi essenziale. Vi è il taglio che mette alla luce il desiderio. Nel tempo incalzante delle stories, c’è il tempo del desiderio.

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