l'appunto

Cultura digitale, quante lacune nella PA: che fare

Il primo salto culturale, per fare dell’Italia un paese digitale, deve farlo chi guida il paese che deve convincersi che la trasformazione è già avvenuta e deve capirne dinamiche, opportunità ed i rischi, trovando un approccio culturale realmente adeguato. Dopo 20 anni di insuccessi, è l’unica alternativa possibile

Pubblicato il 25 Feb 2020

Sergio Sette

consulente informatico e digital trasformation

cultura del lavoro

Prima di attivare piani e strategie formative per la diffusione della cultura digitale sarebbe bene avere chiaro cosa si intende per cultura digitale e quali gli obiettivi che si vogliono raggiungere.

Ogni volta che in Italia si parla di digitale, ogni nuovo Ministro competente, ogni Commissario Straordinario che si insedia, a fronte dell’ennesimo insuccesso che ci relega in fondo a qualche classifica, riparte infatti la solita tiritera sulla formazione e sulla cultura digitale (che non c’è). Che, manco a dirlo, è l’unica cosa detta sul digitale che riscuote il consenso assoluto e trasversale fra esperti e dotti commentatori.

La cosa è ormai diventata da tempo stucchevole e nemmeno dopo oltre tre lustri in cui si sono scritti fiumi sull’argomento e investite ingenti risorse, senza per altro ottenere risultati apprezzabili, come impietosamente tutte le classifiche si ostinano a dimostrarci, nessuno sembra porsi delle domande.

Perché, se dopo 15 anni dall’emanazione del Codice dell’Amministrazione Digitale, la situazione è quella che giornalmente constatiamo, allora può significare una cosa sola: o che la formazione fatta è stata inutile, e quindi mal concepita, mal realizzata, fuori target, oppure che il problema non sta lì. O almeno, non solo lì.

E che forse è giunto il momento per chi opera nel settore di fare un po’ di auto-analisi e magari correggere il tiro.

Dove è davvero assente la cultura digitale

Come spesso accade, le considerazioni dei “profani” sono quelle che si rivelano illuminanti. Un po’ di tempo fa un tweet di Luca Bizzarri (co-conduttore de “Le Iene”) ha attirato la mia attenzione:

Immagine che contiene screenshot Descrizione generata automaticamente

Rappresenta una foto abbastanza eloquente di quale sia realmente la situazione nel nostro paese. E mostra senza equivoci dove la cultura digitale è davvero assente.

Non fra i cittadini che ormai, anche fra i non “millenials” (mio padre 90enne usa regolarmente home banking, WhatsApp e ogni sorta di servizio digitale), hanno abbondantemente metabolizzato gli strumenti digitali e, laddove li trovino utili e/o convenienti (aspetto questo che dovrebbe far riflettere chi disegna/progetta i servizi digitali della PA e non capisce perché non hanno presa fra i cittadini), li utilizzano senza problemi.

Probabilmente nemmeno fra  i famigerati impiegati della Motorizzazione, che se dotati di un sistema digitale decente per gestire il rilascio della patente, si troverebbero con cose più interessanti da fare.

La cultura è assente principalmente fra coloro che non sono in grado di adeguare procedure e strumenti ad un mondo che è già pienamente digitale. E si ostinano a riproporre i vecchi schemi cercando di forzare il digitale ad uniformarsi a questi. Pensando, ed è questo il dramma più grande, di essere i “driver” dell’innovazione.

Cosa si intende per cultura digitale

Ad oggi, almeno a vedere da quello che si propone negli interventi formativi, per cultura digitale si intende fondamentalmente la conoscenza del codice dell’amministrazione digitale (il CAD) e l’utilizzo di alcuni strumenti operativi come la firma digitale o la PEC. Oppure approcci formativi complessi, interdisciplinari, adatti al più ad una ristretta “elite” culturale.

Io credo che sarebbe bene innanzi tutto spostarsi ad un livello più alto.

Cultura digitale è fondamentalmente conoscere e comprendere il fenomeno sociale rappresentato da internet e tutti i device che vi si connettono e che ha operato una profonda quanto incredibilmente rapida trasformazione nella società. Capendo che al pari di altri fenomeni analoghi del passato, quali ad esempio la rivoluzione industriale o la globalizzazione, possono al più essere regolamentati o nella migliore delle ipotesi parzialmente gestiti.

Nel digitale poi c’è un problema aggiuntivo, rappresentato dall’elevato ed intrinseco tasso di mutabilità, soprattutto tecnologica, che mette in decisa crisi ogni intervento di tipo regolatore, specie in un sistema giuridico come il nostro che tende ad essere estremamente pervasivo ma altrettanto lento. I tempi di queste due entità sono incompatibili e non credo sia nemmeno lontanamente ipotizzabile né un rallentamento del primo, tanto meno una velocizzazione del secondo.

Va quindi cambiata radicalmente strategia e per farlo è necessario che il primo salto culturale avvenga proprio a livello di chi guida il paese e di chi ne scrive le norme. Che deve convincersi che la trasformazione digitale è già avvenuta e deve quindi capirne le dinamiche, le complessità, le opportunità ed i rischi, trovando un approccio, culturale, realmente adeguato.

Magari prendendo spunto da qualche esempio che va nella direzione giusta come ad esempio, sebbene anche loro non indenni da pecche, eIdas e GDPR, in contrapposizione alla loro “implementazione” italiana.

Mi rendo conto che si tratta di un discorso meramente teorico e dotato di una certa dose di utopia, ma dopo quasi 20 anni di insuccessi, è necessario prendere atto che rimane l’unica alternativa possibile.

Pena il continuare a sbattere la faccia, sempre con maggior forza, contro lo stesso muro.

Quale formazione, nell’attesa del “New Deal” digitale

Forse è più facile dire cosa non fare, visto che ne abbiamo provate tante e che hanno tutte più o meno miseramente fallito. Lo stanno a dimostrare non solo i fatti ma anche quello che emerge da diversi studi, primo fra tutti quello di ForumPA (l’interessante “Burocrazia difensiva, come ne usciamo?” del 2017) dove i dipendenti pubblici intervistati si dichiarano in larga parte insoddisfatti del tipo di formazione ricevuta sia in termini di quantità ma soprattutto di contenuti.

Il primo errore è quello di presentare il digitale come qualcosa di complicatissimo e spesso anche rischiosissimo (specie i giuristi). Non vuol dire che si debba banalizzare, ma semplicemente spiegare quello che è necessario al tipo di attività che si svolge. D’altronde quando guidate un’auto vi viene richiesta sì una patente che attesti che siete in grado di farlo, ma non vi viene chiesta approfondita conoscenza della termodinamica. Non si vede perché per usare un computer o un software la cosa debba essere differente. Anzi, laddove lo fosse, ciò dovrebbe far suonare un campanello di allarme, perché se una tecnologia non riesce a nascondere le sue complessità all’utenza è destinata a non essere accettata (che è proprio quello che avviene nel caso del digitale nella PA).

Spesso questa complessità è anche dettata da errori di indirizzo: basta pensare al caso RTD, un novello Leonardo Da Vinci digitale, onnisciente e onnipotente. Quale formazione organizzare per una figura del genere?

Un altro approccio tentato, con buona profusione di battage pubblicitario, è quello dei “digital champions”. Non me ne voglia Riccardo Luna ma in alcuni momenti, specie per chi era dentro la PA a lottare giornalmente con problemi di ogni tipo, vedere queste iniziative era più che altro fonte di sconforto e in alcuni casi infastidiva pure. L’idea di stampo Usa, che si accoppia con quella di “evangelizzazione” non ha sortito i risultati attesi anche perché è inutile puntare sui campioni quando mancano del tutto i fondamentali. Ma è la stessa idea di evangelizzazione che in questo contesto non pare calzante. E comunque evangelizzazione e formazione non sono la stessa cosa.

Anche i grandi eventi (fiere e convention) su cui si è molto puntato, hanno una limitata valenza formativa. D’altronde il loro scopo non è quello.

Ma i problemi più gravi sono legati alla disorganicità degli interventi formativi. Tipicamente le amministrazioni organizzano corsi in modo estemporaneo, senza un progetto formativo coerente. Così si va a fare “un corso CAD”, scelto a caso su qualche catalogo. Magari con ottimi docenti, preparatissimi. Ma necessariamente generici, di taglio teorico e quasi esclusivamente giuridico. Con contenuti quasi mai concordati con l’Ente. Spesso la stessa amministrazione poi fa seguire corsi con relatori diversi (che hanno visioni differenti) a persone diverse, aumentando ancora di più la confusione e perdendo un valore aggiunto importantissimo quanto misconosciuto della formazione: fornire un indirizzo, un imprinting aziendale.

Spesso non differenziando per i diversi profili professionali. Ma, soprattutto, totalmente slegati da qualsiasi reale progetto di digitalizzazione all’interno dell’amministrazione. Così, in pochi giorni, dimenticati, sostanzialmente inutili.

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