La discriminazione di “anziani” all’interno dell’azienda rischia di compromettere un efficace trasferimento di competenze. Mettendo in pericolo il potenziale innovativo e una bilanciata strategia d’impresa nel processo di digital transformation. Un’analisi della situazione.
Lo scontro generazionale sul lavoro
“La gioventù è una condizione transitoria, non una qualità”. Se essere giovani fosse una qualità, essere maturi vorrebbe dire: sommare alla qualità acquisita essendo stati giovani i benefici dell’essere maturati raccogliendo esperienze, relazioni, conoscenze, conquiste e fallimenti. Il filosofo Sant’Agostino usava dire che invecchiare inizia sempre dall’essere giovani per definire l’età e il tempo, concetti culturali utili a dare forma e struttura al processo di crescita, sviluppo e invecchiamento.
Anche in un ambito ristretto quale il posto di lavoro, aggiungerei a questo punto. Partendo dalla considerazione che lo sviluppo biologico segue un percorso lineare costante, mentre quello sociale e professionale viene suddiviso in fasi culturalmente caratterizzate.
Ed è proprio nell’ambito lavorativo che assumono rilievo le diverse percezioni che le componenti di comunità complesse come quelle aziendali hanno di se stesse, finendo per attribuire ruoli sociali e creare gli stereotipi cui accennerò più avanti. Così che in modo più o meno evidente, l’invecchiamento fisico inevitabilmente s’intreccia, senza che necessariamente debba sussistere una relazione, con la posizione che la società ci assegna e con quella che ricopriamo nel nostro ambito lavorativo.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’avanzare degli anni cambi il nostro modo di misurarci con gli altri oltre a cambiare il nostro aspetto, ma quale significato assume la differenza di età nel mondo del lavoro? E quali conseguenze porta in seno? E poi, a ben guardare, chi è il giovane e chi il vecchio? La data di nascita scritta sul passaporto ha veramente senso? Il punto è che neppure il vocabolario può aiutarci, considerato che qualsiasi definizione di gioventù e di vecchiaia non può che prescindere dalla nostra personale percezione. Agli occhi di un ventenne appena entrato in azienda, anche un trentenne può apparire “superato”, mentre agli occhi di un teenager, non vi è grande differenza tra chiunque sia cresciuto prima dell’avvento degli smartphone, venticinquenne o cinquantenne che sia.
Innovazione e apporto degli anziani
Ho divagato sul tema con queste mie poche righe per parlare di quello che accade oggi, con sempre maggior frequenza, nel mondo del lavoro e in special modo nel modo dei lavori figli legittimi o putativi di una rivoluzione, quella digitale (di cui, per altro, viviamo appena gli esordi) e dei lavori che da essa traggono l’essenza della loro esistenza professionale.
Sebbene non riguardi in particolare il mondo della comunicazione digitale o quello delle forme moderne di mobilità sostenibile che, messe insieme, compongono la gran parte della mia odierna vita professionale, il tema della discriminazione legata all’età, all’interno delle aziende, è presente, attuale, complesso e di straordinario impatto.
Quello che percepiamo oggi nelle imprese digitali fortemente digitalizzate o dipendenti dalle nuove tecnologie e dalle informazioni che queste producono, è il sintomo di un irrigidimento complessivo dei comportamenti aziendali, di una rallentata (non viceversa) capacità di reazione a circostanze complesse che richiedono altrettanto complesse soluzioni, e di un generale impoverimento del patrimonio cognitivo di ogni impresa, spesso considerato obsoleto come le persone che hanno contribuito a crearlo.
Il punto è che si vanno via via consolidando nelle imprese stereotipi fortemente negativi relativamente ai lavoratori più datati, visti spesso come un ostacolo al cambiamento, come resistenti allo sviluppo tecnologico, refrattari all’adozione di nuove tecnologie, più costosi, ecc. e ciò avviene indipendentemente dal fatto che i lavoratori più anziani sono statisticamente in grado di gestire meglio le responsabilità aziendali, emotivamente più stabili e mediamente più coscienziosi nello svolgimento del proprio lavoro.
Age discrimination, le norme Usa
È proprio in funzione di questi stereotipi, e non dell’effettiva performance, che il rendimento di impiegati e manager più anziani viene talvolta considerato più basso della media quand’anche, spesso, risulti considerevolmente più alto.
Ne è causa, tra le principali, l’isolamento che le persone di maggior esperienza spesso patiscono a causa dei dipendenti più giovani che non comprendono quanto il bagaglio cognitivo che questi portano con sé, possa giovare loro e aiutarli a comprendere meglio la natura e soprattutto lo scopo del contributo loro richiesto dall’azienda.
Negli Stati Uniti, culla dell’evoluzione tecnologica e digitale, i lavoratori di più di 40 anni (40!) sono protetti da una specifica legislazione l’Age Discrimination in Employment Act, normativa efficace anche se recentemente mutilata dallo spostamento dell’onere della prova sull’impiegato discriminato e non, come inizialmente previsto, sull’azienda discriminante, circostanza che rende la discriminazione difficilmente accertabile. Efficace comunque per il suo effetto deterrente ma anche per l’impatto milionario che azioni legali, spesso promosse da gruppi di impiegati discriminati, hanno avuto su giganti tecnologici del calibro di Google e IBM.
Una forma di discriminazione strisciante, subdola e dolorosa quella legata all’avanzare dell’età all’interno delle aziende, che provoca conseguenze devastanti, non soltanto nelle persone che la subiscono ma anche e soprattutto all’interno delle aziende nella quale si manifestano che, oltre a rischiare, come abbiamo visto sopra, costose e penose azioni giudiziarie, rischiano di perdere il patrimonio di esperienza, capacità, affidabilità e pragmatismo caratteristico dei dipendenti più anziani.
Rischio questo, esponenzialmente maggiore allorquando la discriminazione si manifesta ai vertici delle aziende dove l’inserimento di manager più giovani – sempre da considerarsi come un’esigenza imprescindibile per ogni impresa – può essere causa di effetti inversi a quelli che sarebbe lecito attendersi, qualora non si verifichi il progressivo e rispettoso trasferimento generazionale delle conoscenze e delle esperienze manageriali, tipico di un sano rapporto di collaborazione tra colleghi con bagaglio di esperienze sostanzialmente diverso.
Vision strategica della leaderhip
Uno stato di contrapposizione sostenuto da una concezione stereotipata del gap generazionale anziché di collaborazione sostenuto da una volontà di riempimento del gap culturale ed esperienziale, può rendere un’azienda incapace di muoversi sul mercato, al pari di un esercito senza armonia di comando sul campo di battaglia.
Per l’individuazione delle cause del fenomeno e per la sua successiva definizione, si può facilmente ricorrere a considerazioni sul piano educativo o culturale, facendo uso di aggettivazioni complesse e trattando quindi di presunzione, arroganza, mancanza di umiltà, carenza di senso logico, ecc. mentre è nella carenza di leadership dei vertici aziendali che deve essere più spesso ricercata l’origine di questa forma di discriminazione sul posto di lavoro. Carenza che si manifesta attraverso la conclamata incapacità di attribuire valore, anche gerarchico, al patrimonio esperienziale dei dipendenti e di indirizzare i più giovani assunti verso il suo rispetto.
Ma attenzione, non si tratta di un problema legato alla creazione di regole aziendali e alla loro più o meno corretta applicazione, bensì di un problema legato alla cultura dell’azienda e all’attitudine dei suoi leader. Non è infatti con un set di regole che si risolve il problema, sempre che l’azienda non voglia semplicemente mettere le mani avanti (e lavarsele…) in un tentativo che, se pur vano sul piano del contraddittorio giudiziario, riveste comunque una qualche utilità sul piano della comunicazione interna.
Codici di comportamento, regole di analisi del rischio di discriminazione e manuali gestione interna dei casi, presenti con sempre maggior frequenza, consentono di prevenire circostanze discriminatorie, anche in fase di colloquio di assunzione, ma non mettono al riparo l’azienda dall’eventuale incapacità relazionale dei suoi leader. Cos’altro serve quindi, per mettere al riparo noi, più anziani ma al contempo più giovani di altri e le nostre aziende indifese di fronte a una forma di discriminazione che solo oggi comincia ad essere riconosciuta tale?
Di cosa abbiamo bisogno dunque per evitare che il problema si aggravi con l’ingresso nel mondo del lavoro dei teenager di oggi e il rischio di dover abbassare a 30 o pochi più anni la soglia di protezione contro l’age discrimination? Di buon senso verrebbe da dire, qualità di cui però, chi è stato giovane sa di non avere (a suo tempo) mai abbondato.
L’approfondimento è contenuto nel libro “L’Italia che comunica in digitale”, edito da Bonanno Editore, realizzato dall’Osservatorio nazionale sulla Comunicazione Digitale https://www.pasocial.info/osservatorio-nazionale/