L'analisi

Indici di allerta per le imprese, ecco cosa prevede il codice della crisi

Il codice della crisi individua elementi di carattere economico, finanziario o patrimoniale capaci di dare evidenza della sostenibilità dei debiti: ecco quali sono

Pubblicato il 26 Feb 2020

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Il codice della crisi, riformato nel 2019, si basa su due pilastri per la prevenzione dell’insolvenza: gli strumenti di allerta, interni ed esterni, e gli obblighi organizzativi per contrastarla. Approfondiamo il tema degli indici di allerta, analizzando che cosa prevedono.

L’ottica forward looking e gli indicatori di crisi

La riforma del 2019 relativa alla crisi di impresa intende evidenziare un’emersione precoce dei casi di crisi aziendali. L’idea è “curare il raffreddore prima che diventi polmonite” e preservare il valore dei cespiti aziendali, intervenendo velocemente, per una tutela generale del sistema economico. Si ricorda infatti che ante riforma i fallimenti aziendali duravano in media sette anni e si chiudevano con tassi di recupero dei creditori vicini allo zero, e grandi danni per il sistema economico nel complesso sia per i costi giuridici connessi, sia per le perdite sopportate dagli altri operatori del sistema economico.

L’idea del legislatore è spostarsi sulla probabilità di default, ossia su aspetti predittivi, relativi al futuro, e statistici, in un’ottica – si dice – forward looking. Questo aspetto rappresenta un bel salto per la PMI italiana, abituata ad avere tutto il cruscotto predittivo nella persona dell’imprenditore e ad operate tramite procedure non formalizzate. Lo spostamento versa l’ottica forward looking è altresì un allineamento con l’ottica bancaria, settore nel quale la regolamentazione è già andata in questa direzione, spingendo le banche a dotarsi di strumenti predittivi, anche con l’aiuto delle AI e dell’analisi dei big data, fatti resi possibili anche dalla direttiva europea PSD2.

Ma come si fa a pervenire alla “probabilità di default”, mutuando di nuovo il concetto dalla teoria del rischio di credito? La norma individua degli “indicatori di crisi”: elementi di carattere economico, finanziario o patrimoniale che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno sei mesi successivi e delle prospettive di continuazione aziendale per l’esercizio in corso. Sono significativi, per la norma, quegli indici che misurano “la sostenibilità dell’indebitamento sui flussi di cassa che l’impresa è in grado di generare e l’adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli di terzi. Costituiscono altresì indicatori di crisi i ritardi nei pagamenti reiterati e significativi”. È stato attribuito al Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti il compito di elaborare ogni tre anni, indici puntuali, differenziati per settori economici di appartenenza, che possano far presumere uno stato di crisi. Il partner scientifico per l’analisi dei dati di bilancio è Cerved, che possiede i dati sui bilanci italiani.

Nelle volontà del legislatore, i sistemi di allerta non potevano basarsi su modelli di score o rating, pure ampiamente utilizzati nel settore finanziario, in quanto patrimonio privato delle società bancarie o di rating, ma piuttosto, affinché fossero nelle disponibilità di imprenditori, organi di controllo e sistema di giustizia civile, dovevano essere facilmente reperibili e basati su dati certi e ufficiali, pertanto sono state privilegiate le informazioni tratte dai bilanci. Si ricorda che non esiste un indicatore univoco di crisi, quindi occorre far riferimento alla capacità degli indicatori di prevedere l’insolvenza. Per una parte dei commentatori, la natura backward looking dei bilanci, che documentano fatti avvenuti mesi o anni prima, limita il potere predittivo, e si hanno dati molto più ampi e aggiornati in possesso dell’impresa internamente. Ma la certezza del dato ha prevalso nella scelta.

L’approccio sequenziale

Inoltre, in molti hanno evidenziato che gli indici di bilancio hanno un ruolo secondario, infatti la norma chiede un approccio “sequenziale”:

  • in primis si analizza il patrimonio netto, se negativo o sotto gli obblighi di legge, e per l’azienda che non lo ripiana è il primo segnale di stato di crisi;
  • in caso di patrimonio netto positivo, si guarda il DSCR (debt service coverage ratio, ossia i flussi di cassa generati dalla gestione corrente rapportati agli oneri finanziari ed alla quota del debito scadente nel periodo).

Solo se questo indice è inferiore a 1 o se non è disponibile, si considerano cinque indici di bilancio come in seguito dettagliati, dei quali, il contemporaneo superamento di tutti e 5 rappresenta un indicatore della crisi. È possibile comunque derogare dagli indici specifici definiti dal CNDCEC, attraverso un’attestazione di un professionista. La fissazione di questi indici ha posto diversi problemi di tipo statistico e di impostazione. Fissando soglie “basse”, si sarebbe pervenuti alla segnalazione di un gran numero di imprese, non solo quelle in fasi iniziale della crisi, ma anche quelle non in vera difficoltà finanziaria (denominiamo questi casi: falsi positivi).

La possibilità di fissare soglie più elevate comporta una segnalazione di un minor numero di aziende, ma anche il rischio di arrivare tardi e trovare situazioni già compromesse nonché di non segnalare tempestivamente imprese che versano in uno stato effettivo di crisi (fenomeno dei falsi negativi); d’altra parte questo approccio riduce in modo considerevole il numero di falsi positivi. È stato scelto, almeno in fase di prima applicazione della norma, di non intasare le procedure con gran numero di aziende. Inoltre, anche con riguardo al ceto bancario, la segnalazione di un gran numero di casi, condurrebbe ad altrettante classificazioni dei crediti bancari verso di loro come “deteriorati”, con conseguenze negative in termini di volume di finanziamenti all’economia reale, redditività per le banche e per il sistema economico in generale. La scelta del superamento contestuale dei 5 indici prescelti è molto efficiente nel ridurre il numero di falsi positivi (solo lo 0,3% delle società che poi non sono andate in insolvenza, pari a 1.914 segnalazioni su 550 mila bilanci analizzati) ma questo limita anche il numero di casi di crisi intercettati: solo l’11% delle 18 mila procedure liquidatorie considerate. Viceversa, se bastasse il superamento di tre indici, si arriverebbe all’ottimo risultato di intercettare poco meno della metà delle insolvenze, a costo però di un numero molto significativo di falsi positivi, pari a 50 mila (il 9% del campione).

Tutti gli indici di allerta

L’analisi è stata realizzata su un campione di 181 mila imprese, per il periodo 2010 -2015, di varie dimensioni e settori (industria, servizi, commercio), escluse le microimprese (sotto i 10 addetti, e 700mila euro di ricavi). Sono state classificate come insolventi le imprese che nel corso dei successivi 36 mesi, rispetto al bilancio analizzato hanno aperto una procedura di fallimento, di concordato preventivo, un accordo di ristrutturazione dei debiti o altre procedure. Nel complesso sono state considerate 18 mila procedure concorsuali, cui corrisponde un tasso medio di insolvenza (a tre anni) del 3,1%. Per individuare gli indicatori di allerta è stata presa in considerazione una prima lista di 56 indicatori riferiti a sei aree gestionali: sostenibilità degli oneri finanziari e dell’indebitamento, grado di adeguatezza patrimoniale e composizione del passivo per natura delle fonti, equilibrio finanziario, redditività, sviluppo, indicatori relativi ai ritardi nei pagamenti. Dopo varie analisi sulle combinazioni migliori, gli indici scelti sono i seguenti, per i quali sono state segnate soglie differenziate a seconda del settore di appartenenza dell’impresa:

  • Oneri finanziari/Ricavi: dà un’indicazione generale del peso degli interessi bancari. Essendo sul fatturato non ha un’indicazione del peso sulla marginalità. È comunque un primo indicatore del debito.
  • Patrimonio netto/Debiti totali: maggiore è il patrimonio netto in rapporto ai debiti più solida e capitalizzata è l’azienda. Per i servizi, con bassi investimenti capitali, è ammesso un valore molto basso.
  • Liquidità a breve termine (Attivo Corrente/Passivo Corrente): il valore ammesso varia da inferiore a 1 a superiore a 1. Minore è la percentuale e minori sono i crediti a breve che possono coprire i debiti a breve verso Fornitori e Fisco.
  • Cash flow/attivo: il rapporto indica il rendimento dell’azienda in termini di cassa generata. Gli investimenti in beni capitali e circolante generano quanto valore, in termini di cassa? I valori tollerati sono molto variabili dai settore a settore, viste le diverse composizioni patrimoniali tra un’impresa di servizi e una industriale, ad esempio.
  • Indebitamento previdenziale e tributario/Attivo Patrimoniale: questo indicatore merita particolare attenzione. È inserito specificamente nella riforma, dove Fisco e Inps sono “creditori pubblici qualificati”, in grado anche di segnalare da esterni lo stato di crisi dell’azienda, in caso di debiti scaduti sopra una certa soglia. Quale indice è un parametro variabile ma inferiore al 15%.

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Bibliografia

  1. Rapporto Cerved PMI 2019
  2. Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, “Crisi d’impresa, gli indici dell’allerta”, 20 ottobre 2019

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