Con il dilagare, in Italia e ormai pressoché in tutto il mondo, di casi positivi di Covid-19 è divenuta più ricorrente l’esigenza giornalistica (che talvolta può sfociare in ingerenza) e dell’opinione pubblica di conoscere i nominativi delle persone infette al fine di poter rendere noto alla collettività non solo l’identikit del soggetto risultato positivo al tampone, ma anche il vissuto del contagiato per poter valutare concretamente la possibilità di un eventuale contatto con lo stesso ai fini dell’esclusione o meno di un’occasione di contagio.
Finora, come vedremo, nelle molte pandemie che si sono succedute – anche in epoche molto remote – il diritto alla riservatezza non è mai stato sacrificato per esporre alla pubblica persecuzione il dato del malato, la cui unica colpa è quella di aver contratto un morbo che mette in pericolo in primis la sua persona.
Si auspica che, in un’epoca nella quale tutte le barriere del decoro stanno cadendo in modo rovinoso, non si superi per la prima volta questo limite.
La prima pandemia della storia
Ebbene è curioso che la prima pandemia ricordata dai testi antichi sia la peste giustinianea che ha imperversato tra il 541 e il 750 d.C., durante il medesimo periodo in cui si ricorda il primo caso di pseudonimizzazione. Infatti, durante l’Impero di Giustiniano il diritto alla riservatezza non ebbe necessità di essere trattato. Nessun si chiedeva se fosse il caso di pubblicare i nomi o meno dei contagiati durante il picco dell’epidemia.
Tra esigenza di cronaca ed esigenza della riservatezza, i commentari e i glossari di diritto romano hanno privilegiato un utilizzo parco della storia, proponendo una soluzione che nascondesse al grande pubblico il dato del nome proprio o di famiglia, focalizzandosi sulla vicenda giuridica in astratto.
Ma ciò che è stato storicamente riservato per l’amministrazione della giustizia, possiamo sostenere essere stato riservato anche per la tutela della pubblica sicurezza?
Occorre ricordare che durane l’estate dell’anno 541 d.C. le città più colpite furono le città costiere (il paziente “0” dice Evagrio, dovrebbe essere risalito attraverso il Nilo dall’attuale Etiopia), decimando i piccoli centri abitati costieri.
L’epidemia si spostò nel corso del 541, raggiungendo Gaza e Alessandria, mentre la Siria venne toccata nell’estate del 542. A causa dell’enorme traffico navale del suo porto, Costantinopoli fu colpita nella primavera del 542.
Colpita la città di Costantinopoli, l’epidemia propagò in grande velocità. Dobbiamo immaginare che gli abitanti fossero già terrorizzati, visto che avevano seguito l’avvicinarsi del morbo tramiti dispacci, missive di parenti e commercianti.
La tragedia arrivò in poche settimane. La popolazione morì in una percentuale vicino al 50% e l’unica preoccupazione fu organizzare la sepoltura dei cadaveri che riempirono tutte le tombe della città, le fosse comuni, le torri di guardia, i fienili e le fortificazioni.
Nessuno pensò a fare liste di proscrizione, poiché tutti venivano colpiti.
Tizio, Caio, Sempronio e la nascita della privacy
Ogni qual volta un giovane discente si avvicina allo studio del diritto alla riservatezza viene inondato da nozioni giuridiche che fanno discendere i primi casi di privacy sin dal diritto romano: Tizio, Caio e Sempronio si sono ritrovati a formare un famoso terzetto e, non solo rappresentano i soggetti giuridici per eccellenza, ma si può sostenere siano il primo caso verificabile di pseudonimizzazione del dato.
Questi tre nomi si trovano per la prima volta insieme, come pseudonimi per rappresentare casi tipici trattati nella giurisprudenza romana classica nelle opere d’Irnerio, famoso giureconsulto dello Studio di Bologna.
Mentre il nome “Tizio” fu un’invenzione propria di Irnerio – ma per onore di verità il nome di Sempronio era già usato a tale scopo nell’antichità classica e specialmente nel ‘Digesto’ -, Caio (Gaius) invero rappresentava la citazione di un nome di un giureconsulto famoso. In ogni caso, è Irnerio il primo autore a fare uso dell’unione classica “Titius, Gaius et Sempronius” che da lui si è trapiantato nella letteratura dei glossatori, e poi nell’uso moderno.
Mevio, che appare nei testi moderni di diritto, è invece una invenzione dell’epoca moderna.
Ebbene l’utilizzo di questi pseudonimi era necessario per nascondere le vicende private di vita di persone realmente vissute.
La peste nera
La seconda pandemia che ha decimato la popolazione mondiale è senza dubbio la peste nera del 1347/1352.
Dobbiamo ricordare come tale pestilenza durò circa 5 anni e decimò intere città. Il caso di Firenze è emblematico: si calcola che su 5 persone ne morissero 3: “Se vuolsi reputare esagerato quello che il Boccaccio stesso e l’Ammirato scrissero, che centomila persone mancassero in Firenze ne’ sei mesi che durò la pestilenza, non può per altro negarsi fede a Matteo Villani, il quale scrive come allora delle cinque persone ne morirono tre: sicché fatto il ragguaglio alla popolazione della città, che allora era di 90,000 anime, bisogna pure inferirne che 54,000 perissero vittime della moria”.[1]
Ebbene a Firenze non ci fu un vero e proprio controllo pubblico, ma ebbe gran rilievo la Venerabile Arciconfraternita della Misericordia di Firenze (abbreviato Ven. Arc. Misericordia di Firenze), una confraternita laica fondata a Firenze nel XIII secolo da San Pietro martire con lo scopo di operare verso i bisognosi gesti di evangelica misericordia. È oggi la più antica Confraternita per l’assistenza ai malati e, in generale, la più antica istituzione privata di volontariato esistente al mondo ancora attiva dalla sua fondazione, datata nel 1244 secondo i registri conservati nel suo archivio. I suoi membri laici, detti fratelli continuano ancora a fornire parte del servizio di trasporto infermi nella città, e fino all’aprile 2006 indossavano ancora la tradizionale veste nera (risalente al XVII secolo).
Ebbene tale Compagnia era composta da soggetti, nascosti dalla veste nera, che serviva appunto per garantire l’anonimato. La riservatezza non doveva essere quella del malato, ma del curatore, il quale – più soggetto al contagio – indossava una lunga veste nera che era comunque utile anche per impedire il contatto con il batterio pestilenziale.
Milano, governata dai Visconti, ebbe una gestione rigida dell’epidemia. Ogni ingresso veniva registrato e posto in isolamento in campagna. Ciò provocò una diffusione minore del contagio e l’accesso in città, una volta permesso al singolo, non diventava più un pericolo collettivo, bensì una vicenda strettamente soggettiva, sicché non si sentiva l’esigenza di alcuna comunicazione dei dati personali.
La peste veneziana
La peste Veneziana del 1423 (secondo focolaio della peste nera) ebbe un decorso tragico. Venezia, polo “commerciale” per eccellenza anche in antichità, crocevia tra oriente e occidente, tenne nascosto il focolaio, per non subire le ripercussioni economiche del secolo precedente.
Di conseguenza i forestieri appestati in ingresso in città, mai controllati, erano liberi di imperversare provocando nei fatti migliaia di vittime. Sicché, quale misura di contenimento, si decise di isolare il focolaio in un’isola, quella intitolata a Santa Maria di Nazareth (da qui Nazarethum – Lazzaretto[2]). Ma come noto i Lazzaretti venivano creati per tutelare chi era fuori, non chi si trovava dentro. Anche in questo caso i dati sanitari degli appestati non furono oggetto di diffusione. Non c’era tempo. Né nessuno voleva scatenare il panico.
La peste manzoniana
In tempi più recenti, la pandemia più ricordata, anche in questo momento di sgomento, è la peste manzoniana. La peste seicentesca di Milano che fa da scenario ai Promessi Sposi si è unita alla carestia del 1628/1629, di cui si ricorda l’assalto al Forno del Grucce: molti cittadini per sfuggire alla fame preferivano il ricovero nel Lazzaretto. Ebbene per riuscire ad organizzare il ricovero a circa 16.000 persone, si affidò la gestione del Lazzaretto ai frati Cappuccini, i quali numerarono ogni posto letto e imposero rigide regole per impedire il diffondersi dell’epidemia all’interno dell’ospedale. Ogni ala del Lazzaretto aveva diversi trattamenti a seconda della tipologia di soggetto trattato.
Le regole rigide imposero il ricovero coatto all’interno del Lazzaretto anche ai sospettati di peste e l’opinione pubblica diffidente ricercava le origini del morbo pestilenziale: così vennero create le liste e appesi i nomi di personaggi che si credeva diffondessero volontariamente a peste attraverso alcuni unguenti.
Gli untori vennero additati e i nomi degli untori furono registrati per sempre su una colonna, la “colonna infame”, oggi ormai andata distrutta. Oggi si dubita dell’esistenza degli untori, ma la lapide posta vicino alla “colonna” oggi è conservata all’interno del Castello Sforzesco, con i nomi di tutti gli untori.
Nel 1804 ci fu la pubblicazione postuma delle Osservazioni sulla tortura (1777) di Pietro Verri, saggio incentrato sull’uso della tortura nel processo agli untori e realizzato negli anni precedenti all’abbattimento della colonna infame: l’autore decise di omettere la citazione dei nomi per evitare di offendere la memoria dei discendenti delle famiglie ancora presenti a Milano.
Conclusioni
Ogni qual volta l’operatore giuridico si trova a dover parametrare il diritto alla riservatezza con un altro diritto inviolabile, la privacy viene sempre degradata perché diritto assunto a rango costituzionale solo in un recente periodo, sicché in qualche modo è un diritto meno “costituzionale” rispetto ad altri diritti personalissimi e inviolabili.
Il diritto alla cronaca prevale sul diritto alla riservatezza tanto da permettere al giornalista di indugiare su alcuni particolari in delitti sanguinosi dei quali si farebbe volentieri a meno oppure comunicando nomi di indagati in delitti che possono compromettere la reputazione dell’interessato[3].
Addirittura, degrada il diritto alla riservatezza di fronte ad un meme che prolifera sui social che sfrutta l’immagine di una persona che si è trasformata in tormentone.[4]
La pubblica sicurezza prevale sul diritto alla riservatezza laddove l’installazione di un sistema di videosorveglianza prevalica il concetto di “pubblica strada” (Cass. 20527/19) e si ritiene lecito purché l’uso delle immagini non sia molesto o improprio.
Con l’auspicio che neanche questa volta si superi il limite di esporre al pubblico i dati di persone malate, si confida che il Garante della Privacy prenda tutti i più rigorosi provvedimenti nel rispetto della propria funzione, nel rispetto di una malattia che lascerà certamente tracce indelebili nell’esistenza di tutti e anche nel rispetto della storia dell’uomo.
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- LA COMPAGNIA DELLA MISERICORDIA DI FIRENZE CENNI STORICI di CELESTINO BIANCHI Estratti dai numeri 28 e 29 dello Spettatore cogli Statuti e coi Regolamenti della Venerabile Arciconfraternita e con altre notevoli aggiunte FIRENZE, TIPOGRAFIA BARBERA, BIANCHI E C Via Faenza, numero 1765 (1855). ↑
- Per alcuni storici il nome “lazzaretto” è collegato al lebbroso Lazzaro della parabola evangelica del ricco epulone (Luca, XVI, 19-31) ↑
- Ne è un esempio il Provvedimento del 12.10.02017 (doc. web. n. 7273804) nel quale si ritiene non eccedente il principio di essenzialità dell’informazione “la pubblicazione dei nomi di persone interessate da un procedimento penale in qualità di indagati, imputati o condannati” in quanto “inquadrata nell’ambito delle garanzie volte ad assicurare trasparenza e controllo da parte dei cittadini sull´attività di giustizia”, ed altresì consente il riferimento a patologie (nel caso di specie, ludopatia) dell’interessato qualora queste siano elemento integrante della vicenda, non descritte in modo analitico o lesive della sua dignità. ↑
- Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività» (Tribunale d’Aversa nel caso di Tiziana Cantone). ↑