Chi manda in via telematica i dati di tutte le fatture emesse e ricevute e delle eventuali variazioni, rilevanti ai fini IVA, ottiene la riduzione di un anno dei termini a disposizione dell’Agenzia delle Entrate per emettere gli avvisi di accertamento.
E’ un punto a cui ha dato attuazione il decreto del 4/8/2016, pubblicato sulla G.U. del 6/9/2016. La condizione è che venga garantita la tracciabilità dei pagamenti dagli stessi ricevuti ed effettuati nei modi stabiliti con decreto del ministro dell’economia e delle finanze.
Non intendo commentare il decreto ministeriale, ma la disposizione legge che ne rappresenta la fonte, che appare eticamente discutibile, e in ogni caso difetta di logicità e di congruità.
Sotto il profilo etico ritengo che sarebbe stato più coerente con i principi che dovrebbero ispirare uno Stato di diritto attribuire ai soggetti che si avvalgono della opzione cui si è fatto cenno sopra, e garantiscono la tracciabilità dei pagamenti ricevuti ed effettuati, un premio diverso dalla anticipazione dei termini per la emissione degli avvisi di accertamento.
Il messaggio portato dalla norma agevolatrice è tutt’altro che esemplare, in quanto considera premio per il contribuente la impossibilità per il fisco di svolgere la sua attività di accertamento, come se l’accertamento fosse una punizione.
Sarebbe stato molto più elegante – mi si passi il termine – se invece il legislatore avesse sottratto i soggetti in questione alle presunzioni degli studi di settore e dei parametri, ovvero avesse introdotto l’obbligo della prova diretta, e non per presunzioni, come oggi previsto, nel caso in cui l’Amministrazione Finanziaria ha facoltà di ricorrere all’accertamento analitico o induttivo.
Il contribuente onesto non teme il controllo del fisco, ma piuttosto l’uso massivo e indiscriminato, talvolta distorto, dei “mezzi di accertamento di massa”, che spesso si traducono in disagi per i contribuenti e per l’amministrazione finanziaria, oltre che per la Giustizia Tributaria. E’ sotto gli occhi di tutti come gli strumenti presuntivi abbiano perso – giustamente – gran parte della efficacia che il legislatore aveva riposto in loro, sotto la falcidia della Suprema Corte di Cassazione, il cui orientamento converge verso la attribuzione allo strumento di funzione selettiva dei contribuenti da sottoporre a verifica piuttosto che accertativa-presuntiva.
Sotto il profilo della logicità appare molto discutibile la scelta di subordinare il premio alla condotta di un soggetto diverso da colui che dovrebbe beneficiarne. Il contribuente può infatti optare o decidere se effettuare i pagamenti in maniera tracciabile, ma non può imporre questa opzione ai suoi clienti, che – per esempio – potrebbero anche non disporre di un conto corrente bancario ovvero potrebbero non essere dotati di una organizzazione in grado di effettuare pagamenti solo con bonifici. Senza considerare che, nei tristi tempi di crisi che attraversiamo, costringere un contribuente a rifiutare un pagamento in contanti e ad esigere un bonifico mi sembra una violenza che sfiora il masochismo.
Sotto il profilo della congruità non può non evidenziarsi come l’obbligo di tracciabilità possa essere, almeno in parte, un falso problema, facilmente superabile concedendo al contribuente che riceve o effettua pagamenti in maniera non tracciabile, e volesse mantenere gli effetti premiali connessi alla opzione, la possibilità di trasmettere in maniera telematica solo i dati relativi alle predette operazioni. Se poi si volesse mantenere al provvedimento normativo uno scopo «terapeutico» destinato a promuovere la digitalizzazione dei processi, si potrebbe anche prevedere un limite percentuale ai pagamenti (per esempio, 20-30% del totale di quelli effettuati, non agli incassi) da poter effettuare in maniera non tracciabile.
Non può passare inosservato all’occhio dell’attento osservatore il contrasto della disposizione in esame con l’ampliamento, intervenuto col primo gennaio scorso, del limite (da 999 a 2.999) euro per la circolazione del contante. Il legislatore dovrebbe avere un atteggiamento coerente, anche perché non si comprende bene quali siano state da un lato la ratio legis e dall’altro le forze economiche o politiche che abbiano spinto il legislatore ad elevare il predetto limite.
Ci sarebbe inoltre da chiedersi quale sia il progetto che il ministero ha predisposto per far sì che, una volta che i dati delle fatture e dei pagamenti saranno presenti nella banca dati, sia possibile trarne elementi utili per effettuare i controlli. Per poter effettuare un controllo completo sarebbe necessario che vi fosse non solo coincidenza tra i dati delle fatture tra emittente e ricevente, ma che fosse chiaro anche il puzzle degli incassi e dei pagamenti. Spesso le contabilità inattendibili sono caratterizzate dalla approssimazione nella indicazione (quando non nella invenzione) dei pagamenti e degli incassi.
E’ evidente che la soluzione sopra prospettata di integrazione dell’obbligo di tracciabilità degli incassi con l’invio dei dati telematici ad essi relativi potrebbe dare un grosso contributo alla ricerca e alla lotta all’evasione. Vi è anche da riflettere sulle ragioni per cui l’obbligo di trasmissione dei dati debba riguardare le fatture passive, visto che queste sono il rovescio della medaglia di quelle attive. Sarebbe sufficiente che l’Amministrazione Finanziaria avesse tutte le fatture attive per avere un quadro completo.
Mi chiedo quale confusione verrà generata quando sarà notata una discrepanza tra i dati inviati dall’emittente e dal ricevente la fattura, se vuoi anche per mero errore o per ritardo nella annotazione della fattura passiva, che può avvenire, a norma dell’articolo 19, primo comma, DPR 633/1972, «con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo».
Un’ultima notazione. Per evitare che le condizioni poste dalle norme premiali in argomento possano apparire una operazione di marketing legislativo in favore delle banche, sarebbe forse il caso di affrontare il tema del costo delle operazioni di bonifico. Non è questa la sede per affrontare un argomento così delicato, ma si potrebbero individuare soluzioni tendenti da un lato a far recuperare agli utenti una parte dei maggiori costi bancari (spesso ingiustificati, in quanto i costi che le banche devono sostenere per la predisposizione alle operazioni di home banking sono essenzialmente fissi ed indipendenti dai volumi delle transazioni, per cui una moltiplicazione delle operazioni on line si tradurrebbe quasi interamente in un beneficio netto che, onestamente, non appare giusto se stimolato dal legislatore) e dall’altro a neutralizzare un ingiustificato regalo, magari introducendo modalità compensative sotto forma di obbligo per gli Istituti bancari di concessione linee di credito a condizioni di favore per coloro che si avvalgono delle opzioni in argomento.
Sarebbe sufficiente trarre insegnamento dalle recenti esperienze, non certamente positive, per trovare più di una ragione per porre immediatamente rimedio. Esiste il rischio che l’effetto premiante si sterilizzi, perda appeal e, così com’è, possa risultare attrattivo solo per poche ipotesi facilmente e comunque controllabili, dall’inizio alla fine dei loro processi. Un rischio che ridurrebbe fortemente l’opportunità di sfruttare queste opportunità come volano a supporto della diffusione della Fatturazione Elettronica anche nel B2B, un po’ come è successo con la prima normativa sulla Fatturazione Elettronica, che richiedeva elementi di compliance talmente lontani dai tipici modelli di business che la scelta prevalente è stata per anni quella di non farla.