Nei prossimi mesi scopriremo la portata del “mutamento di stato” che questa emergenza avrà apportato al trinomio stato-società-imprese. Economisti e accademici, chiedendosi cosa succederà quando questa crisi sarà terminata, hanno iniziato a disegnare scenari sui futuri rapporti economici e politici nel mondo post pandemia, e sono alle prese con analisi e pubblicazioni di report per valutare le conseguenze economiche di questi mesi incerti.
In tutto il mondo, ma soprattutto in Italia, la lezione che si sta traendo è chiara: la transizione digitale è di cruciale importanza per l’avanzamento di tutti i settori sociali ed economici (didattica a distanza, smart-working, connessioni per socializzare, banda ultra larga, ecc.); è necessario ripensare la sanità di domani, in ottica sia di modelli sanitari che di consolidamento delle infrastrutture ICT del settore salute.
Anche il rapporto con la scienza e la ricerca sta riconquistando la giusta dimensione. Quante volte, infatti, il parere di una sparuta minoranza, non sempre particolarmente qualificata, è stato amplificato dai mezzi di comunicazione ed è stato promosso indebitamente a opinione migliore. In questo caso i danni che sono stati creati sono incalcolabili. Decisioni delicate che riguardano, ad esempio, la salute, l’ambiente, le comunicazioni, i trasporti, l’industria, l’agricoltura o le fonti energetiche, che non possono prescindere dalle conoscenze scientifiche migliori e più aggiornate, sono state messe a rischio.
Stiamo riscoprendo in queste ore l’importanza di fornire un’informazione scientificamente corretta e comprensibile sui temi più delicati e controversi della nostra società.
In tale contesto è proprio la formazione dei ricercatori a rappresentare il nesso virtuoso, ancorché ignorato, tra ricerca e innovazione. Uno strumento molto importante in questa direzione si sono i dottorati di ricerca industriali verso i quali si sono mossi il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e Confindustria.
Programmare ora l’innovazione di domani
Per certi versi, questa emergenza sta mettendo a nudo tante false ipocrisie, costringendoci a guardarci allo specchio e a fare i conti con la realtà. Molti nodi della nostra vita pubblica stanno drammaticamente venendo al pettine. Sta venendo al pettine una questione generale di responsabilità. Responsabilità legate a una lunga catena di scelte fatte in passato e di cui oggi si vedono le conseguenze. Il ritardo che abbiamo accumulato in digitalizzazione e innovazione quanto pesa oggi? Cosa abbiamo fatto per permettere alle imprese italiane di rafforzarsi e crescere? Abbiamo utilizzato le – poche – risorse a disposizione in modo lungimirante e produttivo?
Con riferimento all’innovazione e alla conoscenza, a ben guardare, tutto quello che riguarda la ricerca e l’università (laboratori, personale, fondi) si trova in perenne stato di agonia, strangolato dalle ristrettezze. Oggi ci accorgiamo dell’importanza che un tale settore riveste, quindi, saremmo tutti d’accordo se parlassimo di una politica per lungo tempo miope.
Il legame ricerca/università/imprese porta con sé altre questioni, altrettanto cruciali, per sostenere una futura ripresa e sulle quali occorre meditare: quali dovranno essere i settori innovativi su cui puntare; come fare innovazione grazie all’apporto della ricerca, che sarà sempre più multidisciplinare; quali nuovi strumenti di trasferimento della conoscenza adottare (considerato il fallimento del trasferimento tecnologico di cui si è parlato per anni); che vuol dire scienza aperta e per un governo avere accesso ai dati; come mobilitare e aggregare ingenti risorse sul piano finanziario. Per avere un’idea chiara di quello che saremo tra 10-20 anni, dovremmo iniziare a programmare una strategia sul lavoro e sui modelli organizzativi di domani.
Dobbiamo farlo ora, per avere la percezione che una terapia economica esista, che ne possiamo uscire, perché se il Paese si ferma, la politica economica e sociale deve continuare a muoversi. C’è bisogno di una straordinaria solerzia nell’affrontare l’emergenza e, parallelamente, individuare le condizioni strutturali per la ripresa socio economica. Non si tratta solo di un processo di pianificazione strategica della migrazione al digitale (finora fatto in parte), perché dall’ampiezza e dalla qualità delle scelte che l’Italia e l’Unione europea faranno concretamente nei prossimi mesi dipenderanno il futuro del sistema Paese, il benessere residuo di ciascuno di noi, ma soprattutto le possibilità di una ripresa. Dobbiamo avere al tempo stesso la consapevolezza di dover sciogliere quei nodi che frenano la ricerca e l’innovazione. Nel settore pubblico, la burocrazia e la regolamentazione alla base di ogni processo rallenta e rende difficile l’innovazione. Per non commettere più gli stessi errori e non tornare semplicemente “quelli di prima”, dovremmo riflettere sulle responsabilità collettive e individuali. Quando tutto sarà finito verrò il tempo degli esami di coscienza e bisognerà ricordarsene. Di seguito alcune possibili proposte per una rinnovata politica per l’innovazione.
Allargare il perimetro dell’innovazione alle startup
Innanzitutto, il governo ha innalzato il deficit e messo in campo risorse per 25 miliardi. Probabilmente non basteranno per la ripresa di tutte le attività. Occorrerà mobilitare ulteriori risorse, ricorrendo anche a quelle europee. Il governo ha anche deciso di puntare in maniera decisa sulle startup. Nel decreto legge “Cura Italia” si è data la possibilità a startup e PMI innovative di offrire i propri servizi (la selezione dei fornitori deve essere fatta tra 4 aziende, di cui almeno una deve essere una startup innovativa o una PMI). È una strada giusta, perché le collaborazioni con questi protagonisti dell’innovazione favoriranno anche i gruppi che producono in Italia e che investono in ricerca. Si pensi al manufacturing e alla farmaceutica. Farmindustria ha stimato in mille miliardi gli investimenti in ricerca nei prossimi cinque nel mondo. Bisogna fare in modo di farne arrivare il più possibile nel nostro Paese, con l’obiettivo di valorizzare ulteriormente sia il sistema delle startup, con tutti i centri di ricerca ad essi collegati, sia la qualità della nostra manifattura.
In tal senso la collaborazione fra pubblico e privato è una stella polare, perché non ci potrà essere una forte industria senza di essa. Ecco allora l’idea di realizzare un censimento dell’ecosistema di startup, sia quelle che già lavorano con la PA sia quelle che inizieranno nei prossimi mesi, per comprendere le caratteristiche e le potenzialità di successo, ma anche le barriere che impediscono loro di lavorare con il settore pubblico, cioè capire meglio quali ostacoli e impedimenti si frappongono. Peraltro sarebbe il caso di verificare, anche a livello internazionale, i casi di successo, per verificare se il connubio di successo dipenda più dalla maturità del cliente (per esempio quale dipartimento della PA, oppure a quale livello di maturità si trova la PA) o viceversa se il successo dipenda dalla maturità della startup stessa (per esempio per esperienze pregresse con la PA, conoscenza di quel particolare settore pubblico, ecc.). Allargato il perimetro alle startup, sul piano finanziario, si potrebbe pensare a un unico grande Programma nazionale (PON) con assi dedicati: al Piano BUL (per la parte infrastrutturale[1]) e all’agenda digitale, per la parte dei servizi digitali con focus prioritari: PA, salute, formazione, beni culturali, e altro ancora.
I settori e le tecnologie su cui puntare
Nella Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia presentata lo scorso anno, è stata scattata una fotografia sui settori high-tech che hanno le maggiori quote di mercato nell’esportazione mondiale, utile a inquadrare i settori più dinamici.
Quote di mercato dell’Italia sulle esportazioni mondiali nei settori high-tech (graduatoria rispetto al 2018)
Fonte: elaborazione ENEA – Osservatorio sull’Italia nella Competizione Tecnologica Internazionale su dati UN-Comtrade Database.
Come si può vedere non è solo una questione di bit. Dall’ambiente all’energia, dalla chimica al biotech, dall’ICT alla microelettronica fino ai trasporti, ai beni strumentali e all’aerospazio, i settori pongono alle imprese e ai centri di ricerca, alle università, ma anche agli incubatori e agli acceleratori, il tema di dove allocare le risorse per intercettare una domanda, di beni e servizi, che nei prossimi anni potrebbe radicalmente cambiare i propri connotati.
Per aiutare a districarsi nel complesso mondo che verrà, delineando le linee programmatiche del futuro, ulteriori indicazioni arrivano dall’Associazione italiana per la ricerca industriale (AIRI), che ha recentemente pubblicato un report dal titolo L’innovazione del prossimo futuro. Sono state messe in fila 105 tecnologie in nove settori di primaria importanza per l’Italia. Una specie di approfondita guida utile a capire su quali tecnologie puntare fondi e risorse umane, nata anche per far riflettere su come costruire un legame strutturato e non episodico, come purtroppo avviene troppo spesso, fra ricerca pubblica e iniziativa privata. Legami che vadano oltre i grandi gruppi rimasti, ma che veda il coinvolgimento di un tessuto imprenditoriale, seppur polverizzato e sottocapitalizzato, nondimeno dotato di un prezioso saper fare.
Le “case delle tecnologie emergenti” del MISE
Dopo quella avviata a dicembre a Matera, cui furono destinati 15 milioni di euro, ulteriori 25 milioni sono stati destinati alla realizzazione di nuove case della tecnologia, nell’ambito del più ampio programma di supporto alle tecnologie emergenti 5G. Con avviso pubblico del 3 marzo 2020, il Mise ha avviato la procedura per selezionare progetti di ricerca e sperimentazione per le amministrazioni comunali oggetto di sperimentazione 5G. Le proposte devono avere come obiettivo quello di sostenere il trasferimento tecnologico verso le PMI con l’utilizzo di blockchain, IoT e intelligenza artificiale, oltre che la creazione di startup. Quaranta milioni stanziati complessivamente per realizzare il programma di supporto alle tecnologie emergenti, che vanno ad aggiungersi ai 5 milioni riservati ai sei progetti di ricerca[2] già selezionati e ammessi in graduatoria a inizio d’anno funzionali all’utilizzo di infrastrutture o servizi necessari all’attuazione del programma.
La co-generazione di conoscenza: lo strumento dei dottorati industriali
“Un Paese che intende proiettarsi nel futuro e soprattutto creare le condizioni per affrontarlo, dovrebbe privilegiare ricerca e innovazione e identificarle come priorità strategiche”. Il rettore della Luiss, Andrea Prencipe, nell’affermare una cosa di buon senso, ha lanciato sulle colonne del Corriere della Sera una riflessione sui temi della valutazione della ricerca e sui modelli di organizzazione della ricerca, arrivando a mettere in dubbio la validità dei tradizionali modelli di produzione della conoscenza distinti dai meccanismi istituzionali di applicazione dei risultati. “Le evidenze empiriche – sostiene Prencipe[3] – sottolineano che la diffusione della conoscenza in ambiti eterogenei in termini di interesse, linguaggi e significati, per esempio università e imprese, ha registrato percentuali di insuccesso altissime. Così come i vari meccanismi e istituzioni create per il trasferimento tecnologico”. È per questo che è arrivato il momento di parlare di co-generazione di conoscenza, che coinvolga contemporaneamente sia accademici di domini differenti sia potenziali fruitori – le imprese – dei risultati della ricerca stessa. L’adozione di questi nuovi modelli e approcci permetterebbe alla ricerca scientifica italiana – di per sé già eccellente – di acquisire una curvatura innovativa di maggiore impatto.
Della bontà di tale approccio ne sarebbe convinto anche il ministro dell’università e della ricerca Gaetano Manfredi che, parlando della svolta digitale che vorrebbe attuare nelle Università del Paese, ha dichiarato[4] che “dobbiamo spingere in direzione di una contaminazione; non a caso oggi si parla di digital humanities. Storici e filosofi, prima di tutto, e poi altre figure che diventano di frontiera, sospese tra saperi tradizionali e gestione avanzata dei dati, tra psicologia e linguaggi interattivi. Le nuove professioni, appunto, si contaminano”.
Un interessante meccanismo di applicazione di questo modello è rappresentato dai dottorati industriali che coinvolgono contestualmente accademia e impresa. Alfonso Fuggetta, nel suo libro Cittadini ai tempi di internet, parla del tema “dell’imparare a imparare” che rimanda ad alcune questioni chiave sulle quali è necessario riflettere. Uno di questi temi chiave è il rapporto tra imprese e università.
Parlando di questo rapporto Fuggetta sostiene quanto sia poco lungimirante puntare a risparmiare nella fase di inserimento professionale delle persone e che “le aziende devono mettere da parte l’illusione che tutto si riduca a limitare costi e tempi all’inizio del percorso di carriera, né che si possa semplicemente procedere alla sostituzione del personale esistente con neo-assunti che costano meno”. Da qui l’invito alle aziende a ripensare il proprio ruolo come consumatori di capitale umano “pronto all’uso”, cominciando viceversa a pensare alla formazione e all’aggiornamento del proprio personale come a un investimento, a una responsabilità sociale.
In questa direzione si sono mossi il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e Confindustria, che hanno sottoscritto una convenzione per promuovere e attivare i dottorati di ricerca industriali, sia per lo svolgimento di programmi di formazione dei dipendenti di azienda già impegnati in attività di elevata qualificazione, sia per costruire percorsi di studio specifici per l’orientamento e la crescita professionale dei giovani. Nel comunicato stampa di lancio dell’iniziativa si legge che “nell’ambito dei rispettivi compiti e funzioni, la collaborazione tra Confindustria e Cnr, insieme a quella degli Atenei italiani, è tesa a favorire lo sviluppo di percorsi, di durata triennale, di dottorati industriali di altissimo profilo scientifico e con particolari requisiti di qualità, di innovazione tecnologica, di internazionalizzazione, presso imprese singole o associate che svolgono attività industriali dirette alla produzione di beni o servizi, con la finalità di contribuire all’alta formazione dei giovani mediante la ricerca, favorire la creazione dei nuovi e migliori posti di lavoro auspicati dalla Strategia di Lisbona e aumentare il potenziale innovativo delle imprese”.
L’iniziativa è frutto dell’azione del Miur che, prima di essere spacchettato in due dicasteri, aveva garantito risorse straordinarie per finanziare dottorati di ricerca e progetti congiunti tra le diverse realtà coinvolte nel settore dell’intelligenza artificiale.
Al momento sono cinque le aree tematiche individuate per il programma nazionale di dottorati:
- Intelligenza artificiale e data science
- IA e cybersecurity
- IA per salute e scienze della vita
- IA e industria 4.0
- IA per ambiente e agricoltura
La prima scuola di dottorato industriale in IA sta ora nascendo a Pisa. L’annuncio è stato dato dal Presidente del Cnr che ha specificato che la scuola nascerà attraverso un consorzio che vedrà in prima fila Cnr e Università, assieme alla Scuola Normale Superiore, Politecnico di Torino, Università di Roma e Federico II di Napoli, più altri centri di ricerca. Previsto il finanziamento di 100 borse di studio l’anno, che potranno contare su un primo finanziamento di 8 milioni. Il tema del delicato rapporto tra ricerca e industria non è nuovo. I dottorati industriali, invece, stanno venendo alla ribalta più di recente. Talvolta, nella economia della conoscenza, riemerge la tesi della tripla elica che pone al centro la relazione università-imprese-governo. Qualcuno aggiunge anche l’utente/consumatore e si parla allora di quadrupla elica. Per sprigionare il potenziale di conoscenza e innovazione occorre pertanto una logica di ecosistema e un rinnovamento creativo delle tre sfere istituzionali complementari coinvolte.
I dottorati industriali possono rappresentare uno dei motori per far partire quella tripla elica. Di questo nuovo strumento si occupa da anni il professore di innovazione e imprenditorialità presso l’Imperial College Business School, Markus Perkmann, che in un suo recente articolo ha affermato che ci sono molti casi in cui il mondo accademico e l’industria si dimostrano fruttuosi, con le due parti che raggiungono una relazione simbiotica, nonostante interessi divergenti. “Esistono molti modi in cui vengono avviate collaborazioni in modo che esse siano vantaggiose per tutti i partecipanti – ha affermato Perkmann – considerando che la logica del mondo accademico, con i propri obiettivi e valori, può integrare la logica e gli obiettivi dei partner industriali. Per le aziende, è impossibile avere qualcuno che dedichi tutto il proprio potere intellettuale a un problema specifico per un lungo periodo di tempo, ma questo è esattamente ciò che fanno gli studenti di dottorato”.
La responsabilità di non tornare “quelli di prima”
La complessità dei problemi reali che stiamo fronteggiando oggi, ma che ancor di più ci troveremo davanti in futuro, impone un cambio di paradigma nella produzione di nuova conoscenza e trasmissione del sapere. Nei prossimi mesi partirà il nuovo programma di finanziamenti europei alla ricerca (Horizon Europe 2021-2027).
Occorrerà, in tale prospettiva, saper disegnare una nuova strategia di approccio, sapendo bene i rischi che si corrono con le vecchie logiche: se una delle prossime “missioni” che saranno lanciate dall’UE diventerà il giocattolo di un solo Ministero, le capacità di successo di una nuova strategia saranno scarse.
L’intersettorialità, la multidisciplinarietà e la co-generazione di saperi, rappresentano i pilastri di un nuovo modello di innovazione sostenibile. Dobbiamo essere in grado di sfruttare i vantaggi di un sano investimento scientifico che non si limiti ai soli input per l’avvio del processo, ma attraverso l’interconnessione si diffonda e si espanda creando nuove opportunità e vie alternative di progresso. Una possibile strada sarebbe quella di affidare la strategia della ricerca e dell’innovazione alle più alte cariche del potere esecutivo, per favorire la creazione di relazioni orizzontali tra le componenti governative che si occupano di crescita economica e quelle che ne rappresentano i contenuti (ad esempio la crescita sostenibile).
L’Agenzia per la ricerca, se mai vedrà la luce, potrebbe agevolare tale operazione di uscita dai silos ministeriali. Sarà necessario sfruttare anche la creatività dei cittadini per affrontare problemi urgenti, come le emergenze sanitarie, il cambiamento climatico, le disuguaglianze, l’istituzione di società più solidali. Per ottenere la fiducia del pubblico, bisogna far capire ai cittadini che la ricerca e le innovazioni non riguardano solo gli accademici, ma sono parte integrante della società. Anche le aziende e il governo devono ripensare al tipo di relazione che desiderano, perché la crescita e l’innovazione non hanno solo un ritmo (scadenzato da bandi o mille proroghe) ma anche una direzione. La crescita dell’economia italiana è e probabilmente rimarrà bassa anche negli anni a venire. Ma in giro per l’Italia, non mancano le imprese di successo: di tutte le tagli e in molti settori. Se osservata con attenzione, l’Italia non è condannata al declino ed è in realtà molto meglio di quanto si possa pensare. Una politica poco avvezza alla programmazione di medio/lungo periodo dovrà fare i conti con i propri limiti, con le proprie responsabilità. Per non tornare a essere semplicemente “quelli di prima”, dovrà trarre le dovute conseguenze e adottare strategie per rispondere alla domanda di quale modello di innovazione potremo beneficiare tra 10 o 20 anni.
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- Consolidamento infrastrutture ICT del settore salute: circa il 90% delle aziende sanitarie ha almeno 1 o 2 centri di calcolo; l’80% della spesa ICT riguarda la manutenzione. Servirebbe accompagnare progetti di consolidamento regionale con visione sovra-regionale. ↑
- Una sintesi dei progetti selezionati è disponibile a questo indirizzo: https://www.mise.gov.it/images/stories/documenti/Presentazione_TecnologieEmergenti-2020.pdf ↑
- Cfr. articolo Il virtuosismo dimenticato della ricerca, pubblicato sul Corriera della Sera il 28 febbraio 2020. ↑
- Cfr. articolo Voglio una Università digital, pubblicato sulla Stampa il 12 febbraio 2020. ↑