Tra qualche settimana, quando usciremo dall’emergenza più critica (almeno questo è l’auspicio che ci facciamo con tutto l’ottimismo necessario in questi momenti) ci troveremo di fronte a uno scenario nuovo e, per certi versi, inedito.
Ci troveremo di fronte a molte aziende a corto di liquidità, il fermo forzato di queste settimane avrà pesato sui loro conti. E ci troveremo con da una parte una crisi di domanda determinata da chi ha perduto il lavoro, dai lavoratori precari o al nero che non hanno percepito reddito e dall’altra alle aziende che dovranno fare un bilancio del loro pacchetto ordini e della loro capacità di soddisfarli o sostituirli.
Autorevoli economisti, nonché Confindustria, hanno stimato che un blocco anche parziale di due settimane delle attività produttive corrisponde a circa 50 miliardi di euro e che nel primo semestre il calo del PIL si attesterà al 10% circa. Una situazione che vedrà in sofferenza molte aziende e di conseguenza molti lavoratori. Il traino rappresentato tradizionalmente dalle grandi aziende sull’indotto rischia di non essere immediato mettendo in difficoltà molte piccole aziende.
Di fronte a questa situazione la BCE e la UE hanno cambiato approccio rispetto alla crisi del 2008 e da una parte hanno messo sul tavolo una prima ingente tranche di risorse e dall’altra hanno sospeso il patto di stabilità e le norme vincolanti sugli aiuti di Stato. Italia, Francia e Germania hanno già risposto con un pacchetto di misure eccezionali, in Francia e in Germania si è evocata la nazionalizzazione di imprese per sostenere il sistema produttivo.
Il tema di una partecipazione statale è sul tavolo anche del nostro governo che, a quanto risulta, sta valutando il da farsi. A livello nazionale stiamo sperimentando gli interventi del Commissario Domenico Arcuri che sta da una parte lavorando a rendere celeri gli acquisti di materiale sanitario ma dall’altra anche attivando il potenziamento del nostro sistema industriale e/o la sua riconversione verso i beni maggiormente necessari in questo momento e irreperibili sul mercato internazionale.
Una politica industriale per uscire dalla crisi
In questo nuovo scenario che si apre non possiamo pensare di “risolvere i problemi con lo stesso approccio che li ha generati” come diceva A. Einstein. È necessario mettere in salvo il nostro sistema produttivo da una parte ma dall’altra è anche necessario mettere in campo una politica industriale in grado di uscire dalla crisi ma soprattutto guardare il futuro.
Stiamo vedendo in queste settimane come il settore turistico sia esposto a crisi internazionali, siano esse il terrorismo o un virus o l’aumento del prezzo del petrolio. Rimane per il nostro paese un settore molto importante ma è necessario diminuirne la dipendenza. Stessa cosa per settore agricolo dove negli anni scorsi abbiamo subito i danni del cambiamento climatico in atto attraverso l’alternarsi di fenomeni estremi. Il nostro futuro e la nostra crescita è sullo sviluppo di settori strategici legati alla conoscenza, su una industria manifatturiera sempre più integrata di tecnologie e orientata al rispetto dell’ambiente.
Oggi, sotto la spinta dell’emergenza, comprendiamo ancora di più la necessità di possedere la banda larga, infrastrutture in grado di poter erogare servizi online agli studenti e alle imprese, capacità di comunicazione. Non abbiamo garanzie di poter usare i servizi che usiamo tutti i giorni se si dovesse bloccare Google o Facebook e, in queste settimane siamo attoniti di fronte a paesi che requisiscono materiale sanitario diretto all’Italia per accumularlo in caso di necessità. Una situazione che non ci fa affatto rimanere tranquilli se, in una futuribile emergenza di un attacco cyber, si dovessero determinare le condizioni di dover isolare un intero paese o alcuni datacenter strategici per soddisfare le esigenze nazionali chiudendo i canali con altri paesi, l’utilizzo di servizi cloud localizzati fuori dal nostro, alla luce di quanto accaduto nei giorni scorsi, potrebbe non essere garantito. Il concetto di Perimetro di sicurezza nazionale cibernetico andrà mutuato su altri ambiti e settori strategici, oggi stiamo riconvertendo aziende e filiere nella produzione di mascherine e respiratori ma lo stesso problema potremmo averlo sulle tecnologie e sui servizi tecnologici. Ciò che ci sembrava semplicemente impossibile l’abbiamo visto materializzarsi sotto i nostri occhi.
Innovazione sotto la direzione pubblica
Il mercato avrà sempre il suo ruolo importante stimolando l’innovazione, una sana competizione tra soggetti diversi che siano in grado di offrire qualità e capacità di misurarsi sul terreno commerciale e non sapremmo vivere senza di esso ma non possiamo dipendere solo da esso, non si è dimostrato in grado di poter garantire ciò di cui la società ha bisogno e, in diversi casi, nemmeno la sua stessa esistenza come ci dimostra la necessita di immettere ingenti quantitativi di denaro con il QE. Il nostro deficit sul settore dell’innovazione tecnologica è talmente elevato che possiamo considerarci in condizioni di fallimento di mercato, il mercato non è in grado di lanciare iniziative pluriennali e impegnative come è necessario e urgente fare e infatti non lo fa. In alcuni casi abbiamo delegato ad aziende private servizi critici ma abbiamo sperimentato problemi di sicurezza nella PEC e su altri servizi critici e perfino azioni volte a preservare posizioni dominanti (recente è il provvedimento Agcom contro Tim). Le nostre aziende, anche le più grandi, non hanno le dimensioni per poter operare su scala globale (e in alcuni casi nemmeno in scala nazionale). Esistono delle eccezioni che in questi ultimi anni si sono posizionate molto bene sui mercati esteri ma quasi esclusivamente come integratori di servizi IT e con dimensioni di scala molto più ridotte dei loro concorrenti globali.
Sul settore dell’innovazione italiano ci troviamo oggettivamente in una condizione di fallimento di mercato, almeno nell’immediato. Non abbiamo aziende nei settori strategici dell’innovazione tecnologica e le aziende che operano nel nostro paese per lo più fanno integrazione di software/hardware prodotto da altre parti, sono società di servizi e non di rado a controllo estero. Lungi dal pensare una autarchia né possibile, né auspicabile ma di immaginare un ruolo più attivo del nostro sistema paese anche trovando forme di partnership e joint ventures con soggetti internazionali anche se alla pari. Questo settore è talmente rilevante sia per quanto riguarda il benessere economico e sociale che per quanto riguarda la sicurezza che è necessario un intervento sotto la direzione pubblica.
Nei mesi scorsi il Copasir ha segnalato il rischio di vedere carpite le nostre informazioni attraverso le tecnologie del 5G da paesi esteri, in particolare siamo dipendenti dall’estero proprio delle tecnologie più strategiche mentre possediamo capacità di ricerca e sviluppo che vanno all’estero. In un mio recente articolo ho parlato di questo e ho proposto di attivare una azienda nazionale attraverso l’intervento della CDP.
Oggi più di ieri si pone dunque il problema di investire nell’innovazione che abbiamo visto essere ormai strategica nella nostra vita. Strategica perché la tecnologia ci ha permesso di non bloccare tutto, di poter operare in smart working su molti settori e strategica perché in molti casi è stata fondamentale nell’analisi dei dati, nella realizzazione di app in grado di aiutare la lotta la contagio o di altro tipo, ma anche di poter continuare in qualche modo ad insegnare agli studenti, a comunicare e sviluppare relazioni, etc. Ma anche strategica perché nel mondo ormai i paesi si stanno dividendo tra quelli che consumano tecnologia e ne sono dipendenti e quelli che la producono e possono far crescere di più la loro economia e migliorare il benessere sociale.
Ridefinire il sistema produttivo
Dobbiamo cogliere questa emergenza per ridefinire il nostro sistema produttivo, per aiutarlo a crescere nei settori più avanzati. Intervenire con un piano ad hoc sull’innovazione diventa importantissimo ed è importante che questo piano veda l’intervento diretto delle partecipazioni pubbliche. Fare in modo che sia lo stato ad attivare i settori dove siamo più indietro, l’unico soggetto in grado di sostenere la liquidità necessaria mettendo in campo capacità finanziaria e ritorni nel medio lungo termine. Un investimento che sarà in grado di essere ripagato con posti di lavoro, crescita dell’indotto, nascita di nuove imprese, valorizzazione delle conoscenze e della capacità presenti sul nostro territorio.
Obama ha fatto un intervento simile per salvare Chrysler e per non perdere una industria nell’importante settore dell’automotive. Vengono in mente gli studi di Mariana Mazzuccato sul ruolo dello Stato.
Nel 2017, in un interessante libro di Enrico Moretti (Docente di Economia a Berkley e collaboratore di autorevoli pubblicazioni come New York Times e Wall Street Journal) dal titolo la “La geografia del lavoro” si evidenzia come le aree del mondo che investono sull’innovazione non solo aumentano il numero di posti di lavoro qualificati diretti ma fanno da traino per molti altri lavori indiretti. Molte aree del globo sono cresciute nei decenni passati proprio grazie agli investimenti sull’innovazione, sui talenti, sulla ricerca. E noi sappiamo quanto ne avremmo bisogno in Italia di poter vedere aumentato il nostro benessere sociale ed economico.
Per fare questo non è più sufficiente avere una ottima domanda pubblica, che noi non abbiamo, ma sarà necessario poter contare anche su una offerta che sia in grado di soddisfarla. Questo non significa statalizzare l’economia ma fare in modo che si creino dei veicoli industriali pubblici in grado di fare da traino per un indotto rilevante, come accade già oggi nel caso di Leonardo, Fincantieri o altre imprese a partecipazione pubblica che rappresentano un modello di capacità italiana nel mondo in settori importanti. Questo dovremmo farlo utilizzando al meglio il mondo delle piccole e medie imprese, delle startup (che anche in questa emergenza stanno dando il loro importante contributo di idee e soluzioni), dei talenti che troppo spesso sono andati all’estero con una emigrazione ormai di proporzioni bibliche.
Pianificazione strategica e selezione severa del management
Avere una capacità di pianificazione strategica e una selezione severa del management (e della politica) a cui affidare la guida è fondamentale per evitare che si creino situazioni con aziende vendute allo Stato col solo obiettivo di lasciare imprese decotte alla collettività salvando i risparmi delle proprietà. In una certa misura ciò sarà inevitabile per salvare posti di lavoro ma il soggetto pubblico non deve accollarsi il prezzo della crisi senza poter entrare nelle ristrutturazioni e nei ricavi che ne dovessero venire e senza avere le mani libere di intervenire direttamente alla guida e al sostegno del sistema produttivo. Non di meno bisognerà prestare la massima attenzione ad altro genere di sprechi (quando non di reati) che abbiamo visto nelle cronache.
Per fare una politica industriale sarà necessario fare un inventario delle aziende e dei settori più tecnologicamente rilevanti e strategiche sostenendole e aiutandole, fare entrare nella compagine azionaria il soggetto pubblico e dargli una strategia coordinata tra loro. Mettere al lavoro il prima possibile una task force che cominci a fare l’inventario e un master plan. Sarà soprattutto necessario creare grandi imprese, la cui mancanza è quello che più limita la nostra capacità industriale, aggregando imprese in difficoltà e/o l’offerta disponibile nei distretti industriali e nelle filiere già presenti.
Negli scorsi anni abbiamo lasciato che la Magneti Marelli o la Ansaldo Breda (treni ad alta velocità) e Ansaldo STS (tecnologia su segnalazione e gestione del traffico treni) fossero cedute ad imprese estere non senza polemiche e interrogativi, oggi sono imprese che si stanno affermando sui mercati internazionali grazie ai brevetti e ai talenti che hanno accumulato prima della cessione e grazie alla capacità finanziaria dei nuovi proprietari. Sono aziende importanti per il sistema paese e per l’indotto delle imprese che lavorano con esse. Per ora molte lavorazioni sono fatte in Italia ma non abbiamo garanzia che nel futuro ciò continui a rimanere così e oggi più di ieri non possiamo permettercelo.
L’importanza di un coordinamento internazionale
Quello che abbiamo visto in queste settimane è l’emergere di istinti nazionali. Il coronavirus è il primo evento internazionale e ci avrebbe dovuto spingere ad unire le forze mentre ha fatto emergere il peggio, con paesi anche “amici” (molti dell’Unione Europea) che hanno bloccato le esportazioni di materiale sanitario quando non hanno requisito il materiale destinato all’Italia e solo in transito per i loro confini. Egoismo, panico e mancanza di ragionevolezza. Questo ci fa capire quanto sia importante un coordinamento internazionale (a partire dal ruolo che sta svolgendo l’ONU con Organizzazione Mondiale della Sanità) e quanto sia importante e determinante una visione internazionale ai problemi da una parte e come sia precario l’equilibrio dei trattati commerciali dall’altro, questo sta spingendo molti paesi ad un approccio più chiuso. Se da una parte dobbiamo lavorare per costruire un nuovo equilibrio internazionale con la forza della diplomazia, dall’altro dobbiamo poter disporre di una propria capacità autonoma sui settori importanti come il digitale e anche il settore bio-medicale (dove contiamo notevoli eccellenze che non possiamo rischiare di perdere). Non possiamo contare solo sull’import per le produzioni più strategiche, dobbiamo poter mettere in campo una capacità nei settori strategici e un nuovo modello di accordi internazionali che possano funzionare anche nelle emergenze e promuovere una mutualità di vantaggi.
Conclusioni
Come esorta il Presidente della Repubblica è il momento dell’unità di intenti, aldilà dei diversi colori, è il momento di mettere insieme le forze e rimboccarsi le maniche per la ricostruzione che ci aspetta. Tra qualche settimana ci troveremo di fronte al reboot economico del Paese, non dobbiamo arrivarci impreparati.
In questi giorni da parte di opinionisti e politici insospettabili di derive stataliste sentiamo sempre più spesso l’esortazione verso il ruolo dello Stato, negli ultimi decenni abbiamo forse demonizzato troppo questa presenza. Il coronavirus ci spingerà tutti a riequilibrare l’azione di Stato e mercato e riconoscere la loro complementarietà. Il capitalismo e la capacità industriale occidentale sono il risultato dell’intervento pubblico in diverse forme e momenti storici, pensiamo al dopoguerra, e il balzo fatto dalla Cina negli ultimi decenni, con il conseguente calo industriale dei paesi occidentali, sta a dimostrare che tale ruolo è ancora rilevante se gestito al meglio.
Non possiamo permetterci errori. Sta a chi ha compiti di governo saperlo esercitare al meglio e utilizzarlo nella maniera più proficua per il benessere generale. A noi semplici elettori e persone coinvolte a vario titolo nei settori produttivi ci è dato il compito di saper selezionare con oculatezza a chi affidare tale responsabilità e operare ogni giorno al meglio delle nostre possibilità per il benessere della collettività, che è poi anche il nostro.