Ciò che resterà passata l’emergenza covid-19 sarà una società digitale. Ma se questa società vorrà essere attenta all’ambiente dovrà, a maggior ragione visto l’aumento dei suo peso specifico nella società, preoccuparsi in prima persona dell’impatto ambientale che essa stessa produce e occuparsi di come contenerlo. Ecco la portata della sfida.
Consumi energetici: la foto di un paese fermo
Un modo, sintetico ed efficace, per quantificare quanto le nostre vite siano cambiate a causa del Covid-19 è osservare come si sono modificati i consumi energetici nazionali. Il Transparency Report di Terna è eloquente nella sua drammaticità. La diminuzione delle attività produttive infatti è direttamente correlabile alla diminuzione dei consumi energetici; quantificarne l’entità fa una certa impressione. Confrontando, ad esempio, il consumo nazionale del mese di marzo 2019 con quello di quest’anno, vediamo come – al di la della forma d’onda, che conserva la periodicità settimanale – niente è rimasto uguale.
Fa una tristezza enorme: è la foto di un paese fermo. Ma lo è meno di quanto lo sarebbe se non esistesse Internet.
Un balzo in avanti di decenni, in poche settimane
In parallelo accade infatti che alcune attività si siano trasferite interamente (o quasi) su Internet. Dallo smart working, alla teledidattica, all’accesso a servizi pubblici e privati, all’intrattenimento: in pochi giorni sono diventate interamente e compiutamente digitali molte delle azioni quotidiane, molte parti delle nostre vite sono diventate virtuali.
Da un mese a questa parte si sono verificate condizioni inedite che hanno prodotto cambiamenti epocali. La necessità, unita alla mancanza di alternative, e magari anche la disponibilità di un po’ di tempo, hanno fatto fare alla popolazione dello stivale un salto in termini di digitalizzazione delle abitudini e dei comportamenti che corrisponde ad anni, se non a decenni, in altri tempi.
Evidentemente le condizioni erano mature, ma c’era bisogno di un catalizzatore (che, per ironia della sorte, si chiama proprio virus). Anche coloro che, nell’era pre-Covid19, erano sempre un po’ sospesi fra una motivazione per rimandare, un tentennamento per timori vari, un riflesso condizionato nel ripetere allo stesso modo le stesse cose, un cavillo per giustificare la pigrizia e magari anche un vezzo, sono diventati compiutamente digitali. Restano, ovviamente, delle diseguaglianze nella popolazione, dall’accesso a banda adeguata alla disponibilità di dispositivi individuali d’uso; divari digitali che forse sono però oggi più facili da individuare e affrontare.
L’uso intensivo del digitale ha non solo integrato o amplificato, ma ha sostituito molte attività fisiche, responsabili di emissioni di CO2 equivalente. Significa che c’è stata una forte smaterializzazione che, sostituendo attività fisiche con equivalenti virtuali, ne ha diminuito l’impatto ambientale. Lo ha diminuito, non azzerato, come invece potrebbe sembrare a prima vista.
Si sta verificando un fenomeno – imprevisto ed inedito – che su piccola scala si sarebbe forse potuto simulare in uno scenario artificiale da laboratorio, ma che invece nel mondo reale e su scala planetaria sembra realizzare il paradosso di un racconto di J.L. Borges, relativo alla «Mappa dell’Impero». Che è, appunto, in scala 1:1.
Gli effetti della pandemia sull’ambiente
Una opportunità straordinaria (ma speriamo unica) dunque per fare un salto in avanti, per riflettere su implicazioni tecnologiche e nuovi scenari. Su molti di essi, come quelli relativi ad esempio al teletracciamento, si stanno valutando le opportunità in relazione alle criticità e ai rischi E così via, un po’ in tutti i settori.
Tutte le considerazioni sulle ricadute ambientali dell’ICT saranno amplificate, nel bene e nel male. Dematerializzare molte attività, quando diventano definitivamente digitali, ha un effetto benefico sull’ambiente, poiché sono diminuite le emissioni prodotte dagli equivalenti materiali.
Io vorrei qui porre l’attenzione su un aspetto dell’ICT di cui abbiamo parlato in precedenti contributi: l’impatto dell’ICT sull’ambiente. Oggi stiamo verificando come l’aria straordinariamente pulita o il rumore assente anche nei contesti urbani sia una conseguenza degli attuali comportamenti coatti. Riflettendoci sopra possiamo immaginare che l’ICT, quando torneremo in tempi normali, potrà contribuire a mantenere alcuni dei vantaggi che rappresentano uno degli effetti collaterali positivi di una situazione tragica.
Va detto, ritornando ai consumi di energia elettrica dell’ultimo mese, che quelli derivanti dal digitale sono certamente cresciuti e la quota imputabile ad essi, in rapporto ai consumi energetici generali che sono invece pesantemente diminuiti, è aumentata molto. Purtroppo non disponiamo di una visualizzazione che scorpori i consumi di energia elettrica dell’ICT dagli altri; possiamo comunque rifletterci, almeno qualitativamente.
Le emissioni di CO2 equivalente in tutta la filiera Internet
Abbiamo parlato in precedenza delle emissioni di CO2 equivalente in tutta la filiera Internet e nelle attività che si spostano su di essa.
In particolare considerato i dispositivi, soprattutto in fase di produzione e smaltimento, focalizzandoci su l’impronta ambientale dell’ICT e dei nostri device sul Pianeta. Depauperamento di risorse non rinnovabili, riscaldamento globale, inquinamento: la rivoluzione digitale, con i suoi Pc, dispositivi elettronici e infrastrutture ICT, ha un impatto sull’ambiente che molti di noi neanche immaginano.
Dei consumi energetici abbiamo parlato poi e anche in relazione ad applicazioni particolarmente pesanti come streaming, deep learning e criptovalute.
Nonostante i progressi del green computing e un’aumentata sensibilità delle aziende rispetto alle tematiche del climate change, oggi il saldo netto dell’ICT è pesantemente negativo per l’ambiente. Streaming e estrazione delle criptovalute sono fra le attività più voraci di energia, ma anche il deep learning ha il suo peso.
Della crescita esponenziale che le novità più avanzate del panorama ICT comportano nei consumi energetici, insieme alle loro enormi potenzialità per contrastare i cambiamenti climatici, ci siamo occupati in relazione al rapporto fra intelligenza artificiale e cambiamenti climatici.
L’IA ha molto appetito di energia ma è anche vero che la tecnologia stessa potrebbe contribuire ad affrontare i problemi del cambiamento climatico.
Una società digitale più responsabile, consapevole, informata
Quanto detto continua ad essere valido. E sarà ancora più significativo, perché ciò che resterà dopo la fine dell’emergenza sarà una società digitale, il cui impatto percentuale sulle altre attività sarà quindi aumentato. E che dunque dovrà essere più responsabile, più consapevole, più informata.
Dunque gli obiettivi del contenimento dei consumi energetici, dell’uso di fonti rinnovabili, dell’efficienza energetica, dell’attenzione all’obsolescenza e al suo impatto fisico, e quanto altro abbiamo descritto nei precedenti contributi appena menzionati dovranno essere ancora più stringenti. E allora dovremo porre maggior consapevolezza ed attenzione, dai gesti più semplici alla ricerca più avanzata. Ci vorranno persone, sistemisti, sviluppatori, ricercatori capaci di tradurre in pratica questa consapevolezza.
Partendo dai gesti più semplici del consumatore nel conferire i rifiuti elettronici con accortezza e diminuendoli al massimo, alla scelta di dispositivi individuali certificati in termini di facilità di upgrade o efficienza energetica. Per arrivare allo sviluppo di architetture Hw/Sw orientate all’efficienza energetica o alla ricerca di soluzioni software meno energivore a parità di prestazioni.
Come nella testa di ognuno di noi è impresso il chiudere il rubinetto quando non si usa l’acqua o lo spegnere la luce quando non serve, dovremo porre attenzione più generale rispetto all’impatto ambientale dell’ICT. Significa attivare quello che si definisce “psychological ownership”: la sensazione che qualcosa sia tuo e di cui dunque avrai cura, anche se non ne hai la proprietà legale. Nello specifico significa pensare che l’ambiente è anche mio e dunque lo devo preservare.
Occuparsi dei devices individuali in quest’ottica è relativamente semplice, la psicological ownership infatti è tanto più facile quanto più vicina all’oggetto di riferimento.
Allontanandosene – riferendosi dunque a datacenter, Cloud, servizi ICT, fino a Big Data e IA – gli effetti di catena lunga stemperano o annullano la sensazione di proprietà e dunque la propensione a rendersene cura. E questo rende più difficile, ma più sfidante, occuparsene seriamente e con competenza.
Nuove competenze e nuovi posti di lavoro
A livello più aggregato chi ha responsabilità di sistemi dovrà tenerne più conto nei contratti di servizio. Ad esempio andare in cloud è una scelta generale ed acquisita, ma non tutti i cloud sono eguali. A sua volta chi fornisce servizi in cloud dovrà farlo esplicitando, di più e meglio, anche le caratteristiche dell’impatto ambientale della sua offerta ed in particolare il tipo di fonti energetiche su cui si alimentano le proprie infrastrutture. Ma lo farà seriamente e per davvero solo se chi vi si affida esigerà informazioni precise, comprensibili e verificabili, sulle scelte implementative che hanno impatto sull’ambiente. Saranno necessari degli skill professionali specifici e nuovi, a cavallo fra l’informatica, le scienze ambientali, l’ingegneria – sia sul lato della domanda che dell’offerta. Potrebbero essere molti nuovo posti di lavoro.
Una domanda ambientale consapevole
È possibile e più rapido di quanto non sembri: fino a qualche anno fa, ad esempio, la scelta fra energia elettrica derivante da fonti pulite o sporche si ripercuoteva in termini di attenzione del cliente finale solo nel prezzo; poi la ricerca e l’innovazione hanno reso le fonti rinnovabili competitive ed anche l’alibi del risparmio economico è caduto. Ma se questo è accaduto è stato per effetto della domanda: un’offerta ambientalmente consapevole si forma solo a fronte di una domanda specifica forte. E questa domanda si è formata sulla scia di scelte precise dell’Unione Europea verso le fonti rinnovabili, scelte che hanno favorito non solo lo sviluppo di soluzioni e impianti innovativi ma anche tutta la filiera, dai produttori, al mercato fino al consumatore finale. E soprattutto vi sono stati adeguati investimenti in ricerca, nel corso dei Programmi Quadro R&D degli ultimi vent’anni.
Chi progetta applicazioni avanzate e energivore dovrà, nel definire e scegliere i propri algoritmi, tenere sempre più conto dell’efficienza di calcolo e dunque dell’impatto ambientale dei propri consumi; non più preoccuparsene solo in relazione alla disponibilità delle risorse di calcolo e del loro costo. L’impatto ambientale, in qualunque step della lunga catena ICT, dovrà sempre di più essere incluso nell’elenco delle caratteristiche e il trade-off avrà termini di paragone sempre più spostati verso i requisiti posti dalla sostenibilità ambientale.
Nell’agenda digitale si afferma con più forza l’intreccio fra ICT e ambiente. Nessuno è escluso dal pensarci, dall’orientare i propri consumi e i propri comportamenti. Soprattutto gli sviluppatori, i sistemisti, ricercatori informatici e quelli dovranno inserire questo aspetto nelle loro progettazioni, nei loro contratti di servizio, nelle loro ricerche. Saranno necessarie nuovo figure professionali, a tutti i livelli, capaci di comprendere e valutare.
Servono dunque indicatori, metriche, standard di riferimento: per i consumatori e per le imprese.
Vanno definite con chiarezza clausole nei contratti di servizio esigendo trasparenza su di esse da parte dei fornitori – è non è affatto banale.
Si tratta un’opportunità straordinaria a cui prepararsi nell’attesa del dopo Covid-19: un’ICT pervasiva e ambientalmente sostenibile. Non ci sono scorciatoie miracolose o soluzioni semplicistiche. Il passaggio dal reale al virtuale con la valutazione dell’impatto ambientale netto – ai fini dei renderlo minimo – è complessa e richiede competenze multidisciplinari. È difficile, ma è possibile. Si deve solo cominciare a farlo, innanzitutto imparando a riconoscere un lavoro serio da un banale green washing.
Oggi siamo tutto diventati più edotti su aspetti epidemiologici, medici, ma anche economici o organizzativi, che ignoravamo; abbiamo assistito in diretta al come si interallaccino fra loro. Abbiamo forse iniziato a riflettere sulla complessità di un sistema. È stato possibile perché ci abbiamo sbattuto il naso contro e dunque ci siamo informati, ci hanno informato, ci abbiamo speso tempo, energia e soprattutto attenzione. Attenzione seria, non superficiale.
Questa correlazione stretta fra micro e macro livello è il cuore dei sistemi complessi – che nel momento corrente significa in primis comprendere come lo stare a casa si ripercuota su tutta la catena del contagio. Un micro comportamento che in una vasta popolazione produce un effetto macroscopico.
Proprio l’approccio ai sistemi complessi, anche quando il cigno nero se ne sarà andato, potrebbe diventare quello consueto da applicare all’intreccio fra ICT e ambiente.