l'analisi

Emergenza psicologica in quarantena: sedute video per trattare gli effetti psichici

Le sedute psichiatriche in videochiamata sono diventate una necessità in questo periodo di quarantena e non impediscono di operare ponendo al centro il primo fra i concetti fondamentali della psicoanalisi: l’inconscio. Ma, in attesa della “fase 2”, ci si chiede come evolverà questa modalità clinica

Pubblicato il 22 Apr 2020

Roberto Pozzetti

Psicoanalista, Professore a contratto LUDeS Campus Lugano, Professore a contratto Università dell'Insubria, autore del libro 'Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali', già referente per la provincia di Como dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia

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L’emergenza causata dal Covid-19 sta diventando anche psicologica e psichiatrica. Scenari relativi alla pandemia irrompono anche nei sogni, determinando risvegli allarmati e un tipo di sonno dalla qualità ben poco riposante.

Nessun clinico, in questo complesso contesto, mette in discussione il valore, quantomeno di sostegno, assunto dai dispositivi digitali e soprattutto dalle sedute svolte da remoto.

L’interrogativo che bisogna porsi ora, in attesa di entrare nella “fase 2”, è relativo all’evoluzione di queste modalità cliniche.

Sedute psichiatriche in videochiamata

Partiamo, da alcuni dati significativi: nel 2015, grazie alla psichiatra argentina Analy Werbin, venne promossa una ricerca sui percorsi psicoanalitici effettuati a distanza da parte dell’IPA (International Psychoanalytical Association), la più numerosa organizzazione mondiale di analisti fondata a suo tempo direttamente da Sigmund Freud. La domanda posta ai propri soci e ai candidati soci era: “L’analisi a distanza è una psicoterapia psicoanalitica?”. Le risposte furono per il 34% no e per il 41% per sì mentre il restante 25% dichiarava di trovarsi ancora in fase di studio della questione. Sarebbe interessante sapere cosa risponderebbero adesso, dato che l’emergenza indotta dall’epidemia di coronavirus ha portato la maggior parte dei clinici a rivedere la propria posizione nei confronti dei dispositivi digitali. Se molti li giudicavano come la peste, ora sono rimasti in pochi ad avere un atteggiamento che li osteggia decisamente. Io stesso, pur utilizzando da tanti anni e molto frequentemente i dispositivi digitali negli scambi preliminari che precedevano l’inizio del trattamento, avevo optato per non svolgere mai una vera e propria seduta online. Dinanzi al protrarsi della quarantena, con una dose di flessibilità che trovo saggia, mi sto ricredendo.

Diversi colleghi hanno maturato una solida esperienza quanto ai trattamenti svolti nel web. In Italia, uno dei primi a occuparsene è stato l’amico Paolo Migone, di Parma, il quale ha avuto il privilegio di un percorso formativo, professionale e personale, negli Stati Uniti. Sulla scorta di una ventennale prassi, egli sostiene che un trattamento online è sicuramente diverso da uno offline ma che questa differenza sia altrettanto evidente fra due percorsi analitici offline: ogni esperienza clinica di orientamento psicoanalitico è diversa in quanto volta alla singolarità di ciascuno.

Non siamo ancora in grado di costruire una teorizzazione ben precisa sulla pratica delle sedute in videochiamata in un momento come quello della quarantena. Elaborare una teoria fondata su dei concetti solidi e stabili implica un tempo secondo, un periodo successivo. Soltanto in una fase susseguente, a posteriori, quando avremo raccolto dei dati consistenti e statisticamente significativi, con il senno e la saggezza di poi, saremo in grado di rendere ragione di un’emergenza senza precedenti nella nostra storia. Assistiamo a una sorprendente infatuazione per le sedute online da parte di alcuni fra i colleghi che non ne avevano mai svolte, caratterizzati da un entusiasmo per la novità per certi versi analogo a quello dei ragazzi dinanzi a un moderno videogame e dalla convinzione di avere colto delle opportunità speciali nei trattamenti online; abbiamo anche riscontrato il permanere di una chiusura da parte di altri i quali, adducendo motivi relativi al preservare il rigore del setting analitico senza scadere in un rispecchiamento narcisistico indotto dal vedersi nello schermo del computer, sottolineano l’impossibilità di operare secondo il filone psicoanalitico e hanno deciso di sospendere sine die le sedute in attesa di un allentarsi delle restrizioni prudenziali relative al Covid-19. Ogni presa di posizione risulta senza dubbio frutto di un’ampia riflessione ed è del tutto rispettabile. Sarebbe controproducente incitare un clinico a operare secondo modalità che non gli si addicono e alle quali non crede.

Quale piattaforma per le sedute in videochiamata

Dal mio vertice, appena si è propagato il virus in Lombardia, ho iniziato a selezionare le piattaforme digitali. Avendo usato molte volte Skype per le call istituzionali con colleghi di varie parti del territorio nazionale, non disdegno di svolgere sedute su questa piattaforma che è senza dubbio la più utilizzata dai colleghi di tutto il mondo. Da tempo, si svolge un programma di formazione online per psicoanalisti cinesi e dell’Europa orientale afferenti alla suddetta IPA i quali avrebbero evidentemente molte difficoltà a svolgere una propria analisi nell’Europa occidentale o negli Stati Uniti. A questo proposito, i coniugi Fishkin, analisti in Pennsylvania, e la collega del Maryland Jill Savege Sharff riportano l’incapacità di discriminare i protocolli delle sedute condotte da remoto o in presenza da parte di allievi e docenti dei loro programmi di formazione psicoanalitica ai quali avevano sottoposto dei resoconti relativi ai passaggi di alcune cure. Personalmente, ho associato Skype anzitutto a contesti di lavoro collettivi preferendo dunque orientarmi, nella maggior parte dei casi, verso un’altra piattaforma più adatta alle sedute analitiche. Quella che pare attualmente maggiormente in voga, nonostante un recente hackeraggio, è Zoom. Operando una selezione e una cernita fra i vari dispositivi, ho trovato Whereby che mi pare di semplice e immediata fruibilità per tutti e maggiormente affine al mio modo di operare nella pratica della psicoanalisi. Basta inviare il link di Whereby, via mail, al paziente; questi clicca sul link e accede direttamente alla stabile “stanza virtuale”.

Alcuni punti relativi al trattamento online prescindono dalla quarantena; basti considerare le richieste di svolgere sedute in videochiamata in caso di trasferimento all’estero in paesi nei quali non vi sono ancora analisti, in caso di donne in gravidanza a rischio che rende delicato qualunque spostamento per l’incolumità del nascituro, in alcuni casi di intensi attacchi di panico tali da determinare forme di ritiro sociale che giungono talvolta sino al livello dei casi cosiddetti hikikomori. A tal proposito, si tende a concordare sul fatto che il dispositivo delle sedute online funziona meglio dopo una precedente fase di trattamento offline che permette di lasciarsi andare al metodo della libera associazione, essendosi già instaurato un costruttivo clima di fiducia ed elaborazione. Quando si è condiviso un luogo anche fisico di lavoro clinico, aumentano le opportunità di riferirsi a questi ricordi come elementi volti a corroborare la qualità dei trattamenti da remoto. In tale prospettiva, le sedute da remoto costituiscono un intervallo temporaneo da situarsi in una più vasta esperienza analitica.

L’emergenza psicologica in quarantena

Alcuni fattori relativi al ricorso ai dispositivi digitali sono specifici dell’emergenza e del confinamento, poco riproducibili in un’altra condizione. Vi è, quindi, la situazione circoscritta e spesso drammatica delle videochiamate con pazienti contagiati dal Covid-19. Sulle caratteristiche peculiari dell’emergenza coronavirus, un importante e corposo documento è quello redatto dalla cinese Zhejiang University School of Medicine, in base all’esperienza maturata nei mesi scorsi; vi si trovano anche alcune pagine dedicate alla componente psicologica. Tradotto in italiano, lo si scarica gratuitamente dal sito Milano Finanza. Viene riportata la frequente presenza di una serie di vissuti psicopatologici in pazienti positivi a questo nuovo virus: rimpianto, risentimento, solitudine, impotenza, depressione, ansia e fobia, attacchi, irritazione e privazione del sonno. Stress psicologico è stato riscontrato nel 48% dei pazienti durante l’ammissione in ospedale. Alta risulta anche la percentuale di pazienti deliranti.

Ho già citato nel mio precedente contributo pubblicato, a proposito di ansia e panico indotti dal coronavirus, il recentissimo articolo a cura di Samantha Brooks e suoi colleghi del King’s College di Londra, The Psychological impact of quarantine, pubblicato sulla celebre rivista The Lancet. Vi vengono sottolineati i rischi di sviluppare stati di confusione, ansia, depressione, rabbia, insonnia soprattutto dinanzi al non sapere i tempi della quarantena e alla frustrazione per le restrizioni della propria libertà individuale sia pure in nome di un sommo bene comune.

L. Hawryluck e colleghi, nel 2004, nella città canadese di Toronto, hanno studiato gli effetti della quarantena dovuta all’epidemia di SARS. Hanno riscontrato disturbi depressivi nel 31% dei casi, crescente con l’aumentare dei giorni di restrizioni, senza differenze molto salienti fra soggetti single e soggetti sposati.

Quanto allo smart working, molto elogiato da tutti soprattutto in fase di quarantena, aziende rinomate come Microsoft e Deloitte hanno attivato una collaborazione con professionisti della salute psichica per fornire aiuto ai propri dipendenti stressati dal lavorare al proprio domicilio.

Non sono così inconsueti momentanei episodi deliranti in fase di epidemia. Elliott B. Martin Jr. ha riportato nel marzo 2020, sulla rivista Psychiatric Times, dei resoconti relativi a tre casi di fugaci scompensi psicotici, nel contributo intitolato Brief psychotic disorder triggered by fear of coronavirus?

Un’indagine statistica circa i principali problemi tipici di una vita confinata è stata commissionata dal CNOP (Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi) al noto Istituto Piepoli. Le limitazioni che pesano maggiormente sono risultate: non potersi relazionare con persone fuori casa (51%); non poter fare sport all’aperto (27%); avere pochi spazi a disposizione (24%); non poter andare al lavoro (20%); dover convivere forzatamente (9%).

L’emergenza, come abbiamo già ricordato, sta diventando dunque anche psicologica e psichiatrica.

Non è certo dovuta soltanto a incompetenza la gradualità degli annunci delle restrizioni da parte delle istituzioni governative: se avessero immediatamente comunicato la decisione di un lockdown di due o tre mesi, le reazioni di alcuni soggetti sarebbero state incalcolabili ma certamente rischiose, inconsulte, impulsive. Basti ricordare l’assalto ai supermercati a fine febbraio, nei giorni in cui sono stati accertati i primi casi di Covid-19 sul territorio nazionale, con interi scaffali svuotati per il timore di rimanere senza viveri; oppure la corsa verso la Stazione Centrale di Milano in cerca di una via di fuga verso il Sud Italia in occasione dei Decreti che sancivano il divieto di spostarsi. Si tratta di condotte motivate da un’agitazione, da un timor panico, da un impeto, da una veemenza, da una visceralità irrazionale, che sono volte a proteggersi ma si dimostrano paradossalmente ancor più pericolose dato il rischio di esporsi al contagio in luoghi rischiosi poiché caratterizzati da assembramenti come i centri commerciali o i treni e di trasmettere il virus persino ai propri cari in contesto intrafamiliare.

Credo nessun clinico metta dunque attualmente in discussione il valore, quantomeno di sostegno anche se non di più ampio attraversamento dei punti nodali della propria organizzazione psichica inconscia, assunto dai dispositivi digitali e soprattutto dalle sedute svolte da remoto. Per alcuni è soprattutto parlare e ascoltare la voce rassicurante del proprio analista a instillare una tranquillità che placa l’inquietudine relativa alla quarantena; per altri, vedere lo studio dove si svolgono le consuete sedute attraverso lo schermo del proprio smartphone conferma la stabilità del setting e garantisce una tenuta per il futuro di questo luogo placido.

Non mancano le nuove domande d’aiuto volte anzitutto a sottrarsi alla fame d’aria, al soffocamento indotto dal restare nel proprio domicilio quando si avrebbe invece tutta l’intenzione di uscire, di incontrare amici e partner vivendo una serie di esperienze ben più dinamiche, stuzzicanti e allettanti. Altre volte, la richiesta di trattamento ci viene posta per l’emergere di difficoltà relazionali nel nucleo familiare che la convivenza forzata fa emergere in tutta la loro esplosiva drammaticità. Pare che a Wuhan vi sia stato un incremento delle domande di divorzio al termine del lockdown. In ogni caso, si tratta di domande di soccorso che optano per il trattamento online.

Quale futuro per le sedute in videochiamata

Nel momento in cui stiamo entrando nella cosiddetta “fase 2”, ci si interroga sull’evoluzione di queste modalità cliniche. Fino al 2019, il digitale veniva usato, in varie forme (contatti via mail, messaggio Whatsapp in attesa della famosa spunta blu, vocale in Messenger, eccetera), soprattutto per domandare un primo appuntamento o per succinte comunicazioni come quella di un lieve ritardo alla seduta o di una variazione di giorno dell’appuntamento; erano comunque già più frequenti le domande di trattamento giunte online rispetto a quelle formulate al telefono. Nettamente minoritarie erano, invece, le richieste di svolgere tutto il trattamento da remoto. Come scritto poc’anzi, in tempi di emergenza da pandemia, le richieste cliniche sono quasi sempre relative a cure da svolgersi a distanza, almeno per qualche tempo. Quando verrà trovato il vaccino per curare il coronavirus, le domande di consulenza in videochiamata torneranno a essere rare oppure costituiranno una componente non minoritaria della clinica psicoanalitica? Superata la fase della pandemia, quando le condizioni di sicurezza verranno in buona parte ristabilite, sarà soltanto una ristretta percentuale di esseri umani a chiedere sedute online? Non ho la sfera di cristallo per prevederlo ma considero probabile una diminuzione soltanto parziale di questo tipo di richieste. Molte persone rimarranno timorose nel frequentare luoghi affollati come gli ospedali, i centri clinici, gli studi dentistici, il Pronto Soccorso ma anche gli studi privati. Opteranno intanto per rimandare gli appuntamenti finché l’agitazione, l’angoscia, la sofferenza o il dolore non diverranno irresistibili e intollerabili, con il delicatissimo rischio di trascurarsi. Propenderanno ancora spesso, là dove il contatto con il corpo sembra non indispensabile, per una maggiormente tutelante consulenza a distanza. Credo varrà anzitutto per chi soffre di attacchi di panico, di fobie o di tratti ipocondriaci. Ne usufruirà chi rimarrà intimorito dalla presenza corporea dell’analista o dall’idea di incrociare altri pazienti in sala d’attesa con l’eventualità di venire contagiato, ardua da estirpare radicalmente.

Insisto tuttavia nel credere che l’incontro dei corpi nella stessa stanza risulti insostituibile. Per me, il tempo dello spostamento per recarsi all’appuntamento configura un significativo momento di elaborazione, lo stringersi le mani all’inizio e al termine di ogni seduta rimane un istante di intimità importante, avvertire certe emozioni e talune sensazioni nel momento in cui il corpo dell’analista rasenta quello del paziente resta qualcosa di essenziale e impossibile da raggiungere allo stesso modo online. La seduta in presenza dell’analista offre delle opportunità di giungere a un livello realmente più intimo. Offre molteplici opportunità in più. Dispiega un corpo a corpo fra analista e paziente che va a incidere in modo tagliente sui sintomi, sulle inibizioni e sulle varie forme d’angoscia.

Gillian Isaacs Russell è una psicoanalista di origine inglese ma trasferitasi negli USA la quale eseguito numerosi trattamenti online e supervisioni da remoto a colleghi, anche e soprattutto colleghi cinesi. Nel 2015, ha pubblicato un libro tradotto in italiano con il titolo di Psicoanalisi attraverso lo schermo. La tesi principale della Russell è che le relazioni filtrate da uno schermo si limitano agli “stati mentali”, il che non è comunque poco. Hanno invece meno efficacia sui più intimi “stati dell’essere”.

Todd Essig, nella prefazione del libro della Russell, riporta con una certa preoccupazione quelle applicazioni relative all’intelligenza artificiale come SimSensei e MultiSense.

SimSensei, realizzata dall’Istituto per le Tecnologie Creative (ICT) dell’University of Southern California, è un dispositivo che identifica segnali di depressione o ansia analizzando la mimica facciale, la postura del corpo e gli elementi linguistici; in questo risulta analogo alle App di salute mentale statunitensi Calm e Woebot sulle quali ho scritto qui alcuni mesi fa o all’ancor più popolare Sanvello che ha oltre due milioni di utenti registrati. MultiSense, progetto inglese il cui team è composto da professori o PhD di università, si pone l’obiettivo di approfondire le ricerche su quel campo ancora misterioso che è la sinestesia. Un noto scienziato, diagnosticato come autistico, caratterizzato dalla sinestesia è Daniel Tammet ai cui lavori ho fatto riferimento nell’articolo sui dispositivi digitali nella relazione educativa e nel trattamento clinico dei disturbi dello spettro autistico. Essig teme che il trattamento psicoanalitico possa un giorno finire con il venire automatizzato, togliendo quella componente umana che vi è tuttora indispensabile.

Di fatto, l’enorme dibattito che si è aperto circa le opportunità e i limiti del ricorso alle videochiamate va ad amplificare un argomento di interesse comune già da alcuni anni. In questa fase, il sito della Società Psicoanalitica Italiana ospita diversi contributi, anche divergenti, sull’argomento di maggior attualità per noi clinici; il suddetto CNOP raccoglie una ricca bibliografia sulla questione e, in data 10 aprile 2020, promuove un analogo questionario online dei cui risultati non abbiamo purtroppo ancora contezza; la stessa Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, della quale sono membro, attiva una rivista aperiodica online dal titolo Rete Lacan nella quale molti colleghi narrano propri vissuti e provano a studiare l’esperienza in progress delle videochiamate all’epoca del Covid-19.

Alcuni colleghi sostengono sia un’opportunità quella di vedere il domicilio dei pazienti e di raccogliere in questo modo ulteriori elementi sulla loro vita. Io credo sia un dato di esigua rilevanza e che aggiunge ben poco all’analisi in quanto l’esperienza analitica si basa su una certa sospensione dei dati della realtà quotidiana per far emergere la verità psichica e la realtà psichica. Altrimenti, se fosse davvero cruciale rastrellare queste informazioni, si dovrebbe spiare la pagina Facebook o il profilo Instagram di un paziente per svolgere un’analisi. Quello che risulta fondamentale è, invece, quanto il paziente dice e porta in seduta, indipendentemente dalle modalità evidentemente più informali e familiari che gli incontri in videochiamata producono.

Interessante è una ricerca del noto JAMA (Journal of American Medical Association) del 2012 circa le eventuali differenze fra i trattamenti telefonici e quelli in presenza. Si basa su 325 casi di pazienti trattati nell’arco di diciotto sedute, principalmente per depressione, nell’area di Chicago, secondo l’approccio cognitivo-comportamentale. I due gruppi non presentavano significative disparità alla fine dei trattamenti. La vera distinzione si coglieva nel follow-up, a sei mesi di tempo dalla conclusione del percorso: i pazienti che avevano ricevuto il trattamento in presenza presentavano una maggior stabilità dei risultati terapeutici rispetto a coloro che lo avevano svolto al telefono. Sono sicuro che questi dati sarebbero ancor più nitidi se il percorso clinico fosse di orientamento psicoanalitico.

Senza alcun dubbio, vi sono pazienti che si trovano maggiormente a proprio agio nelle sedute da remoto. Si sentono protetti, riparati, al sicuro dal rischio dell’incontro corpo a corpo con l’analista. Dal rischio di un contatto corporeo, nella forma di una carezza o di una spinta. Per questo, optano per svolgere il trattamento in videochiamata pur avendo l’opportunità di reperire un clinico nella propria zona. I casi di ragazzi hikikomori ne costituiscono l’esempio più lampante.

Non sono pochi neppure i clinici che percepiscono come maggiormente congeniale al proprio stile l’operare a distanza. Questo avviene talvolta per ragioni di economicità di denaro e di tempo: le sedute online non richiedono l’onere della locazione di uno studio privato effettuandosi non di rado dal proprio domicilio e sono maggiormente compatibili con altre attività professionali, sempre più richiedenti oggigiorno una flessibilità d’orario, soprattutto quando i pazienti si trovano in parti del mondo che hanno altri fusi orari. Questo avviene anche per caratteristiche relative alla soggettività di alcuni fra questi colleghi, maggiormente volti a un distanziamento rassicurante per loro stessi come meccanismo di difesa dall’angoscia dell’incontro in presenza con l’incremento di una certa attivazione adrenalinica, in assenza della rassicurazione offerta dallo schermo e dalla tastiera.

Quello su cui non vi sono dubbi è che le sedute in videochiamata non impediscono affatto di operare ponendo al centro il primo fra i concetti fondamentali della psicoanalisi: l’inconscio. La nascita stessa della psicoanalisi viene solitamente datata nel momento della pubblicazione del celebre e corposo volume di Freud L’interpretazione dei sogni, nel 1900. Freud vi sostiene che i sintomi sono formazioni dell’inconscio e che il sogno, esprimendo un appagamento del desiderio attraverso censure e deformazioni basate su condensazioni o spostamenti, diventa la via regia per giungere all’inconscio stesso. I sogni vengono raccontati, studiati e collegati a un contenuto latente attraverso la regola della libera associazione, anche nelle sedute online; le formazioni oniriche sono analizzabili e interpretabili, anche nelle sedute online. In videochiamata, si fanno lapsus, per esempio mentre viene raccontato un sogno: questo permette uno spostamento dal piano dell’intenzione conscia alla sovversione del soggetto che l’inconscio induce. Accade di dimenticare qualcosa in occasione delle sedute in videochiamata, capitano degli atti mancati che costituiscono un discorso riuscito. Dato che l’inconscio è strutturato come un linguaggio e che il linguaggio è la condizione dell’inconscio, nulla vieta di attraversare quest’altra scena della quale ci si trova inizialmente inconsapevole anche svolgendo sedute da remoto.

Molto più improbabile è che si riesca a giungere al cuore del nostro essere, al nostro essere più intimo costituito da quell’altro concetto fondamentale della psicoanalisi che è la pulsione. Un fondamentale oggetto causa di desiderio e di godimento come la voce, sul quale si impernia la pulsione invocante, risulta sia deformato che amplificato online. La voce dell’analista può venire percepita come troppo ravvicinata oppure come simulata ma risulta, in ogni caso, sensibilmente diversa. Lo iato fra il momento in cui si dice e il momento in cui si ode determina non di rado delle confusive sovrapposizioni di voci fra analista e paziente. Non essendoci l’occasione di interagire tramite un oggetto condivisibile vengono meno molte opportunità di litura della pulsione stessa. Significativa è su questo argomento la testimonianza della collega irlandese Florencia Shanahan la quale, non potendosi recare dal proprio analista a Parigi per alcuni mesi quando aveva subito dei repentini lutti in famiglia, si è giovata in quel frangente di sedute telefoniche e con Skype che le sono state di grande supporto; il passaggio cruciale della fine analisi si è tuttavia concretizzato soltanto dopo tale fase, quando ha lasciato inavvertitamente un oggetto come il suo accendino – evidentemente legato al fumare e alla pulsione orale – sul divano dell’analista.

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