Ancora in tempo per i buoni propositi di inizio anno, approfitto dell’ospitalità di Agenda Digitale per formulare un auspicio in tema: che il 2017 possa finalmente essere l’anno della concretezza digitale, ossia l’anno in cui dopo tanto provare (e sbagliare) il nostro Paese possa finalmente essere all’altezza delle sfide e delle opportunità del digitale.
Le condizioni possono essere propizie: è passata la sbornia delle start up dei servizi come futuro del nostro sistema produttivo e oggi più razionalmente si torna a parlare di ecosistema in cui convivono imprese nuove o esistenti che utilizzano le tecnologie per produrre valore anche innovando l’esistente; si è finalmente insediato un super-commissario certamente competente e dotato almeno sulla carta di visione e poteri ragguardevoli; soprattutto il Parlamento ha licenziato nella legge di Stabilità uno dei più ambiziosi programmi di sempre per l’innovazione digitale del nostro sistema produttivo , “Industria 4.0”.
Tre elementi questi, uno di allocazione delle risorse e delle priorità, uno di governance e uno di policy che fanno ben sperare perché aprono almeno potenzialmente ad approcci assai solidi, fondati sulla trasformazione digitale dell’esistente ancora prima che sull’inseguimento di nuovi improbabili paradigmi economici.
Trasformare in senso digitale l’esistente sarebbe per un Paese con la biodiversità economica e le capacità produttive dell’Italia già un ben vasto ed eccitante programma. Potrebbe significare aprire nuove opportunità produttive e nuovi mercati per quelle imprese artigiane che continuano a rappresentare nei numeri e nella qualità produttiva la pietra angolare del nostro sistema produttivo. Anche se i numeri non dicono tutto, dicono comunque molto e gioverà dunque rispolverarli: le micro e piccole imprese fino a 50 addetti sono 4.365.545 ossia il 99,4% delle imprese e il 66,2% degli occupati, le imprese artigiane sono il 22,2% delle imprese e nascono anche oggi al ritmo di 338 nuove imprese artigiane al giorno (le start up innovative nate in Italia nel 3 anni seguiti alla legge sono circa 5500).
All’interno di questa variegata famiglia vi sono imprese come Berto Salotti di Meda, artigiano eccellente del mobile che ha trasformato la sua azienda di divani in una digital company, così efficace nel raccontarsi e vendere online i propri prodotti da essere indicato come esempio per il Made in Italy del futuro da Eric Schmidt in una recente intervista a Repubblica o ancora Artevideo di Palmanova, che realizza l’encoding digitale dei film delle major cinematografiche ed ha ormai bisogni tecnologici e di banda da grande impresa pur rimanendo orgogliosamente un artigiano. Ci sono dunque le “lepri” ma accanto ad esse vi è un enorme potenziale inespresso, fatto di imprese che avrebbero il potenziale per essere i nuovi Berto nei loro settori ma non hanno ad oggi trovato la giusta spinta e soprattutto il giusto ecosistema per assisterle nella trasformazione digitale.
Personalmente ho sempre ritenuto che l’esistenza nel nostro Paese di una vasta fascia (per l’Istat circa il 30%) di cittadini e imprese che non utilizza le tecnologia perché non ne ravvede l’utilità fosse da un lato un segnale preoccupante, e dall’altro rappresentasse una fortissima call to action, ad oggi purtroppo raccolta da pochi.
Includere sempre più soggetti nel grande circo dell’innovazione, ecco un bell’esempio di concretezza digitale.
Come quasi sempre, il lavoro di inclusione è per moltissimi versi meno affascinante della fuga in avanti verso nuove frontiere dell’innovazione. Bisogna spiegare concetti che si davano per scontati e convincere persone semplicemente scettiche, entrare in empatia con le persone, cittadini e imprenditori, per immaginare come il digitale possa davvero migliorare la vita. Bisogna informare, formare, fornire consulenza con un approccio nuovo, che privilegi l’allargamento della sfera di utilizzo del digitale rispetto alla disruptiveness o alla vendita di nuovi gadget tecnologici.
Includere nuovi cittadini, lavoratori e imprenditori nella sfera di utilizzo del digitale sarebbe un ottimo investimento anche per i produttori di macchine, software e servizi, perché solo una platea più vasta di acquirenti acculturati sarà in grado di rompere definitivamente il tetto di cristallo della diffusione delle soluzioni digitali nel nostro Paese a partire dal commercio elettronico che cresce si ma ancora a ritmi troppo lenti.
L’inclusione sarebbe anche un dovere morale nei confronti di quei lavoratori, che ormai si contano a decine di migliaia alla volta, espulsi dal ciclo produttivo a causa delle razionalizzazioni imposte dalla competizione nell’era digitale. Non è più possibile, né giusto, derubricare la realtà della disoccupazione tecnologica a fenomeno di un fosco futuro cyberpunk o rispondere alle preoccupazioni con la mezza bugia secondo la quale i posti persi saranno recuperati grazie alle stesse tecnologie. Vi basta andare nella vostra banca per capire che il problema è presente, molto serio e che nessuno ha la più pallida idea di come risolverlo (e ovviamente non si può saltare giù dal treno in corsa).
Ancora una volta, come nel caso dell’inclusione digitale del pensionato settantenne o dell’artigiana della calzatura maceratese, si tratta soprattutto di fare bricolage di soluzioni, nella razionale speranza che allargare la base di utilizzo delle tecnologie possa creare nuove opportunità di crescita economica e di lavoro.
Certamente, ce lo dicono gli indicatori e il contatto diretto con le imprese piccole ma estremamente dinamiche e internazionalizzate, c’è una fame di prodotti artigianali italiani, di oggetti con una storia, un senso e in grado di parlare direttamente a chi li acquista che ha notevoli margini di crescita.
Questa domanda di beni e soluzioni non standard, questa “economia del su misura” potrebbe permettere al nostro Paese una crescita nei prossimi anni fino a due punti di PIL, principalmente grazie all’inclusione digitale delle imprese del Made in Italy ad alto potenziale. Mi sembra una motivazione sufficiente per incoraggiare il circo digitale italiano ad una concretezza sino ad oggi mancata.
Già nelle prossime settimane, con i decreti attuativi di “Industria 4.0 e la piena entrata in vigore del programma avremo modi di comprendere se la direzione sarà finalmente virtuosa, ossia se gli strumenti di inclusione dei cittadini e delle imprese alla manifattura digitale avranno sufficiente spazio rispetto alle esigenze a brevissimo dei venditori di tecnologia. Similmente, speriamo che Diego Piacentini voglia assumersi davvero la leadership dei processi di inclusione digitale, fugando i dubbi che i profili eccessivamente tecnici della sua squadra avevano sollevato circa il rischio di una software house a Palazzo Chigi, della quale davvero non si avverte l’utilità.
La combinazione di strumenti efficaci e di una leadership competente e in grado di pensare in italiano ma con un occhio al mondo potrebbe dunque, se sorretta da tutti gli stakeholder del sistema, produrre in questo 2017 risultati forse poco roboanti ma molto utili e interessanti, in grado di impattare positivamente sul nostro benessere economico, sulla nostra qualità della vita e sul nostro futuro.
Se Agenda Digitale vorrà ancora concedermi la sua ospitalità, cercherò nei prossimi mesi di raccontare se i buoni propositi di inizio anno saranno stati seguiti da azioni coerenti o saranno rimasti lettera morta, fra la dieta e la palestra.