INNOVAZIONE

Giungla sanità digitale, i 5 pilastri per il decollo di un sistema unico

Senza la riprogettazione di un’architettura nazionale smart, soluzioni e app rischiano di rimanere appese nel vuoto senza liberare il potenziale delle nuove tecnologie. E anzi lasciando spazio a freni burocratici e inefficienze. Ecco le strategie per una “Internet della sanità”

Pubblicato il 03 Giu 2020

Mauro Moruzzi

Dipartimento Trasformazione Digitale-Presidenza del Consiglio dei Ministri, Scuola di Welfare Achille Ardigò

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C’è voluto il coronavirus per toccare con mano i punti deboli di una Sanità digitale frammentata, dove l’innovazione trova spazio solo “in ordine sparso”. Ma l’emergenza non ha azzittito la burocrazia. Vediamo perché è urgente una riprogettazione dell’architettura digitale e i principali fattori che la ostacolano.

Sanità digitale “unica” contro app sparse

Giancarlo Verona, Rettore dell’Università Bocconi, ha scritto su La Repubblica del 9 maggio che non basta avere il digitale ma occorre anche, in una società moderna, un’architettura digitale. Non solo concordo pienamente con lui, ma aggiungo che nella sanità italiana, alle prese con la drammatica emergenza Coronavirus, c’è tanto digitale sparso ovunque ma manca ancora un’architettura digitale.

Un esempio. Si parla tanto di app per tracciare la diffusione del virus dimenticando che queste app possono esistere soltanto come ultimo tassello della complessa architettura del sistema della sanità de-materializzata. Diversamente non hanno alcuna reale funzionalità. E questa semplice osservazione può essere riferita a tutti i tentativi fatti a più riprese per trovare miracolose soluzioni alla mancanza di servizi on line nella PA con qualche app ‘appesa nel vuoto’.

La prima cosa sensata che il governo e le regioni possono quindi fare, partendo dall’esperienza del COVID 19, è progettare (o, se si preferisce, riprogettare) l’architettura digitale per il sistema sanitario nazionale.

Sappiamo bene che ci sono tante architetture sanitarie digitali – regionali, amministrative, aziendali, di gruppi imprenditoriali privati della sanità – ma a differenza dei sistemi di welfare più consolidati del Nord Europa, quello che manca in Italia e un’architettura unica nazionale del sistema sanitario pubblico: un Internet della sanità. Per architettura unica intendo più cose.

Cosa significa architettura unica

Un sistema interoperabile dove tutti i soggetti (medici e operatori, assistiti, burocrazia di sistema) possono scambiarsi informazioni sicure indipendentemente dalle soluzioni tecnologiche adottate, comprese quelle cosiddette consumer che utilizziamo tutti giorno: WhatsApp, Google, email, Telegraph, Skype, Team e Meet, ecc.. Il fascicolo elettronico e la cartella clinica, come il dossier sanitario, devono diventare strumenti di back office e non di front end. Questi progetti, pensati nella loro semplicità a livello socio-tecnologico da sociologi e medici, sono stati appesantiti e perfino stravolti da un’alleanza tra la burocrazia e gli informatici che li hanno progettati e concretamente implementati. Qui sta la grande confusione che ha creato diffidenze nei cittadini e nei medici verso l’informatica sanitaria; ma anche una miriade di business ‘a silos’, dove ogni fornitore tecnologico ha difeso un suo spazio indipendente nella giungla della dematerializzazione del sistema sanitario.

Per quale motivo non posso accedere al mio fascicolo sanitario elettronico da Google? Cioè dal motore di ricerca che uso per trovare ogni cosa della mia vita. Per quale motivo non posso trasmettere i dati della febbre di mio figlio con WhatsApp (cosa che faccio ormai da qualche tempo con il pediatra di famiglia)? E per quale ragione i dati e le foto che mando sullo stato di salute di un mio familiare non devono entrare automaticamente (e non per qualche labirinto informatico) nel mio FSE?

La stessa domanda può essere posta da un medico che non ha nessuna voglia di smanettare in quel software complicato che si chiama cartella clinica elettronica. Anche la CCE dovrebbe andare in un back office che raccoglie dati utilizzati dai professionisti con metodi molto più abitudinari, ad esempio con un semplice iPad. Se sono un medico, i miei pazienti potrei volerli vedere sul mio tablet, non diversamente da come vedo i miei amici di Facebook. Li potrò osservare assieme ai loro dati che dovranno essere selezionati e aggiornati in riferimento alla patologia che sto trattando (non voglio tutta la storia clinica del paziente!). Non ha importanza se mi trovo in ospedale, in ambulatorio o a casa mia, perché anche un medico può fare dello smart working!

Per lo stesso motivo, medici e pazienti possono tranquillamente dialogare – chiamiamo tutto ciò telemedicina, televisita, telediagnosi a distanza – stando a casa e non soltanto in ambulatorio (c’è tanto bisogno di questo ‘dialogo’ nella riforma della sanità italiana!). Non molto diversamente da come nostro figlio segue, in questi giorni di clausura forzata, le lezioni della scuola dalla sua stanzetta.

Sanità unica nazionale: tutti gli ostacoli

Per assaporare queste pillole di ‘architettura digitale intelligente’, peraltro non nuove e di cui si parla da tantissimi anni, c’è voluto il Coronavirus. Ma l’emergenza non ha azzittito la burocrazia. Ecco allora le prime due obiezioni.

La prima obiezione riguarda la sicurezza dei dati. Nel matrimonio tra sanità e web le informazioni sanitarie della persona sarebbero esposte a ogni possibile rapina e comunque questa procedura entrerebbe in conflitto con le leggi che tutelano la privacy. È un’osservazione spesso priva di un reale fondamento, come tutti i luoghi comuni. Ovvero, tutto è possibile, ma se io fossi l’amministratore malintenzionato di una grande compagnia di polizze assicurative sulle malattie e la vita, non passerei il mio tempo sul web a catturare informazioni. Darei la caccia ai grandi data base pubblici con i dati di tutti gli assistiti con la collaborazione di qualche hacker. A tutela, poi, dell’intimità delle nostre informazioni, è bene ricordare che i cittadini scrivono e dicono ogni giorno sul web cose molto intime e riservate, che non intendono far conoscere a estranei, servendosi Gmail, WhatsApp o Telegram, ecc.. Questi sistemi sono crittografati e non meno sicuri di quelli in uso nella nostra sanità…

La seconda obiezione è che un’architettura aperta sul web sarebbe ingestibile e avrebbe un terribile impatto burocratico con i sistemi che amministrano la salute, a partire dai CUP e dai sistemi di registrazione dei ticket e di pagamento. Questo non è un problema del cittadino e del medico, ma una questione che la burocrazia deve affrontare in una ‘logica di back office’ (cioè senza disturbare l’utente!). Per fare un esempio, se io invio un messaggio whatsapp al mio medico di famiglia con i dati mio figlio e lui, con analogo e semplice sistema, mi risponde con una richiesta di analisi del sangue, sarà un problema del Cup-FSE intercettare questo messaggio e trasformarlo in un e-book di sistema. Cosa tecnologicamente fattibile senza grandi sforzi.

Le stesse semplici modalità possono essere applicate all’attività medica. Il medico può utilizzare il suo tablet che attingerà e fornirà dati alla cartella clinica elettronica dell’ospedale o dell’ambulatorio (e attraverso questa ai repository aziendali, regionali e quindi di nuovo fascicolo sanitario elettronico).

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Primo pilastro: svolta interfaccia medico-paziente

Il Coronavirus ha richiesto un nuovo tipo di rapporto tra territorio (comunità) e ospedali. La tecnologia di cui c’è bisogno per stabilire questo nuovo rapporto home care si chiama in termini scientifici ‘Human Factors’. È quella indispensabile per un pieno decollo della famosa telemedicina (TMC), che non ha mai fatto grandi progressi dopo Guglielmo Marconi che l’utilizzò per i malati sui piroscafi in navigazione.

Le tante commissioni ministeriali che hanno cercato di classificare la TMC hanno sempre trascurato un fattore strategico: la tecnologia adottata deve intercettare usi e modalità culturalmente diffuse e affermate, non importa se da un mercato globale (quello che mi vende il mio iPhone e mi fa scaricare le app) o da abitudini quotidiane. È incredibile che si continui a richiedere complicati livelli d’interoperabilità dei dati quando Google mi traduce automaticamente 250 lingue del pianeta e perfino il dialetto romagnolo.

Quindi il primo obiettivo di una nuova architettura digitale del servizio sanitario nazionale è una gigantesca semplificazione nell’interfaccia utente medico-paziente, un termine assolutamente astruso come tutti i termini inventati dagli informatici, che serve solo per riassumere quello che ho appena scritto.

Secondo pilastro: nuove tecnologie di data mining

Il secondo aspetto di una nuova architettura digitale della sanità pubblica è rappresentato dalla capacità del sistema di interpretare i dati de-materializzati prodotti dalla digitalizzazione, personalizzandoli lato utente, professionista e governance. Sembra una cosa assurda, ma tutto questo oggi non viene fatto. Per due decenni l’informatizzazione sanitaria ha prodotto dati di salute de-materializzati, dal fascicolo sanitario elettronico e dalla dematerializzazione della ricetta medica in poi, con un piccolo problema: questi dati non li guardava nessuno. Quello che appena ho detto non è esatto: i dati li guardano i controllori, cioè figure amministrative che devono stabilire la congruità e la legittimità burocratica della spesa sanitaria. Soprattutto per tutelarsi verso la Corte dei Conti, la quale non casualmente ha avuto al suo servizio i migliori informatici.

Tutto questo non c’entra nulla con la salute perché i dati andrebbero analizzati ed elaborati per garantire un servizio più efficace e non solo più congruente. Se ho tutta la mia storia clinica nel fascicolo sanitario elettronico, non per questo sono in grado di conoscere esattamente l’andamento della mia salute. Una difficoltà che condivido con il mio medico di famiglia il quale osserva perplesso la cartella clinica elettronica dei suoi mille pazienti, aggiornata ogni giorno e ogni notte da centinaia di messaggi del repository aziendale.

In sostanza occorrono tecnologie, software d’intelligenza artificiale in grado di estrapolare tutti questi dati per fornire visibilmente agli attori un’informazione costante, puntuale, personalizzata sulla salute di ogni singola persona, ma soprattutto sulla dinamica di questo stato di salute nel tempo.

È possibile farlo soltanto con un FSE perfettamente funzionante sul territorio nazionale e supportato da un potere di calcolo e da tecnologie di AI. Con algoritmi che esplorano la massa delle informazioni in due direzioni spazio-tempo: nella mia storia clinica e in quella, anonimizzata, di tutti. A supporto quindi di quest’architettura che aggrega i dati di salute di tutti gli italiani occorre potenza di calcolo (in cloud), algoritmi e soluzioni tecnologiche di AI.

Il cittadino avrà una conoscenza costante del suo stato di salute confrontabile, attraverso l’utilizzo dei big data, con la salute di tutti quelli che lo circondano, a partire dalla sua comunità di riferimento. Si pensi al valore di questo ‘confronto’ in tempo di pandemie.

Sto bene o forse sto male, ma è importante per me anche conoscere come stanno gli altri. Il Coronavirus ci ha insegnato che le malattie derivano anche da fattori ambientali e non soltanto personali, genetici.

Terzo pilastro: la personal eHealth

Il collegamento costante, il connected care, del paziente con il sistema medico che lo assiste è il terzo pilastro di una nuova architettura digitale della sanità. Siamo già connessi permanentemente attraverso uno o più strumenti e quando dimentichiamo il nostro cellulare da qualche parte non ci sentiamo poi tanto bene. Dovremmo essere sempre connessi per ragioni di salute. Milioni d’italiani hanno una o più patologie croniche e potrebbero essere costantemente monitorati da semplici device, dal loro cellulare. Questi dati devono entrare automaticamente nel fascicolo sanitario e nella cartella clinica del medico, essere costantemente condivisi tra paziente, medico di famiglia e medico specialista.

Ė la soluzione pHealth, Personal eHealth, di cui si parla da tempo. Quella che dieci anni fa fu proposta come Collaborative Healthcare nel famosissimo bestseller Macrowikinomics. Rebooting Business and the World di Don Tapscott e Anthony D. Williams.

In questa prospettiva la questione dell’app per tracciare la diffusione del Coronavirus assume una dimensione completamente diversa. Non è un’app per sieropositivi o per potenziali ‘untori’, ma l’app per tutti noi; quella che ci tiene costantemente monitorati rispetto ad alcuni parametri d’interesse per la nostra salute.

Posso avere un problema di pressione oculare perché ho una malattia cronica dell’occhio che dipende da questo fattore; altri sono cardiopatici e devono monitorare l’andamento del cuore; altri ancora vogliono semplicemente conoscere ogni giorno i dati del loro colesterolo e della loro glicemia. Poi, le malattie infettive vanno monitorate per tutti con modi rispettosi della tutela della privacy dei cittadini, ma comunque in grado di stabilire l’entità del fenomeno e la sua diffusione territoriale. Essere costantemente connessi, pHealth, ci permette di fare tutte le cose assieme semplicemente restando in collegamento con il nostro FSE che scarica i dati e li invia al medico di famiglia e allo specialista di fiducia.

La telemedicina è organicamente inserita in questo terzo pilastro. La continuità assistenziale non è soltanto riferita al domicilio perché molti pazienti affetti da patologie, anche da COVID, continuano a muoversi per ragioni di lavoro e per altre ragioni più strettamente personali. Quindi vanno seguiti nella mobilità dei loro spostamenti; non solo per esigenze di controllo ma soprattutto per necessità di assistenza.

Riprogettare la TMC è il compito di ogni struttura sanitaria cui fanno riferimento i pazienti patologici. Abbiamo in Italia già diversi esempi positivi. Potrei citare tra i tanti, solo per esigenze di sintesi, il sistema di TMC messo a punto all’ospedale Sacco di Milano in collaborazione con la l’Università Statale; oppure quello in fase di implementazione all’Istituto Nazionale Tumori di Milano come estensione del programma eHealth. L’Istituto Superiore di Sanità ha, tra l’altro, fornito recentemente ‘Indicazioni ad interim per servizi assistenziali di telemedicina durante l’emergenza sanitaria COVID-19’. Connected Care e telemedicina tendono poi naturalmente a evolversi come sistemi eCare, socio-sanitari di presa in carico del paziente, di cui c’è un’ampia letteratura scientifica e socio-tecnica fornita dalla scuola bolognese che fa riferimento agli studi sociologici di Achille Ardigò.

Quarto pilastro: le mappe della governance

Il quarto pilastro di una nuova architettura digitale della sanità è rappresentato dalle mappe della governance sanitaria. Se avessimo avuto mappe territoriali elaborate in funzione delle fragilità di tutte le persone, in particolare di quelle anziane con oltre settant’anni e con più di una patologia, avremmo avuto immediatamente un quadro aggiornato della pericolosità del virus. È uno strumento indispensabile in ogni epidemia ma non soltanto.

Il Comune di Bologna ha un buon sistema statistico costruito in collaborazione con l’università e da molti anni crea con grande precisione mappe territoriali e demografiche di fragilità riferite alla salute, alla diffusione delle patologie più importanti, al reddito familiare, alle relazioni sociali di sostentamento. E, infine, alla fragilità sociale che riassume tutte le fragilità. Ciò permette alla municipalità di programmare l’assistenza e comunque di avere un corretto rapporto tra domanda e offerta di servizi socio-sanitari.

Una procedura di questo genere andrebbe adottata per tutto il territorio nazionale con gli strumenti di calcolo e di supercalcolo di cui disponiamo e attingendo alla massa dei dati de-materializzati prodotto dai diversi sistemi territoriali e in primis dal SSN.

Sono informazioni che non servono soltanto ai decisori, alle persone che hanno responsabilità politiche e amministrative nel sistema assistenziale, ma anche agli stessi cittadini che godono del diritto di disporre degli open data della PA. Da tempo CINECA, uno dei più grandi centri di calcolo europeo delle università, aggrega questi dati di cronicità-fragilità e ha presentato recentemente ai ministeri competenti un progetto per una piattaforma tecnologica nazionale. Interessanti sono poi alcuni prodotti del mercato italiano delle aziende ICT di cui hanno parlato i giornali in questi giorni a proposito di successi ottenuti soprattutto dalla regione Veneto.

Le mappe d’interazione per le fragilità sono il prodotto di cruscotti di business intelligence sanitaria in cui confluiscono tutto i dati delle cronicità-fragilità, oltre a quelli emergenziali sulla diffusione dell’epidemia COVID19; ma anche i Big Data della web analytics e della sentiment analysis. Anche l’opinione e il comportamento dei cittadini, il livello di gradimento delle misure intraprese dalle autorità, sono di estrema utilità alla governance sanitaria.

In una fase iniziale si potrebbe creare una geo-localizzazione ‘a scalare’: dal territorio nazionale a quello regionale, locale fino ai distretti sanitari e alle diverse unità territoriali (come le USCA, Unità Speciali di Continuità Assistenziale per i pazienti COVID19) o alle ‘unità sociali per la fragilità’ sul tipo di quelle istituite nel bergamasco.

Quinto pilastro: rifondare il FSE

Il quinto pilastro dell’architettura digitale è senz’altro quello importante rappresentato dalla riprogettazione del fascicolo sanitario elettronico. Il FSE deve rappresentare il modello comune per gestire tutti i dati sanitari derivanti dal processo di riorganizzazione della sanità messo in atto particolarmente con il COVID19: riorganizzazione dell’accesso in ospedale, telemedicina, teleconsulto, app di tracciamento.

Il fascicolo è uno strumento per porre fine alla frammentazione del dato sanitario già documentata anche dagli interventi su Agenda Digitale, in particolare da Fabrizio Massimo Ferrara, docente dell’Università Cattolica, che propone di adottare ‘un modello di riferimento comune’… ‘un Clinical Data Repository, utilizzabile all’interno delle singole aziende per far confluire e normalizzare – come nel datawarehouse amministrativo – i dati dettagliati dei vari sistemi, in modo da renderli disponibili a tutte le applicazioni che ne abbiano necessità per la cura del paziente e per eseguire le analisi statistiche ed epidemiologiche’.

Questo modello, a mio parere, non può che essere quello della piattaforma regionale-nazionale del FSE, come in parte è già da alcuni anni. Il FSE è la vera ‘community per il governo dei dati’. Sarebbe sbagliato ripartire da capo azzerando quasi un ventennio di lavoro che ha portato alle reti regionali del fascicolo.

Obiettivo: un grande Facebook della Sanità

Per raggiungere questo scopo abbiamo due strade: procedere nel lento e costoso cammino d’indicizzazione e strutturazione di tutti i dati sanitari secondo protocolli e standard condivisi dalla comunità internazionale (percorso costoso, laborioso, con tempi lunghissimi); oppure adottare tecnologie di AI e di supercalcolo in grado di leggere tutti i dati che arrivano dai cittadini e dai medici in un punto determinato. E questo punto non può non essere la rete dei repository aziendale-regionale-nazionale che supportano il FSE e che non può non avere carattere pubblico.

Una specie di grande Facebook della sanità (anche se il Facebook vero, con oltre trenta milioni di cittadini italiani connessi, è ancora più grande).

In sostanza, i modelli di standardizzazione internazionale dei dati devono certamente essere un punto di riferimento per il mercato ICT della sanità italiana, ma queste tecnologie vanno applicate al ‘terzo livello’ dell’architettura eHealth: quello cloud di interoperabilità tra i repository.

Abbiamo in più occasioni, anche in questa sede, ricostruito la storia del fascicolo sanitario elettronico che nasce da laboratori sparsi in alcune regioni dell’Italia settentrionale e in particolare in Emilia-Romagna (Cup2000), Lombardia (Lombardia Informatica, oggi Italia) e Veneto (Arsenal), con rapide estensioni in Trentino e Valle d’Aosta (INVA).

Il FSE non ha completato il suo percorso per diventare: 1. un sistema nazionale; 2. uno strumento del SSN utilizzato da tutti (o quasi tutti) i cittadini e i medici. Ciò a causa della situazione di inadempienza di alcune regioni del sud, ma soprattutto per un’obsolescenza di progettazione riferita all’interfaccia utente (cittadino, medico) e a una mancata integrazione con tutti i processi sanitari (carenza di swich tra digitalizzazione dei dati e processi operativi).

Intelligenza artificiale nel back office

Dell’interfaccia utente si è già detto. Il FSE deve diventare un sistema di localizzazione di tutte le informazioni derivanti dall’interazione tra pazienti e medici dentro e fuori l’ospedale. Un back office dotato di AI, in grado tra l’altro di assorbire altri sistemi sparsi come i Cup e, in ambito socio-sanitario, gli sportelli di assistenza ai cittadini. L’esperienza del Coronavirus ha dimostrato che queste diverse ‘interfacce’ non possono essere disgiunte in un progetto di forte territorializzazione della sanità.

Ciò è indispensabile per fornire uno strumento socio-sanitario di monitoraggio e servizio per la presa in carico, in forme non pericolose e non umilianti, di tante persone con livelli crescenti di non autosufficienza. L’Italia è fortemente invecchiata e il COVID ha gettato un drammatico fascio di luce su tante persone che vivono di più ma male.

In sostanza il nuovo fascicolo, che dobbiamo al più presto progettare, dovrà rendere unitario in tutto il paese una specie di piccolo cloud data center personale per gli italiani, in grado di intercettare tutti i dati di salute lasciati nel tempo e nello spazio e rileggerli con gli algoritmi di intelligenza artificiale. Per fare una balanced scorecard della nostra salute.

Ma poi, subito dopo, per elevare il livello di condivisione delle informazioni tra medici, famiglie e comunità. Gli stessi cittadini possono costituire gruppi, micro-social, per scambiarsi informazioni di salute e buone pratiche anche in riferimento a specifiche patologie. In sostanza, per fare comunità sul dato di salute.

E noto che già molte persone si sono organizzate in rete per poter meglio condividere situazioni critiche per la salute e quindi anche i progressi della scienza medica e le migliori terapie. Stupisce che nell’era super tecnologica del COVID19 si è verificato un punto di caduta di questa socializzazione peer to peer della malattia tra le famiglie. Al tempo dei social network iper diffusi i malati Coronavirus e i loro familiari si sono trovati spesso isolati, arrivando in molti casi a perdere il contatto con propri cari colpiti dal virus e a volte deceduti.

Non possiamo permettere che un fatto del genere, come quello accaduto in particolare nelle case di riposo e nelle RSA, possa di nuovo ripetersi.

Cup e FSE esclusi dagli attrezzi “emergenziali”

Voglio poi ricordare che sia il fascicolo che il CUP sono stati, di fatto, esclusi come strumenti attivi del periodo emergenziale, anziché favorirne uno sviluppo per poter disporre di un eccezionale punto di osservazione e di informazione scientifica. Il fascicolo, infatti, permette il collegamento con i medici di famiglia e se tutte le segnalazioni giunte ai medici di famiglia, anche tramite una semplice telefonata di un cittadino, fossero state registrate nel FSE avremmo avuto la possibilità di governare l’epidemia in modalità radicalmente diverse.

Questa è una lezione importante per la riprogettazione del fascicolo sanitario elettronico. Le informazioni raccolte dalle famiglie attraverso i medici di base devono essere portate con il fascicolo al centro del sistema ed essere costantemente disponibili agli amministratori della sanità e ai cittadini.

In conclusione: il fascicolo di nuova progettazione potrebbe essere suddiviso in tre strati: uno d’interfaccia utente completamente e culturalmente rivisto; uno di back office che di fatto diventerebbe un ‘repository dell’assistito’; un terzo strato di intelligenza artificiale che costituirebbe l’elemento di maggiore innovazione in termini di lettura della massa dati e di successiva materializzazione della cura.

Si potrebbe aggiungere che un nuovo sistema informativo per la salute degli italiani debba essere senz’altro nazionale e tendenzialmente europeo, e non può esaurirsi in una dimensione regionale. Le regioni hanno dato un contributo importante al processo di dematerializzazione della sanità e soprattutto, con le loro società ICT in house raggruppate nel circuito Assinter, alla realizzazione del FSE e delle reti regionali. Ma la pandemia è lì, di fronte a noi, a ricordarci quanto sia anacronistico un’Italia composta da tanti sistemi sanitari locali non intercomunicanti con un sistema nazionale. Ciò che unifica il servizio sanitario nazionale è il sistema informativo della salute degli italiani e questa unificazione non toglie nulla alle regioni e all’autonomia operativa dei sistemi regionali.

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