Bioetica e scienza giuridica si incontrano al centro dell’impianto normativo della sperimentazione clinica nella Sanità digitale. Vediamo come i diritti umani vengano garantiti con una logica by design nei progetti di ricerca fin dalla loro pianificazione.
Trial clinici e approccio della Bioetica
La nascita della bioetica come disciplina sistematica, trova nella complessità delle scienze biomediche il suo paradigma giustificativo. Per la cultura occidentale salute e benessere sono collegate alle conquiste della tecnologia e questo ha implicato, nel tempo, un passaggio dalla riflessione etica, pronta a comprendere e scegliere tra il bene e il male, a una riflessione più strutturata: la bioetica, che si pone come metodo pur perseguendo lo stesso obiettivo di scelta per il bene.
Nella prospettiva, pur difficoltosa, di raggiungere una vera interconnessione tra discipline, il metodo posto dalla bioetica – che ragiona sul bios –, parte dalla rilevazione del dato scientifico nella sua integrale ed esatta conoscenza, esaminando al contempo ogni altro aspetto sociale, giuridico, economico e politico; all’antropologia spetta il compito di illuminare queste riflessioni in quanto capace di evidenziare i valori oggettivi della persona – obiettivo sia della scienza che della società – ponendo tra loro una sintesi. In questa visione metodologica, è a questo punto che si possono trarre le conclusioni etiche, per dare pienezza di senso alle conoscenze nel campo delle scienze della vita e della salute e contribuire affinché il progredire della tecnica trovi in sé l’orientamento verso il bene autentico e integrale dell’uomo.
Per permettere che il progresso avvenga nel rispetto della dignità della persona – intendendo con questa definizione colui che è dotato di pensiero, sa riconoscere sé e l’altro ed è capace di entrare in relazione – la bioetica come riflessione razionale sul comportamento umano orientato alla ricerca di un linguaggio comune tra saperi e prospettive differenti, apre poi la strada al biodiritto quando l’importanza dell’esperienza giuridica e della riflessione politico-sociale nella sua dimensione di ricerca dei fondamenti per una possibile coesistenza, permette una rapida capacità di evoluzione normativa, agevolando lo sviluppo bio-tecnologico nel rispetto dei diritti umani.
Ruolo dei Comitati bioetici
La necessità di una disciplina che coordini ragione strumentale e ragione antropologica e guidi consapevolmente il cammino delle innovazioni tecnologiche in una società che ci consente di vivere più a lungo ma che sentiamo meno controllabile, è anche alla base della nascita dei Comitati etici, luogo naturale per l’espressione della bioetica, intesi come interlocutori e garanti della tutela dei diritti della sicurezza e del benessere dei soggetti in sperimentazione di cui forniscono pubblica garanzia; i comitati etici rappresentano un segno dei tempi, un segnale dei cambiamenti della società e dei nuovi problemi emergenti in essa.
Non tutto quello che è tecnicamente possibile, infatti, è necessariamente buono per l’uomo; non dobbiamo sentirci costretti ad accettare ogni prospettiva tecnologica in nome di un falso concetto di libertà inteso come la facoltà di scegliere, senza alcun limite, tutto ciò che la tecnica ci propone. E nessuno ci obbliga a considerare inevitabile lo sviluppo tecnologico quando questo non è utile al perseguimento delle finalità dell’uomo.
Ciò non significa, evidentemente, porre limite al progredire della scienza, tutt’altro; ma è necessario contribuire affinché questa si orienti al servizio della persona in quanto la libertà vera, mai disgiunta dalla giustizia sociale, è quella che consente alle varie comunità di proteggere i valori importanti, affinché lo sviluppo della tecnologia non resti semplicemente tale ma diventi progresso.
La sperimentazione clinica
Questa premessa esprime tutta la sua forza quando lo sviluppo tecnologico vive la sua fase sperimentale, perché in questa fase entra in ballo il concetto di “rischio” intrinsecamente insito nella sperimentazione stessa; la libertà gioca il suo ruolo quando, di fronte ad una scelta di azione, so di avere un criterio per affrontare quel rischio che mi lascia decidere se l’azione che sto compiendo vale la pena di essere compiuta.
Uno studio, o trial clinico, è una forma di ricerca scientifica che ha per oggetto gli effetti di un dato trattamento sull’uomo e si realizza quando qualunque trattamento diventa oggetto di attenzione e valutazione medica e viene proposto a pazienti, a cui si richiede un consenso, per dimostrare “qualcosa”. Qui la persona diventa soggetto, inteso come colui che sa e che, per un valore più alto, riesce a trascendere i propri interessi ben sapendo che lo studio potrà riportargli, come non riportargli, effetti benefici diretti.
Gli studi clinici, progettati con il massimo rigore scientifico, servono ad aiutare la medicina ad individuare trattamenti efficaci, sicuri o con minori effetti dannosi per la cura di un particolare tipo di malattia sia che si tratti di farmaci, di dispositivi medici o qualunque altra sostanza che venga studiata per valutarne gli effetti terapeutici.
Ogni studio clinico deve essere strutturato in un protocollo che segua regole ben definite di medicina basata sulle evidenze, sottoposto al controllo delle Autorità regolatorie e alla approvazione di un Comitato etico, come previsto dalle normative sia internazionali che nazionali.
Nella formulazione del parere, il Comitato etico – a cui ricordiamo la legge attribuisce il compito di approvare gli studi clinici nella totalità degli aspetti con cui questi vengono presentati, non limitandosi alla sola valutazione delle questioni squisitamente etiche -, pone particolare attenzione alla disamina del razionale scientifico, al disegno statistico, al rapporto rischio/beneficio del trattamento sperimentale, agli aspetti contrattuali e assicurativi, al foglio informativo per il paziente con la verifica che siano rispettati i principi della qualità dell’informazione, necessaria per permettere al soggetto di esprimere la propria volontà di adesione. E la protezione dei dati?
Trial e protezione dei dati
La normativa sulla protezione dei dati, fin dai suoi esordi ormai oltre vent’anni fa quando il termine di riferimento era semplicemente “privacy”, nacque – allora -, per avere un ruolo di stimolo e di crescita nell’affermare un nuovo rispetto dei diritti e una nuova cultura dei doveri, ponendo le basi di un moderno concetto di responsabilità verso la persona; per arrivare – oggi -, ad esistere, così come la riconosciamo nel Regolamento europeo 2016/679 (“GDPR”), per arginare il potere che può nascere dall’uso del digitale.
Per “privacy” intendiamo l’affermazione, da parte della persona, del diritto di tutela dei propri dati e di determinare quando, come, in che misura, tali informazioni possano essere comunicate ad altri; tale diritto individuale fondamentale nasce come riferimento etico – prima ancora che giuridico – riconnesso alla dignità della persona a cui si rapporta un dovere morale di rispetto; viene sancito giuridicamente solo in epoca moderna, trasformandosi da enunciazione di principio a diritto esigibile attraverso la disciplina di una norma.
In ambito sanitario, la “riservatezza” è un concetto che è stato spesso fatto coincidere con l’antico impegno dei sanitari a “osservare il segreto su tutto ciò che mi è confidato”(cfr. Giuramento di Ippocrate); e questa mentalità così intrinseca all’arte medica ha fatto sì, paradossalmente, che portare in avanti lo sguardo verso una privacy che andasse oltre la dimensione di intimità fisica della persona tutelata con il segreto professionale per aprirsi ad una ulteriore intimità – quella rappresentata dai dati personali, spesso digitali, da tutelare in modo più strutturato -, fosse un’operazione culturalmente difficile.
Una medicina sottoposta a una grande varietà di sollecitazioni da parte della tecnologia che, con rapidità straordinaria, è diventata sempre più capace di controllare la vita dell’uomo: la manipolazione genetica, i trapianti di organi, la fecondazione in vitro fino alle intelligenze artificiali, prospettiva attuale della scienza biomedica, hanno aperto al mondo della ricerca perché le nuove tecnologie consentono all’uomo, in definitiva, di prendere in mano il proprio destino.
Le norme non sono un ostacolo
Quello della ricerca clinica, che è uno spaccato della medicina molto normato, si è aperto alla protezione dei dati non sempre con la coscienza adeguata perché ancora troppo spesso gli adempimenti che derivano dal rispetto delle norme sulla privacy vengono considerati un ostacolo e un costo burocratico e organizzativo leggendo in essi rigidità formali – a volte anche superflue – nelle procedure di approvazione e conduzione degli studi.
Tale processo di crescita va aiutato alimentando, in tutti gli attori coinvolti, la consapevolezza che è vero il contrario e il rispetto delle norme diventa semplice lì dove si esprimono al meglio i rapporti umani, i processi sono improntati alla trasparenza, e la tutela della dignità dell’uomo e della sua intimità tanto fisica quanto digitale riesce a diventare parte integrante di quel rigore metodologico proprio della ricerca sull’uomo.
La disciplina normativa dei trial
Il trattamento di dati personali per finalità di ricerca scientifica va oltre la sperimentazione clinica e deve essere interpretato in senso lato includendo la ricerca fondamentale, la ricerca applicata, gli studi svolti nel settore della sanità pubblica, così come la ricerca basata sui registri perché dalla combinazione delle informazioni provenienti dai registri, i ricercatori possono ottenere nuove conoscenze di grande utilità per la collettività.
Il Regolamento Europeo prevede un regime speciale per i trattamenti dei dati effettuati nell’ambito della ricerca scientifica svolta nell’ambito di un quadro etico consolidato; stando a quanto chiarito dai Garanti europei, si deve intendere in tal senso ogni progetto di ricerca istituito conformemente alle pertinenti norme metodologiche e deontologiche in materia e con le best practices di settore.
L’European Data Protection Supervisor (EDPS), nella “Preliminary Opinion On Data Protection And Scientific Research” del 6 gennaio 2020, ha chiarito che lo speciale regime introdotto nell’ambito della protezione dei dati per la ricerca scientifica si intende applicato quando ciascuno dei seguenti tre criteri è soddisfatto:
- la ricerca comporta il trattamento di dati personali;
- si applicano le pertinenti norme settoriali metodologiche ed etiche (compresa la nozione di consenso informato, accountability e controllo);
- l’obiettivo della ricerca deve essere quello di accrescere la conoscenza e il benessere collettivo invece di soddisfare prevalentemente interessi privati.
Nel citato parere preliminare, l’EDPS auspica, inoltre, che siano proprio i Comitati etici ad aiutare a comprendere quali attività si qualificano come ricerca scientifica vera e propria rientrante nel regime speciale previsto dal GDPR e definire gli standard etici a cui questo si riferisce; per questo l’EDPS raccomanda un maggior confronto tra le Autorità di protezione dei dati europee e i Comitati etici i quali possono svolgere un ruolo fondamentale per garantire che i diritti umani, compreso quindi il diritto alla privacy, siano considerati by design nei progetti di ricerca fin dalla loro pianificazione.
E’ necessario cogliere l’auspicio lavorando in questa direzione per aiutare i Comitati etici a essere veri protagonisti in questa prospettiva, cosa, come prima detto, non ancora maturata fino in fondo; quello della data protection rappresenta, infatti, un ambito non ancora adeguatamente percepito come salvaguardia necessaria del valore individuale e sociale che sottende ad esso, con il risultato di non comprenderne la portata di tutela della dignità della persona assistita anche nella fase del percorso assistenziale rappresentato dalla ricerca.
Vediamo brevemente di seguito cosa prevede principalmente il regime speciale previsto dal legislatore europeo.
Le deroghe previste dall’ex art 89 GDPR
La complessità degli obiettivi legati alla ricerca pone l’esigenza di creare deroghe ad alcuni diritti quando questi rischiano di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento delle finalità specifiche della ricerca. Parliamo degli articoli 15 (accesso), 16 (rettifica), 18 (limitazione) e 21 (opposizione) e ciò è possibile qualora si possano assicurare misure di garanzia quali ad es. l’utilizzo di dati anonimi, oppure la pseudonimizzazione o comunque altre di misure che garantiscano il rispetto del principio di minimizzazione e che prevedano un utilizzo dei dati nella misura strettamente necessaria rispetto alle finalità.
La presunzione di compatibilità del secondary use: il Regolamento prevede anche che possano essere ri-utilizzati lecitamente anche dati personali inizialmente raccolti per altre finalità sia dallo stesso titolare che da titolari diversi, nel rispetto delle modalità previste dall’articolo 89. Di regola, se lo scopo “ulteriore” è compatibile con quello iniziale non è necessario fondare il trattamento dei dati su una nuova base giuridica.
Il GDPR riconosce una presunzione di compatibilità delle ulteriori finalità di ricerca scientifica eventualmente perseguite con quelle iniziali (es. finalità di cura).
Tuttavia, anche in questo caso, i partecipanti devono essere informati prima di procedere all’ulteriore trattamento; e tale obbligo viene meno solo se l’interessato dispone già delle informazioni ovvero – in caso di raccolta indiretta dei dati – se informare l’interessato risulta impossibile o implicherebbe uno sforzo sproporzionato o, ancora, rischierebbe di pregiudicare gravemente il conseguimento delle finalità della ricerca. È ovvio che, in questi casi, sarà necessario adottare misure appropriate per tutelare i diritti, le libertà e gli interessi legittimi dell’interessato, anche rendendo pubbliche le informazioni.
Ulteriore conservazione dei dati
Il Regolamento consente, inoltre, di conservare più a lungo i dati se lo scopo è quello di riutilizzo per fini di ricerca scientifica, sempre nel rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 89 e di tutte le altre misure tecniche e organizzative necessarie per la tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato.
L’art. 9.2.j) prevede una base giuridica dedicata al trattamento di categorie particolari di dati per finalità di ricerca scientifica sulla base del diritto dell’UE o degli Stati membri.
Ancora, sempre in ragione del regime speciale in ambito di ricerca scientifica, esiste la possibilità di ottenere un consenso per alcuni settori della ricerca scientifica o a parti di progetti di ricerca se al momento in cui i dati vengono raccolti non sia possibile individuare pienamente la finalità; ciò nella misura consentita dalla finalità prevista e nel rispetto delle norme deontologiche riconosciute per la ricerca scientifica (Considerando 33). Ai fini della validità di un tale consenso, il Titolare deve garantire la massima trasparenza possibile e adottare, se del caso, ulteriori altre garanzie a tutela dei diritti degli interessati, comprese quelle previste dal citato art. 89 del Regolamento.
Trattamento dati nel trial clinico
Nello specifico della tipologia di ricerca scientifica legata alla sperimentazione sull’uomo, il Garante individua prescrizioni specifiche nelle «Linee guida per i trattamenti di dati personali nell’ambito delle sperimentazioni cliniche di medicinali», emanate il 24 luglio 2008, e attualmente ancora applicabili nella misura in cui risultino compatibili con il nuovo quadro giuridico (ex art. 22.4 del d.lgs. 101/2018). Tali linee guida riguardano principalmente le sperimentazioni condotte a scopo di lucro da società farmaceutiche ma possono estendersi anche ad altre tipologie di sperimentazioni come quelle senza scopo di lucro o con dispositivi medici.
Quando un paziente viene arruolato in una sperimentazione, per consentirgli un percorso protetto viene di solito innanzitutto identificato con un codice alfanumerico che, evidentemente non può essere considerato anonimo in quanto riconducibile al soggetto specialmente se combinato con altri dati che nel corso dello studio vengono inevitabilmente e correttamente raccolti. Oltretutto, per motivi di sicurezza, in base alla disciplina di settore, il promotore ha la possibilità di re-identificare il partecipante allo studio come nel caso di eventi o reazioni avverse o in occasione del monitoraggio dello studio per verificarne la corretta esecuzione. Pertanto, tale codifica consiste in una pseudonimizzazione e il promotore dello studio è titolare di tali dati.
I ruoli privacy dei soggetti coinvolti
Il promotore – che, nel caso di uno studio a scopo di lucro, coincide normalmente con un’azienda mentre in relazione a uno studio no-profit sovente è un’associazione scientifica – contatta il centro di sperimentazione il quale accetta il protocollo e le procedure proposte ma poi svolge la sperimentazione con propria autonomia organizzativa e con i suoi sperimentatori, assumendosene la responsabilità.
In questa condizione il Promotore e il centro di sperimentazione svolgono il ruolo di titolari autonomi del trattamento conservando, ciascuno per i propri ambiti di competenza, responsabilità distinte. In alcuni casi potrebbe anche configurarsi una contitolarità per cui sarà necessario definire in modo trasparente, mediante un accordo interno ex art. 26 GDPR, i rispettivi ruoli e responsabilità.
Per l’esecuzione di alcune attività il promotore può avvalersi di soggetti esterni, ad esempio organizzazioni di ricerca a contratto “CRO”, laboratori di analisi, professionisti ecc., i quali tratteranno i dati personali dei partecipanti per suo conto qualificandosi come responsabili del trattamento ex art. 28 GDPR. Anche il centro di sperimentazione può avvalersi di responsabili del trattamento se svolge in outsourcing attività relative alla ricerca che implicano il trattamento dei dati personali dei partecipanti.
Regolatori e comitati coinvolti
Anche le Autorità regolatorie, nazionali e internazionali, come ad es. l’AIFA o l’EMEA possono accedere direttamente ai dati della ricerca per lo svolgimento delle attività ispettive e, in tal caso, lo faranno in qualità di autonomi titolari.
Una riflessione a parte merita il ruolo del Comitati etici che, pur esercitando la loro funzione in totale autonomia e pur valutando gli studi nel loro disegno impattando poco sui dati, per alcune specifiche valutazioni potrebbero risultare responsabili di trattamenti che si riferiscono al centro sperimentale.
Tutte le persone fisiche preposte al trattamento dei dati nell’ambito della ricerca operando sotto la diretta autorità del promotore o del centro di sperimentazione o dei relativi responsabili, devono essere accuratamente selezionate in base a requisiti deontologici e di riservatezza relativi alla loro esperienza, capacità ed affidabilità e vanno debitamente autorizzate al trattamento dei dati personali.
L’informativa ai pazienti
Pur essendo titolari autonomi nel trattamento dei dati, il rapporto con il paziente è tenuto dal centro di sperimentazione e sarà il medico sperimentatore a consegnare l’informativa nella quale è necessario specificare, oltre quanto stabilito per ogni informativa, la natura dei dati esplicitando chiaramente che, anche se pseudonimizzati, sono ancora riferibili all’interessato, che i dati saranno trattati anche dal promotore in qualità di autonomo titolare del trattamento, e l’eventualità che tali dati possano essere trasferiti presso un paese terzo (extra UE).
Il consenso come base giuridica
L’art 110 del codice privacy novellato prevede che il consenso non sia necessario quando la ricerca è effettuata in base a disposizioni di legge o al diritto UE in conformità all’art. 9.2.j) GDPR ivi incluso il caso in cui la ricerca sia prevista ai sensi dell’art.12-bis del dlg 502/92, e sia condotta e resa pubblica una DPIA; oppure quando fosse impossibile o molto difficile informare gli interessati rischiando di pregiudicare il conseguimento delle finalità della ricerca. In questi casi sarà necessario adottare misure adeguate, dopo l’approvazione da parte del Comitato etico e la preventiva consultazione del Garante ex dell’art 36 GDPR.
Nei restanti casi, in cui il consenso resti l’unica base giuridica del trattamento, questo è unico e riferito a entrambi i titolari, in linea con la procedura semplificata introdotta dal Garante nelle linee guida citate.
Ai fini della sua validità, il consenso deve essere prestato liberamente ed essere specifico, informato, inequivocabile nonché, con riguardo al trattamento di dati particolari, anche esplicito. Nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, è proprio il requisito della libertà del consenso che rappresenta maggiori criticità vista la posizione di squilibrio tra l’interessato e il titolare legata alla condizione intrinsecamente fragile di un soggetto arruolato in uno studio.
Se pure si sta discutendo sulla possibilità che il consenso possa, quindi, non rappresentare, nella maggior parte dei casi, una valida base giuridica per il trattamento dei dati nell’ambito delle sperimentazioni cliniche, si ritiene comunque valido il suo ruolo a supporto della relazione e della conseguente responsabilizzazione dello sperimentatore e del promotore; come segnalato dall’EDPS nella recente opinione preliminare, il consenso potrebbe assumere il significato di misura di “safeguard of the rights of the data subject” poiché resta uno strumento importante per concedere alle persone ancora più controllo sulle proprie informazioni personali e sulla propria scelta, a contributo di una maggiore fiducia da parte della collettività nella scienza.