La disintermediazione del Web genera effetti a cascata nel mondo della comunicazione: fake news e disinformazione aprono a nuove narrazioni in grado di condizionare anche i media mainstream secondo dinamiche sfuggenti. Ecco com’è andata nel caso dell’assassinio di George Floyd, nel Minnesota, e perché serve tenere alta l’attenzione sulla produzione di consenso per una corretta cultura digitale.
Quante bufale sulla morte di Floyd
I primi di giugno circolava su Facebook il link ad un filmato, peritesto alle più crude immagini dell’assassinio di George Floyd. La scena rappresenta l’arresto di una persona di colore da parte di alcuni poliziotti americani, che, una volta visti i documenti, non solo la rilasciano immediatamente ma vengono anche da questa richiamati e presi i loro nominativi. Un post ha commentato così: “Lo arrestano solo per il colore della sua pelle ma…è un agente dell’Fbi. Che grulli!”. Un altro invece: “Polizia arresta un nero ma è l’Fbi un agente provocatore. Trump li sta per inchiodare” (sic).
Ovvero nel primo caso si attribuisce un atteggiamento razzista alla polizia americana, nel secondo un complotto all’FBI.
Altri siti chiarirebbero invece che si tratta di una bufala : il brevissimo arresto risalirebbe ad un anno prima ed il protagonista non sarebbe un agente dell’FBI.
Eppure, in qualche modo pare abbia influenzato l’agenda dei media: l’8 giugno la CNN ha pubblicato intervista ad un ex agente FBI di colore che sostiene che gli agenti bianchi non lo consideravano alla pari
Questo è solamente un esempio del flusso di contenuti che si è messo in movimento dopo l’omicidio di Floyd. Assassinio che si è svolto praticamente in diretta: in meno di 24 ore il video è arrivato sui principali canali americani ed il giorno successivo su quelli mondiali. Ha scatenato una rivolta popolare che non solamente ha incendiato gli States ma ha lambito anche le strade del nostro continente.
Senza nulla togliere alle questioni umanitaria, di uguaglianza e democrazia, uno degli aspetti che è stato messo in luce anche dalla CNN è la costruzione di realtà parallele che il flusso di discorsi online ha generato:
- Il video sarebbe un fake e Georg Floyd non sarebbe affatto morto. Il canale YouTube JohnXArmy ha condiviso un video di 22 minuti che illustrava come la morte di Floyd fosse una bufala. Il contenuto, condiviso un centinaio di volte su FB avrebbe raggiunto, secondo il NYTimes un milione e 300mila persone. L’amministratore del canale non ha dato spiegazioni o ragioni del filmato che è stato rimosso da YouTube. Anche su Twitter il post “George Floyd is not dead” è stato rilanciato centinaia di volte nella settimana successiva al crimine. Infine, in migliaia di altri messaggi su FB e Twitter il poliziotto accusato di omicidio di terzo grado e omicidio colposo di secondo grado sarebbe un attore professionista ingaggiato dal “Deep State” per recitare nel fake (il “Deep State” sarebbe un governo segreto costituito da un sistema di collusioni e clientelismo che influenza le decisioni del governo eletto).
- Ciò che sta accadendo, come conseguenza dell’uccisione di Floyd, sarebbe frutto di una cospirazione di George Soros. Nel fine settimana successivo all’evento, Soros è stato menzionato in 34.000 tweet in connessione alla morte di Floyd. Oltre 90 video, in cinque differenti lingue, sono stati pubblicati su Youtube nella settimana successiva all’accadimento sulla cospirazione di Soros. Questo ha prodotto un aumento di menzioni di 6 volte di Soros su FB (da 12.600 della settimana precedente a 72.000 in quella seguente all’uccisione). Dei 10 post più rilevanti su Soros, ben nove riguardavano la cospirazione e sono stati condivisivi oltre 110.000 volte. Sid Miller, commissario per l’agricoltura in Texas e sostenitore di Trump, ha postato in FB, senza dare immediate spiegazioni, che non ha dubbi sul finanziamento di Soros alle proteste fino a dichiarare che “Soros è il male puro, determinato a distruggere il nostro paese”.
- Gli attivisti “Antifa” (anti-fascist) sarebbero i responsabili delle rivolte e dei saccheggi. In 873.000 contenuti di disinformazione sulle proteste, riportati dal Zignal Lab nelle televisioni e nei social, 575.000 menzionavano Antifa. La carica contro Antifa sarebbe partita da un tweet di Trump, nella domenica successiva alla morte di Floyd, che attribuiva ad Antifa “organizzazione terroristica” la colpa dei disordini. Narrazione che è stata raccolta e alimentata da un commentatore politico conservatore televisivo, che ha attribuito a Antifa le responsabilità di un attacco sofisticato insurrezionale alla Casa Bianca. Sono seguiti 6.000 post su FB con 1,3 milioni di like su correlazioni tra Antifa e le proteste. Infine, nuovamente su Twitter, la notizia di un manuale redatto dai democratici per gestire la sommossa, che in realtà è la rimessa in circolazione di una bufala del 2015 – evoca così il flusso e reflusso dei “Protocolli dei Savi di Sion”.
Di tutte queste affermazioni, nessuna prova, nessuna spiegazione e nessuna fonte.
Protocolli anti-disinformazione
Per chi fa un serio lavoro scientifico e per chi lavora con consapevolezza dentro i media, non basta che qualcosa sia scritto o filmato, deve avere le prove, le fonti, il giudizio autorevole di una comunità di esperti o di referee anonimi, passare dei filtri che garantiscano un onesto percorso teso alla verità, che può anche sbagliare e nella dimostrazione del suo percorso, per essere scientifico, deve lasciare aperte le possibilità alla sua falsificazione.
Pertanto, si ritiene che solamente in quel momento e con quelle informazioni, che quello raggiunto sia il miglior modello esplicativo e/o descrittivo possibile. Questo processo risponde anche ad aspetti emotivi: ci si affida, rispettando i criteri annunciati, alla soluzione che piace di più. Potremmo dire che la verità, nella ricerca, è un momento euristico, un’illuminazione, che si colloca tra l’etica e l’estetica, con il sufficiente distacco necessario per abbandonare la propria verità quando subentrano evidenze contrarie.
Nella prassi quotidiana questo non è possibile, perché le persone non hanno bisogni di modelli esplicativi ma di elementi operativi, concreti e tanto più pratici quanto ridotte sono le risorse di tempo, culturali e cognitive per agire. Allora maggior peso assumono le componenti emotive, nell’attribuire agli intermediatori di informazioni complesse autorevolezza e credibilità, in sostanza fiducia.
Non si chiedono prove che non si hanno tempo e competenze di vagliare, ma semplicità. Non si chiedono passaggi e ragionamenti complessi, ma chiarezza. Non si chiedono lunghi discorsi ma sintesi brevi. Si chiede semmai aderenza a schemi precostituiti, conferma al mondo che già si rappresenta, a valori e anche interessi (più o meno consciamente).
La vera novità nelle ultime fake news
Se nei media broadcast (quelli tradizionali uno a molti) vi sono persone che ancora rivestono questa funzione di intermediario della conoscenza, selezionati (che non è garanzia di onestà ma di aderenza ad orientamenti del canale), il Web apre una possibilità spropositata di costruzioni di realtà che aderiscono a quello che si vorrebbe fosse reale, e non mi riferisco qui ad algoritmi, echo chamber etc., ma a scelte individuali di immettere informazioni, ricevere informazioni e costruire rappresentazioni del mondo.
Abbiamo visto come una scena brutale, di immediata interpretazione, abbia scosso emotivamente molti cittadini e spinti ad una protesta anche in presenza. Ma abbiamo anche assistito a diverse ricostruzioni possibili della realtà in maniera decisamente nuova.
La novità non pare consistere nel fatto che un governo cerchi di dare la sua definizione di realtà e le opposizioni, facendo contro informazione, la loro, ma che la lente immediata ed istantanea del Web, che potrebbe coprire tutto il mondo, venga in contemporanea distorta da illimitate polarizzazioni di senso, di pezzi di informazioni che si attaccano all’informazione principale mistificandola fino a stravolgerla.
La questione pare sfuggire anche alle scienze della comunicazione e alla sociologia e diventare di ordine filosofico, su che cosa sia la realtà e la verità.
Quante sono le verità: la lezione di Pirandello
Non accompagnerò su questo terreno oltre il lettore, per mancanza di competenza, e mi soffermerò sull’invito alla lettura della novella “La signora Frola e il signor Ponza, suo genero” di Luigi Pirandello o alla visione di “Così è (se vi pare)”, l’opera teatrale tratta da questa (su Youtube con la regia di Giorgio De Lullo e l’interpretazione di Paolo Stoppa, o con la regia di Franco Zeffirelli : tutti i cittadini raccolgono voci e indizi su una nuova famiglia residente, sulla quale aleggia un mistero: perché la suocera, la signora Frola, vive separata dal cognato e dalla figlia che pare essere sua moglie? Chi è veramente la moglie? Di prime o seconde nozze? E chi è pazzo: il marito che tiene segregata la moglie e così lontana la madre? La suocera che non accetta la morte della figlia, la prima moglie, e che tengono così lontano dalla casa? La moglie, che dopo un lungo ricovero in manicomio si è sposata in seconde nozze con lo stesso uomo? Ogni compaesano costruisce la sua storia, la sua verità e la misteriosa moglie e figlia, coperta da un velo nero, afferma di essere colei che la si crede essere.
Il Web, come reticolo di informazioni che rappresenta, avvolge il reale e – per i bias umani che vengono introdotti in questo flusso – appare come la signora Ponza: così è, se vi pare.