La protesta #blacklivesmatter che infiamma gli Usa in seguito all’omicidio di George Floyd, vede nei social una fondamentale cassa di risonanza, al punto che il presidente Donald Trump – sempre più in calo nei sondaggi a meno di cinque mesi dalla elezioni – si è scagliato contro le piattaforme e ha firmato un ordine esecutivo per far sì che queste, venendo meno le protezioni legali di cui attualmente godono, possano essere ritenute giuridicamente responsabili dei contenuti pubblicati dagli utenti.
Nel mirino in particolare la sezione 230 del Communications Decency Act, una legge emanata nel 1996 per regolamentare le responsabilità dei fornitori di accesso a Internet. Si noti che non solo Trump ma anche il suo avversario alle elezioni di novembre, Joe Biden, pensa di intervenire su questa legge, aprendo a un’era di più grandi responsabilità delle piattaforme digitali. Ma come siamo arrivati a questo punto? E dove stiamo andando?
L’information overload dei social e il degrado dei contenuti
Per capire il quadro generale, bisogna rifarsi a Yochai Benkler, professore di studi giuridici imprenditoriali Berkman presso la Harvard Law School e co-direttore della facoltà del Berkman Klein Center for Internet & Society dell’Università di Harvard e al suo concetto di “network information economy”.
Siamo tutti dentro un ecosistema informativo tanto vasto e a basso costo quanto disintermediato, dove i gatekeepers dell’informazione – Google e Facebook, Twitter, YouTube, Instagram – assurgono al ruolo di custodi delle porte di accesso alle informazioni di ogni specie, abilitando il collegamento tra creatori e fruitori dei relativi contenuti.
Un panorama allettante per i tanti volti della disinformazione orientata alla diffusione di hate speech, false notizie e contenuti mistificatori.
“Una tempesta perfetta per la disinformazione” la definisce Graham Brookie, direttore del Digital Forensic Research Lab dell’Atlantic Council. “Tutto ciò è tossico e rende le nostre sfide e divisioni molto più difficili da affrontare.”
E permette alla collisione generata dalle recenti tensioni razziali, animate dalla tragica morte di George Floyd, di divenire il volano prestato agli scopi della polarizzazione politica e agli interessi di parte delle diverse fazioni prossime alle elezioni.
A tutti gli effetti, i contenuti mistificatori e disinformativi (con largo vantaggio di questi ultimi) proficuamente diffusi dai social network, imperversano.
Divengono virali e si espandono attraverso il fenomeno delle “cascate di condivisioni”.
Si uniscono alle informazioni autentiche o alla satira più sottile generando un’inestricabile ambiguità di cui si nutrono tanto i pregiudizi cognitivi che condizionano la debole coscienza critica degli utenti, quanto la polarizzazione sociale.
Gli individui, per lo più “gracili” e “cedevoli”, tanto destinatari delle notizie quanto potenziali distributori e creatori delle stesse, non manifestano particolari difficoltà a adattarsi ad un tale ecosistema digitale informativo e tuttavia ciò non è senza conseguenze.
Ad esempio per lo stile di vita di ciascuno, per i consumi culturali, per la capacità di apprendimento propria di ognuno, fortemente condizionata dai confini imposti dalle ormai famose bolle, o echo-chambers magistralmente descritte nel 2011 da Eli Pariser.
Un pubblico, dunque vasto ma distratto, e spesso poco valore aggiunto. L’illustre economista e professore alla Carnegie-Mellon University di Pittsburg in Pennsylvania, Herbert A. Simon, nel 1971, avvertiva “L’informazione consuma attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare”.
Proprio nella delicata relazione tra information overload e povertà di attenzione, sapientemente intuita da Herbert A. Simon, la disinformazione trova terreno fertile.
George Floyd: tutta la disinformazione attorno alla sua morte
Sono almeno tre le teorie che animano la disinformazione intorno alla morte di George Floyd.
La prima: riporta il New York Times che un video di 22 minuti trasmesso del canale YouTube JonXArmy mira a fomentare i sospetti sull’ipotesi teoria della “finta morte” di George Floyd.
Nel video la vicenda viene descritta come una sorta di set televisivo dove i fatti risulterebbero incredibilmente verosimili grazie all’abile interpretazione della vittima afroamericana ed in particolare dell’attore che, stando alla pagina complottista, interpreterebbe Derek Chauvin, l’agente di polizia del Minnesota accusato di omicidio di terzo grado e omicidio colposo di secondo grado per la morte del signor Floyd.
Il video, complici i gruppi gestiti da Qanon, ben presto approda su Facebook generando almeno 1,3 milioni di interazioni, secondo i dati dello specifico tool di Facebook CrowdTangle.
Stessa sorte su Twitter, dove Dataminr, un servizio di monitoraggio dei social media riporta situazioni analoghe.
La seconda: alla falsa morte di Floyd si unisce la disinformazione relativa alla teoria della “cospirazione di George Soros” che vuole il miliardario sostenitore del partito democratico, nella veste di finanziatore della diffusione delle proteste contro la brutalità della polizia. Soros, secondo Dataminr, ha ricevuto 34.000 tweet in una sola settimana.
E anche su Facebook, i sostenitori di Trump non lesinano post complottistici sull’imprenditore ungherese naturalizzato statunitense.
La terza: la tesi coinvolge Antifa, il gruppo di militanti e attivisti radicali di estrema sinistra.
La stessa viene etichettata in un tweet dal presidente Trump come “un’organizzazione terroristica” che, a suo dire, sarebbe responsabile delle rivolte e dei saccheggi che fanno da pesante cornice alla tragica morte di Floyd.
Secondo Zignal Labs, su 873.000 pezzi di disinformazione legati alle proteste almeno 575.800 menzionavano Antifa.
Le diverse strategie di moderazione dei contenuti tra Facebook e Twitter
“Get the facts”.
A oggi, l’unica contromisura verso la disinformazione è il fact-checking, ovvero il processo di verifica e accertamento dei fatti, seguito dalla diffusione del debunking, la smentita di una “bufala”.
I social network come Twitter e Facebook ne fanno entrambi uso ma con sfumature talmente diverse da rendere i rispettivi dettagli elementi decisivi per la sorte di alcuni contenuti.
Non a caso, il diavolo “dimora nei dettagli”.
Dettagli che faranno la differenza e, mai come in tale contesto, la differenza la potrebbe fare chi, quei dettagli, sarà in grado di notarli.
Il riferimento è ai contenuti copiosamente diffusi dal Presidente Trump sulle maggiori piattaforme social, molto ben descritti in un articolo del New York Times scritto da Linda Qiu, per chi volesse approfondire.
Se da una parte Facebook (che per altri versi afferma di aver iniziato ad etichettare le organizzazioni mediatiche controllate dallo stato come la Russia Sputnik, l’Iran TV Press e la Cina Xinhua News al fine di evidenziarne all’utente la possibile influenza governativa sui contenuti e la mancanza di indipendenza editoriale), pur senza rinunciare alle attività di fact-cheking e debunking intraprese, opta per un approccio laissez-faire, attirando su di sé le critiche dei suoi stessi collaboratori che, infatti, inviano a Zuckerberg un’intensa lettera di contestazione; dall’altra Jack Dorsey persiste convintamente affinché il suo Twitter si adoperi con perizia nelle attività di verifica dei fatti e avviso agli utenti circa la natura “potenzialmente fuorviante” dei tweet del Presidente.
Da ciò prende le mosse la discussione sorta a seguito delle attività di fact-checking eseguite da Twitter, “responsabile” di aver contrassegnato alcuni tweet recenti del Presidente americano – relativi uno alle accuse sui sospetti di frode elettorale incidenti sulle prossime elezioni presidenziali e, l’altro, inneggiante alla violenza contro i manifestanti per l’ingiusta morte di Floyd – come fuorvianti o non rispettosi delle policy aziendali con tanto di rimando per approfondimenti a contenuti ufficiali.
Stessa sorte per quelli ri-condivisi nell’accout ufficiale della “Casa Bianca”; Twitter ha aggiunto lo stesso avviso.
I contenuti, pur senza essere rimossi, sono stati oscurati o etichettati come potenzialmente fuorvianti quando non addirittura “in violazione della specifica politica del social contro la glorificazione della violenza”.
“La nostra intenzione è quella di collegare i punti delle dichiarazioni contrastanti e mostrare le informazioni in conflitto in modo che le persone possano giudicare da sole”, si giustifica l’amministratore delegato di Twitter, Jack Dorsey.
Una “politica” che, sebbene nei confronti di Donald Trump segni i primi passaggi sin dal 2018 (qualcuno ricorderà i tweet del presidente sul lancio di armi nucleari nella Corea del Nord o quelli che appellavano in modo irriverente Omarosa Manigault Newman, ex assistente del presidente e Direttrice delle Comunicazioni dell’Ufficio per le Pubbliche Relazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump dal 2017 al 2018), non trascura neppure altri personaggi influenti e capi di Stato.
Tra questi, gli ultimi in ordine di tempo sono alcuni contenuti “opachi” in tema Covid-19, diffusi dal presidente del Brasile, Jair Bolsonar e altri del politico brasiliano Osmar Terra.
Il taglio rigoroso sostenuto da Dorsey non ha mancato ovviamente di suscitare perplessità e dibattiti che vedono schierati su posizioni diverse esponenti del mondo accademico e sostenitori dei diritti civili.
Se da una parte Lee Bollinger, presidente della Columbia University e studioso del Primo Emendamento ne sostiene ampiamente l’operato: “Queste piattaforme hanno raggiunto un’incredibile potenza e influenza”. “Esiste un rischio maggiore per la democrazia americana nel consentire discorsi sfrenati su queste piattaforme private”.
Dall’altra Josh Blackman, professore di diritto costituzionale presso il South Texas College of Law di Houston ammonisce sui rischi insiti in una tale autonomia di decisione.
“Ciò che accade ora ai tuoi nemici, accadrà anche a te alla fine”, ha detto. “Se dai a queste entità il potere di oscurare le persone, un giorno tanto potrebbe capitare anche a te”.
E, dello stesso avviso si pongono alcuni fervidi sostenitori del diritto alla libertà di espressione, come Suzanne Nossel, autrice dell’atteso “manuale” Dare to Speak: Defending Free Speech for All, che si dichiara fermamente convinta del ruolo essenziale della libertà di parola nella promozione della democrazia e dei diritti umani.
Un cambio di marcia evidente quello dell’approccio aggressivo intrapreso da Twitter, nei confronti del fact-cheking, che segna una svolta significativa rispetto alla visione “less is more” tipica della fase precedente.
In risposta a tanto, un “esasperato” presidente Trump emette l’ormai noto ordine esecutivo del 28 maggio con l’intento di aprire l’inesorabile percorso verso l’affermazione di una particolare responsabilità dei gatekeepers della rete.
Una reazione tanto incollerita quanto, in realtà, strategica, poiché in grado di distogliere l’attenzione degli elettori americani dalla fallimentare gestione della crisi epidemiologica da parte del presidente, al terreno più confacente della libertà di espressione e del primo emendamento della Costituzione americana “fondamento della società americana”.
Ed in effetti gli alleati repubblicani del Presidente non perdono tempo a valorizzarne il potenziale politico.
Tra questi il senatore del Missouri Josh Hawley, con la sua lettera inoltrata a Jack Dorsey, è tra i più attivi.
E’, per intenderci, lo stesso senatore che nel 1996 definì l’immunità concessa ai provider “un atto d’amore” tra il governo di Bill Clinton e le “big tech”, nonché il promotore del disegno di legge, presentato al Senato nel 2019, chiamato Ending Support for Internet Censorship Act che avrebbe voluto introdurre tra le altre cose anche specifiche audizioni dei vertici delle compagnie social dinanzi alla commissione del Commercio federale.
Di fatto, è evidente come la “presa di posizione” del tycoon potrebbe rivelarsi strategica tanto a destra quanto a sinistra.
Se, infatti, revocare le protezioni della Sezione 230 esporrebbe Twitter e le altre piattaforme social a responsabilità e vulnerabilità legali alla stregua delle case editrici; dall’altra, allo stesso modo, limiterebbe la potenza espansiva dei messaggi veicolati da entrambe le fazioni e, tra questi, anche quelli del Presidente Trump ai suoi svariati milioni di followers.
“Ironia della sorte, Donald Trump è un grande beneficiario della Sezione 230”, ironizza non a caso Kate Ruane, senior advisor per l’American Civil Liberties Union.
La Sezione 230 e la linea sottile tra i social e le notizie
“Nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”.
Tanto dispone le Sezione 230 del Communications Decency Act, la legge approvata dal Congresso nel 1996.
Né dunque società editrici, né di telecomunicazioni, ma meri fornitori di un servizio informatico interattivo e infrastrutture in cui avviene scambio di dati. Hosting.
Facebook, Twitter, YouTube, Vimeo, Google, Amazon, Yelp e tanti altri: dai normali provider di servizi Internet (ISP) ai fornitori di servizi informatici interattivi.
Trump si prefigge di revocarla. E non sarebbe nemmeno la prima volta.
Si preannuncia, dunque, una decisa contrapposizione tanto allo scudo legale concesso, in nome del libero mercato delle idee, ai provider quanto all’espressa protezione ad essi conferita relativamente alle azioni intraprese “in buona fede per rimuovere o limitare l’accesso a qualsiasi contenuto che loro (social) o i loro utenti considerino lascivo, lascivo osceno, sporco, eccessivamente violento, molesto o altrimenti discutibile”. Tanto, qualora si avverasse, avrà effetti importanti anche in Europa.
Il 28 maggio 2020 firma l’ordine esecutivo dopo averlo preannunciato su Twitter anche per il tramite della sua addetta stampa, Kayleigh McEnany.
“In un paese che ha a lungo amato la libertà di espressione, non possiamo permettere a un numero limitato di piattaforme online di scegliere manualmente il discorso a cui gli americani possono accedere e trasmettere su Internet. Questa pratica è fondamentalmente non americana e antidemocratica. Quando grandi e potenti società di social media censurano le opinioni con cui non sono d’accordo, esercitano un potere pericoloso. Smettono di funzionare come bacheche passive e dovrebbero essere visualizzate e trattate come creatori di contenuti” recita il documento ufficiale.
L’esame completo del provvedimento rivela non più una secca rimozione della Sezione 230, come inizialmente paventato, ma uno “spontaneo invito” al procuratore generale William Barr affinché elabori una proposta di legislazione federale da sottoporre alla Federal Communications Commission – FCC (composta da tre Repubblicani e due Democratici), l’autorità principale degli Stati Uniti per la legge, la regolamentazione e l’innovazione tecnologica delle comunicazioni – che si riveli utile a promuovere gli obiettivi politici degli intenti manifestati nell’ordine, e una “convinta esortazione” ai vari esponenti del ramo esecutivo ad esaminare la corretta interpretazione della Sezione 230 e il suo conseguente impatto all’interno del processo democratico americano.
Per ora, perciò, nulla di fatto.
Dorsey e Zuckerberg hanno modo di riflettere in tutta calma e meditare sulle migliori strategie a difesa della loro immunità mettendosi così al riparo dai potenziali rischi sanzionatori della FCC.
Intanto il social di Dorsey non tarda nella sua reazione definendo l’ordine esecutivo firmato dal tycoon “un approccio reazionario e politicizzato” a una legge fondamentale che “protegge l’innovazione e la libertà di espressione, ed è sostenuta da valori democratici. I tentativi di eroderla unilateralmente minacciano il futuro del discorso online e delle libertà su Internet”.
Facebook è dello stesso avviso, per ovvie ragioni.
E anche le autorità giudiziarie americane si mostrano restie nel recepire l’esortazione del loro presidente. È noto come proprio negli Stati Uniti, i tribunali si siano più volte schierati a favore dei social network che avevano “bloccato” gli account o eliminato tweet di alcuni utenti.
La casistica giurisprudenziale esaminabile è ampia Mezey v. Twitter, Cox v. Twitter , Kimbrell v. Twitter.
Da ultimo la decisione del 27 maggio scorso sulla controversia tra Freedom Watch e Laura Loomer verso Google.
“Freedom Watch’s First Amendment claim fails because it does not adequately allege that the Platforms can violate the First Amendment. In general, the First Amendment “prohibits only governmental abridgment of speech.” dichiara la Corte.
Di diverso avviso, Brendan Carr, il commissario della Federal Communications Commission, per molti anche “potenziale futuro presidente dell’agenzia” che, riporta Politico, apparendo su “Tucker Carlson Tonight” di Fox News, si è pubblicamente schierato a favore di Donald Trump al punto da ritenere la verifica dei fatti di Twitter dei tweet del presidente un imponente “punto di vista politico e partigiano”.
E anche l’attuale presidente FCC Ajit Pai sembrerebbe prestare molta attenzione alle richieste del tycoon e non manca di osservare come anche il leader iraniano, l’Ayatollah Ali Khamenei, abbia un account Twitter che, però, non viene controllato con tanta solerzia.
Ad ogni modo, tra le tante posizioni, l’ostacolo che più di tutti avrà modo di limitare i piani del Presidente è sicuramente costituito dal Primo Emendamento della Costituzione americana e dal richiamo che ad esso faranno i difensori delle libertà fondamentali schierati al lato opposto.
Tra di loro anche Jessica Rosenworce, uno dei commissari (esponente del Partito democratico) della FCC.
E così pure la rete IFEX composta da oltre 100 organizzazioni impegnate a promuovere e difendere la libertà di espressione e l’accesso alle informazioni.
“Piuttosto che proteggere la libertà di parola, minare la Sezione 230, limiterà un maggior numero di discorsi online. Faciliterà il governo stesso a esercitare le leve della censura, minando fondamentalmente i diritti del Primo Emendamento negli Stati Uniti.” così Quinn McKew, direttore esecutivo della nota associazione Articolo19.
Altrettanto David Greene e Aaron Mackey di EFF.
Sulla stessa linea il presidente della Freedom House Michael J Abramowitz e Deborah Brown, ricercatrice senior per i diritti digitali di Human Rights Watch e anche l’amministratore delegato di PEN America, Suzanne Nossel.
Alla fine ma non per ultimo, Il senatore Ron Wyden, coautore della Sezione 230 nel 1996, che ha tuonato contro il presidente accusandolo di “prendere di mira la Sezione 230 perché protegge il diritto delle imprese private di non dover ospitare le sue bugie” ed evidenziando come “gli sforzi per erodere la Sezione 230 renderà solo i contenuti online più probabili essere falsi e pericolosi”.
Conclusioni
È un confine sottile eppure ben preciso quello tra il diritto di informare e il diritto ad essere informati correttamente e a non essere ingannati.
Le fake news non hanno niente a che vedere con le opinioni. Sono fatti menzogneri.
Il linguaggio inneggiante all’odio non ha niente a che fare con la libertà di espressione. È piuttosto un abuso del medesimo diritto.
Ogni ordinamento nel mondo si dichiara orientato a promuovere la ricerca della veridicità e autenticità dei fatti e si pone quale garante della repressione dell’hate speech (di cui non mancano apprezzabili definzioni tra cui quella della contenuta nella Raccomandazione R 97/20 del Consiglio d’Europa).
Ogni ordinamento democratico, che sia esso espressione della visione “americana” piuttosto che “europea”, più restrittiva, rassicura sul fatto che la basilare funzione di salvaguardia dell’attendibilità dei fatti si svolga nel solco di un dibattito pubblico dove, proprio dal confronto tra le molteplici idee, avrebbe modo di emergere la realtà dei fatti.
Eppure, a dispetto di tanti buoni intenti palesati, la situazione ci è “sfuggita di mano”.
Tanto da apparire irrecuperabile: complici, le trasformazioni della libertà di informazione indotte da Internet e dai social network.
In mancanza di strumenti normativi adeguati, ciascuna piattaforma si pone quale interprete “a suo modo” della migliore tutela nei confronti del processo democratico.
In tutti i casi, una regolamentazione a porte chiuse dove accordi con le istituzioni o codici di condotta trasfusi nelle relative policy aziendali sono il risultato di approcci piuttosto opachi e probabilmente altrettanto utilitaristici.
Una sorta di delega di funzioni statali ad aziende private abilitate in tal modo ad incidere in un ambiente che però è aperto al pubblico.
Con essa, il definitivo declino dell’idea originaria di un ecosistema digitale aperto, libero e senza confini.
Da qui ha modo di svilupparsi il dibattito legato alla vexata quaestio tra rispetto del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, dei suoi confini e la tutela della libertà di informare, intesa quale aspetto attivo della prima ed entrambi precondizioni di sovranità popolare.
Una discussione che in America, nel contesto della “battaglia sulla moderazione dei contenuti” in corso tra Trump e Dorsey, se da una parte suona un po’ come una strategia politica, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, dall’altra non distoglie l’attenzione dalla domanda più importante alla quale, al momento, neppure la Sez. 230 o una sua modifica potrebbe rispondere.
Ovvero se la minaccia alla libertà di informazione debba essere ricercata più nell’agire autonomo di organizzazioni allo stesso tempo soggetti privati e gatekeepers di servizi indispensabili e di interesse pubblico, piuttosto che nei piani di contrasto elaborati dalle istituzioni governative e negli specifici obblighi giuridici imposti agli stessi a salvaguardia dei diritti fondamentali e del bilanciamento tra di essi.
Una cosa è certa: ancora una volta il declino dell’affidabilità delle informazioni e l’indebolimento delle istituzioni democratiche si muovono all’unisono in un percorso che si preannuncia estremamente complesso in America come in ogni Stato di diritto.
E la risposta attesa tarda ad arrivare.