la bufala del lavoro

Lo smart working non esiste: il lavoro ora deve essere “sostenibile”

Non chiamiamolo smart working, come se finora avessimo praticato lo “stupid working”. Parliamo semmai di un “nuovo modo di lavorare”, che pone delle sfide non tanto economiche, quanto di natura culturale. La parola d’ordine è: sostenibilità

Pubblicato il 26 Giu 2020

Andrea Tironi

Project Manager - Digital Transformation

Employee Experience

Alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, sulla necessità di smetterla con lo smart working e di “tornare a lavorare” hanno fatto scalpore. Ma, forse, non per il motivo giusto.

Cogliamo allora l’occasione per rivelarvi alcune cose che nessuno ha ancora detto sullo smart working, che vi faranno capire quanto il passaggio allo smart working sia una bufala!

Vediamo perché è sbagliato parlare di smart working come di un’innovazione e quali sono le sfide della nuova modalità di lavoro che l’Italia ha imparato a conoscere in questo periodo di confinamento dovuto al covid-19.

Lo smart working non esiste

Nel mondo lo smart working non esiste. È un’etichetta tipicamente italiana. Solo noi distinguiamo tra smart-working e working normale, come fosse stupid-working. Per gli anglofoni si parla di home working o remote working, non c’è un giudizio qualitativo, solo un riferimento allo spazio (home o remote o office). Per cui se parliamo di “lavoro da casa” o “lavoro remoto” non sentiamoci fuori luogo, di questo in parte si tratta.

Lo smart working non è un’innovazione

Lo smart working è nato 30 anni fa in Olanda (tra le altre cose ecco perché loro sono tra i frugal four e noi no). Il suo inventore, Erik Veldhoen, lo ha chiamato come ha più senso chiamarlo, ovvero “Nuovo modo di lavorare”. E ha pubblicato il primo libro sul tema nel 1995 dal titolo “Gli uffici non esistono più”. Già in quegli anni lo provò in un’azienda da lui fondata, su un’amministrazione locale, in un ospedale e presso una banca. Eirk aveva capito che l’avvento di internet avrebbe cambiato anche il modo di lavorare, e aveva pensato a come renderlo davvero un modo diverso, più efficace ed efficiente. Quindi se stiamo provando questo “nuovo modo di lavorare”, sentiamoci indietro di 30 anni, non di 3 mesi, e soprattutto non diamoci alibi: almeno 25 anni fa l’avevano già provato anche nel settore della pubblica amministrazione.

I concetti di base del “nuovo modo di lavorare”

Il concetto tecnologico

Il concetto tecnologico di base è “l’ufficio digitale”. Ovvero personal computer e smartphone/tablet. Non importa che tecnologie si usano, importa che l’ufficio diventa un luogo che può essere cambiato spazialmente, dove grazie allo smartphone e al pc mi connetto con i dati che mi servono per il mio lavoro e le persone con cui dialogare per raggiungere gli obiettivi prefissati. Ovviamente nell’ufficio digitale, tra le altre cose, la carta non è prevista.

Il concetto umano

Il concetto umano di base è la possibilità di gestire al meglio il proprio work/life balance. Ovvero rendere sostenibile il rapporto tra lavoro e vita personale. Molti di noi alla mattina appena alzati leggono le email del lavoro e alcuni lo fanno anche la sera. Se questo è sostenibile, ha senso farlo. Se questo vuol dire il pomeriggio fare due passi e un giro in bici, o poter prendere della pause durante la giornata per i propri bimbi (compatibilmente con le esigenze aziendali), e tutto ciò migliora il nostro rapporto con gli affetti e il lavoro, questo è “lavorare meglio”. In fondo far diventare i colleghi la propria famiglia, non è che sia la cosa migliore. Anche perché i colleghi per tanto famiglia che siano, rimangono colleghi.

Il concetto spazio-temporale

Il “nuovo modo di lavorare” (non diciamo smart working, non facciamo i provinciali), nasce prima di tutto in origine, secondo la visione dell’inventore, come una rivisitazione degli spazi: addio scrivania nominale, benvenuti spazi dedicati. Ho bisogno di fare una riunione? Ho uno spazio dedicato. Devo fare un colloquio a due, ho uno spazio adatto. Devo telefonare, c’è un’area per telefonare. Ho bisogno di un openspace per lavorare in team, c’è questo spazio in azienda. Ho bisogno di fare brainstoming? Posso uscire in giardino, o ho un’area con colori, oggetti, strumenti che favoriscono la creatività.

I coworking sono estensioni di questo modello, dove spazi attrezzati come sopra indicato non sono più di un’azienda ma vengono condivisi da aziende diverse per permettere una contaminazione (cross-fertilization) di idee, anche di persone di settori diversi e non necessariamente tutte Ict. L’azienda spazialmente non esiste più; sono le persone, le loro idee, il loro operare a fare l’azienda, in locali che sono di tutti e di nessuno (spesso di un terzo che li mette a disposizione).

L’open innovation è il livello ancora dopo: non solo gli spazi, ma anche le conoscenze, i concetti, le innovazioni vengono condivise rendendo ancora più fluido spazialmente e culturalmente il concetto di azienda e fluido il suo confine.

Infine, abbiamo la coopetition: io e te siamo competitor, ma ci rendiamo conto che solo condividendo le nostre competenze aziendali possiamo fare entrambi un salto di qualità nel valore dato al cliente. Qui addirittura vengono a sfumarsi i confini della competizione all’interno di aziende che sono spazialmente e temporalmente fluide.

Il concetto economico

Se lavoro per obiettivi la prima cosa che devo fare è chiedermi: quali sono gli obiettivi che voglio perseguire? Per saperlo devo poter prima capire la vision e la mission aziendale, quindi scendere a livello di goal (obiettivi), per proseguire a livello di iniziative e arrivare alle singole azioni. Devo chiedermi non cosa fare (output), ma perché farlo e che valore (outcome) genera.

Questo provoca uno shock manageriale e uno sforzo mentale non banale: è molto più semplice “fare delle cose” che “fare le cose che servono e generano valore per il cliente”. Potrei infatti fare l’80% meno delle attività e generare il 80% in più di valore (pareto). Solo che devo prima di tutto pensare a cosa davvero è utile, e poi provare a farlo. Quando lo faccio, devo utilizzare i concetti di “sbagliare velocemente” e “imparare dagli errori” in una cultura dove l’”errore” non è demonizzato ma fa parte della crescita (continuous learning).

In tale modo con il 20% degli sforzi posso erogare più valore e più fatturato.

I concetti di tempo e spazio

Il tempo è una dimensione del lavoro. Nelle fabbriche vista la necessità di essere tutti insieme nello stesso posto nello stesso momento hanno senso i turni dalle 6 alle 14 e dalle 14 alle 22. Per chi fa lavori da ufficio, da scrivania, creativi, tecnologici o laddove non ci sia un rapporto obbligato con l’utenza o con la catena produttiva che ovviamente richiede orari predefiniti, avere dei limiti di tempo lavorativo è una cosa limitante oltre che probabilmente antica. Se sono più creativo dalle 6 alle 8 di mattina perché ho un bioritmo del tipo “mi alzo e sono pronto” e gli altri in famiglia dormono, perché l’azienda non dovrebbe poterne fruire, se poi dalle 8 alle 10 seguo i miei bambini? Oppure se dalle 22 alle 24 riesco a concentrarmi meglio (bioritmo opposto), perché non posso individuare questo tempo come migliore per attività aziendali e altro per attività più consone al mio work-life balance? se questo bilanciamento mi permette di essere meno stressato perché seguo meglio i miei cari, o se un giorno ho un piccolo malanno che mi permette di lavorare da remoto ma non andare in ufficio, perché non poterlo fare?

Seguendo alcune dichiarazioni recenti che hanno fatto scalpore, pare che in Italia si lavori solo se si è in ufficio (lavoro definito dallo spazio, non da output o outcome). Quindi ipotizziamo dalle 8.30 alle 18. Quindi se leggo la posta mentre sono in bagno appena sveglio cosa sto facendo? Divertimento? Oppure se leggo e rispondo alle ultime email la sera verso le 21? Ovvero, in Italia dalle 8.30 alle 18 sto lavorando (perché sono in ufficio, ed è il luogo che caratterizza il mio lavoro), e dalle 18.30 alle 8.30 mi è concesso il remote working (ovvero leggiti pure le email da casa e se sei indietro finisci da casa). Il tutto porta a uno sbilanciamento verso il work e a episodi di burnout.

La vera sfida della nuova modalità di lavoro in Italia

La vera sfida sono i manager. I collaboratori se ricevono un premio per lavorare per task lo fanno, se per obiettivi altrettanto. Ai collaboratori capaci dai un obiettivo e te lo raggiungeranno. Ma questi task e obiettivi, come KPI, monitoraggio, metriche, valutazione, devono essere definiti dai manager. Sta qui la chiave del cambio di modello di lavoro. Questo cambiamento deve arrivare dall’alto (CEO, Direttore, Dirigenza), può essere ispirato o consigliato o segnalato o influenzato dal basso, ma se non abbracciato dall’alto non ha possibilità di attecchire perché richiede un cambio radicale del modo di pensare (mindset shift) aziendale, un nuovo rapporto di fiducia con le persone e un cambiamento spesso importante degli assetti aziendali. Non è la persona che deve gestire il cambiamento, è l’azienda che deve cambiare pelle.

Solo che lo sforzo non si ottiene con nuove procedure, o nuove regole date ai dipendenti, serve un mindset shift dei manager prima di tutto: sono pronti i manager italiani?

La nuova modalità di lavoro e l’economia

Torniamo tutti a fare quello che facevamo prima in modo da ridare spinta alle attività.

Un messaggio che talune figure hanno passato, chiedendo di ritornare negli uffici per fare lavorare nuovamente le attività associate a tale modello lavorativo nelle città. Da un certo punto di vista comprensibile, del resto è come dire che è meglio continuare ad usare il cavallo e non la ferrovia perché altrimenti le locande dove ci si rifocillava dopo 1 giorno a cavallo e dove i cavalli riposavano avrebbero perso i loro avventori. Oppure meglio non usare le navi a motore, perché i rematori avrebbero perso posti di lavoro. Oppure, per prendere un esempio più recente, non postare pubblicità su Facebook perché altrimenti il giornale locale perde la pubblicità.

Il mondo va avanti che lo si voglia o no, le aziende e i business cambiano. Se non si abbracciano le nuove tendenze lavorative, semplicemente si è fuori dai giochi. Modi nuovi di lavorare si creano, altri si distruggono, spiace per questi ultimi ma nel complesso il sistema Paese evolve e l’economia di conseguenza.

Possiamo continuare ad usare i rematori e le locande per un po’, ma tanto gli altri useranno le navi e i treni, quindi o stiamo al passo o diventiamo un paese del quarto, quinto, sesto mondo. Si chiama evoluzione. O la segui o sei fuori: nel tempo anche dal G7.

E non hai modo di far convivere le due anime: non puoi essere novax e vax. O sei uno o sei l’altro. O innovi o stai fermo. E se stai fermo o non decidi, hai deciso che rimarrai indietro.

Cosa c’è di smart nella nuova e vecchia modalità di lavoro?

A noi italiani piacciono le etichette (soprattutto se inglesi) e ogni cosa che è smart ci affascina!

Cosa c’è davvero di smart nel fare 2 ore di viaggio, arrivare in ufficio, lavorare 8-9-10 ore, tornare con altre due ore di viaggio? O cosa c’è di smart nel fare 4 ore di viaggio per vedersi 1 ora? Credo poco. Sicuramente con l’”online” si perdono degli aspetti di relazione, come con il “fisico” si butta un sacco di tempo e risorse in spostamenti. Ognuno dei due modelli ha vantaggi e svantaggi, si tratta di utilizzare quello che meglio si confà (questo è essere smart) all’obiettivo ed esigenza, nonché al valore che si vuole erogare.

Non hanno quindi probabilmente senso né il “full remote” né il “full fisico”, ma un giusto mix dei due.

D’altra parte, cosa c’è di smart nel lavorare 12 ore al giorno da casa? Niente. L’home working fatto durante il periodo covid è stata una forzatura dovuta a una emergenza, che unita al lockdown ci ha fatto immergere nel lavoro per “dare via ai pensieri” e perché non c’era altro da fare. Certo è che se alle 18 finisco e alle 18.01 prendo la bici e faccio un giro o meglio ancora vado al mare o in piscina visto il periodo, non è che poi sia così male l’home-working. Meglio che finire alle 18 e arrivare a casa alle 20 dopo due ore di coda cotto come uno spiedino dal calore dell’automobile lasciata al sole tutto il giorno, no?

La sostenibilità è smart?

Non dimentichiamo che oltre alla sostenibilità del work-life balance di cui si è già parlato, c’è la sostenibilità di un lavoro che non è più fordista, ma che deve cercare un nuovo equilibrio a seguito dell’avvento di internet, dei social e dell’egemonia dei giganti del web. Stiamo ancora lavorando come nella prima rivoluzione industriale, ma siamo già nella seconda, qualcuno dice agli albori della terza (perfino della quarta, dipende un po’ come si vedono le varie tappe).

Quindi va valutata la sostenibilità work-life: nel periodo della prima rivoluzione industriale, quando si usciva dal lavoro, il lavoro era finito. Ora non è più così.

Sostenibilità è potersi disconnettere, laddove ormai siamo talmente fluidamente connessi che siamo connessi anche mentre dormiamo con smartwatch o affini.

Sostenibilità è evitare di muoversi se non serve, per migliorare la qualità dell’aria, i consumi, l’inquinamento in generale.

Sostenibilità è utilizzare lo strumento giusto (vedersi di persona o online) quando serve.

Sostenibilità è evitare di muoversi se non serve perché il covid non è ancora sparito.

Tutto ciò è chiaramente smart, e caratterizza il “nuovo modo di lavorare” che dovrà cambiare l’economia italiana, se non vogliamo diventare un paese conosciuto solo per turismo e lusso.

Smart sarebbe anche iniziare “a misurare” le differenze tra la vecchia e la nuova modalità di lavoro, e capirne le efficienze nel breve e medio periodo, in modo da capire quanto sia efficace, visto che è anni che in altre esperienze italiane e non viene utilizzata.

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