Una recente sentenza del Tribunale di Milano, di gennaio e pubblica da pochi giorni, di condanna a Google per un caso di diffamazione, spiega quale sia la via maestra per esercitare il diritto all’oblio sul web. Ossia l’obbligo di deindicizzazione per i motori di ricerca.
La sentenza del Tribunale di Milano
Google LLC è stata ritenuta, dal Tribunale di Milano, responsabile per la mancata deindicizzazione di alcuni siti internet in cui il ricorrente era stato qualificato “mafioso”, avendo poi ottenuto la condanna dei responsabili per diffamazione. Google è stata anche condannata a pagare i danni, a differenza di precedenti sentenze che si limitavano a imporre la deindicizzazione (Tribunale Milano, Sez. I, 24 gennaio 2020).
La problematica in ipotesi di notizia diffamatoria o di mere offese circolanti sul web, si pone in termini molto pratici, ossia come ottenere l’oscuramento delle offese e/o la minor visibilità possibile delle stesse.
Se con una sentenza passata in giudicato per diffamazione è possibile chiedere ed ottenere la cancellazione della stessa direttamente da chi l’ha pubblicata e/o postata, va compreso come ottenere un risultato analogo nei confronti dei motori di ricerca.
Questi ultimi utilizzano strumenti informatici denominati spider per analizzare il web e i suoi contenuti, inserendo nella propria memoria quantità pressochè infinita di dati.
Questi ultimi diventano accessibili agli utenti che, digitando determinate parole chiave, ottengono come risultato alcune pagine di web con link a siti internet.
Posto che memorizzazione, correlazione tra pagina web e parole chiave e relativo posizionamento sono interconnesse e gestite da un algoritmo segreto e gestito da intelligenza artificiale, è chiaro come il motore di ricerca operi in via del tutto autonoma rispetto al sito c.d. sorgente.
A fronte di una sentenza in cui si afferma che una notizia circolante sul web sia diffamatoria, sarà necessario comunicarlo ai motori di ricerca (e a Google in particolare) chiedendo la deindicizzazione dei siti sorgente (o, meglio, delle pagine in cui è contenuta la notizia o il post).
Nel caso in cui ciò non avvenga con semplice richiesta, si può adire la giustizia civile, per ottenere sia la deindicizzazione che il risarcimento del danno derivante da tale omessa attività.
Di qui la sentenza del tribunale di Milano.
La diffamazione alla prova dell’era digitale e dell’utilizzo massivo della rete in epoca di coronavirus
Dopo ampio dibattito (e numerose denunce e sentenze), è ormai divenuto principio consolidato quello per cui la diffamazione su internet ricada nell’ambito applicativo del comma 3 dell’art. 595 Codice penale.
Internet e i social network in particolare sono, ormai, luoghi pubblici, anche se digitali: la giurisprudenza doveva, quindi, arrivare ad affermarne la natura di “mezzo di pubblicità”.
La diffamazione a mezzo social network è, quindi, diventata una delle fattispecie più conosciute e frequentate dagli avvocati penalisti che si occupano di tutela della reputazione, seconda solo – ma forse ora non più – alla diffamazione a mezzo stampa.
La pandemia da Covid-19 ha aumentato esponenzialmente la presenza online della popolazione e tale situazione ha determinato un incremento dei crimini informatici (soprattutto truffe).
Le modalità di espressione di ciascuno, quindi, sono state poste sotto forte pressione, anche in ragione dell’incertezza e dei timori che la situazione pandemica ha generato, sia di per sè, sia per la gestione “politica” della vicenda.
Fisiologico, quindi, un aumento della “lesione dell’altrui reputazione” su social network, blog etc.
La problematica più rilevante con riferimento a queste ipotesi è la concreta gestione della vicenda sia in fase di indagini (ad esempio quando è sconosciuto l’utente che posta le offese) sia in fase successiva, quando la fattispecie deve pervenire avanti al competente Tribunale in composizione monocratica.
Qui si pone un problema giuridico, pratico e sostanziale: se la persona offesa è una, sarà competente il Tribunale su cui insiste il Comune di residenza, ma se vi è una pluralità di offesi, subentrano dei criteri suppletivi piuttosto complessi.
La tutela, quindi, può essere non sempre agevole, perché richiede la querela della persona offesa ed una sua costituzione di parte civile per ottenere il risarcimento del danno patito in virtù delle offese ricevute.
Ma che succede dopo che, finalmente, si ottiene “ragione”, ossia una sentenza definitiva afferma che si è stati effettivamente diffamati? Il lavoro per gli avvocati e la parte lesa può non essere finito qui perché – come si è visto – può essere necessario agire contro Google. La giurisprudenza però sembra rendere sempre più pacifico l’esercizio di questo diritto.
Conclusioni
L’ambiente digitale è sempre più integrato nel nostro sistema di vita e anche la giurisprudenza si va adeguando.
Il legislatore nazionale, tuttavia, mantiene un atteggiamento piuttosto tradizionalista nei confronti dei reati che si consumano online, ritenendo l’ambiente digitale una mera estrinsecazione virtuale di quanto avviene nella “realtà concreta”.
La velocità con cui la comunicazione online procede, tuttavia, non è più compatibile con strumenti di tutela tradizionale o, quantomeno, non tarati specificamente per essa.
La deindicizzazione dovrebbe, ad esempio, rientrare tra le sanzioni accessorie, al pari di quanto avviene per la pubblicazione della sentenza nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa.
In questo modo si potrebbe operare de plano una tutela rapida del diffamato, senza costringerlo a richiedere autonomamente da deindicizzazione e senza imporgli di sostenere i costi di un contenzioso non sempre agevole e certamente di non così breve durata.
Per ottenere questi risultati i legislatori, italiano ed europeo, dovrebbero prendere seriamente in considerazione di ripensare alle radici il sistema che regge la realtà digitale, conferendole autonoma dignità ed arrivando ad equipararla, sostanzialmente, a quella “concreta”.
Solo con questa rivoluzione copernicana si potranno regolare correttamente i rapporti del futuro – ma anche del presente – e tutelare davvero la dignità personale di ciascuno, comprendendo che la vita digitale è, ormai, una parte troppo rilevante di ciascuno di noi per essere concepita solo come l’implicazione dell’utilizzo di particolari applicazioni tecniche.
La diffamazione: l’articolo 595 del Codice penale
Il Codice penale vede la reputazione e l’onore di una persona come beni giuridici di rango elevato: per tale ragione ha previsto pene severe per chi li leda.
In particolare, prevede che “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate”.
Il reato si modula tra diffamazione semplice (primo comma), diffamazione con attribuzione di fatto determinato (secondo comma) e diffamazione a mezzo stampa (terzo comma), con l’aggravante prevista per le ipotesi in cui il destinatario sia un soggetto avente un munus publicum genericamente inteso (quarto comma).
Elementi strutturali del reato sono l’assenza della persona oggetto di diffamazione, l’offesa della reputazione di questa e la comunicazione a più persone, determinate o pubblico indistinto. Il bene giuridico tutelato viene individuato nella pluralità di concetti che rientrano nell’alveo del c.d. onore: ossia reputazione e decoro.
Queste distinzioni sono rilevanti per comprendere il dibattito dottrinale su cosa sia l’onore per il legislatore penale: si fronteggiano ben tre teorie.
Per un’impostazione soggettiva dell’onore, esso si estrinseca nel sentimento che ciascuno ha della propria dignità e dei propri valori morali di riferimento su sé stesso (genericamente: decoro). L’impostazione oggettiva individua l’onore nell’opinione e sentimento che la comunità ha del soggetto offeso: in altre parole, la sua reputazione.
La terza tesi, ormai maggioritaria, individua l’onore in un bene di natura normativa costituzionalmente orientato, ossia l’onore della persona in quanto tale.
L’onore, quindi, sarebbe un valore intrinseco della persona ed espressione della sua dignità umana. Si capisce, quindi, il bilanciamento tra il diritto di libera espressione del pensiero e diritto alla dignità personale, in favore di quest’ultimo.
La diffamazione oggi viene intesa, per dottrina e giurisprudenza maggioritarie, come un reato di evento, nel senso che non si consuma con la mera condotta ma con il fatto “concreto” della percezione dei terzi soggetti dell’offesa dell’altrui onore.