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Intermediari digitali, guai in vista: inevitabile una grande riforma normativa

Le distorsioni economiche sono solo uno dei lati della complessità legata alla responsabilità degli intermediari digitali. Il modello è in crisi e gli utenti, gli inserzionisti o i giudici non possono continuare a sostituirsi alla necessità di un intervento legislativo idoneo, unitario e non più a macchia di leopardo

Pubblicato il 14 Lug 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

gafa

Possiamo riassumerla così: la pacchia degli “intermediari digitali” sembra destinata a finire presto. Per loro spirano forti venti di riforma, in Europa come negli Stati Uniti, sotto i colpi dei regolatori e delle proteste di molti operatori economici. Un tema reso più attuale dalla crisi economica del covid-19 e la relativa crescita delle diseguaglianze.

Chi sono gli intermediari digitali

Amazon, Microsoft, Apple, Uber, Airbnb, PayPal, Google, Twitter, eBay, Facebook, Sony PlayStation,Visa, MasterCard, sono solo alcuni degli interpreti digitali del nuovo modus operandi basato sulla creazione di valore attraverso piattaforme di intermediazione on line; ovvero fornitori di infrastrutture e regole abilitanti l’insieme di quei servizi il cui scopo è favorire l’interazione tra gli utenti o facilitare l’accesso e la diffusione oppure lo scambio di contenuti, beni e servizi.

Hanno avuto un ruolo fondamentale per il successo (e la libertà) di internet, come la conosciamo adesso, grazie anche a una normativa favorevole pro-innovativa (la Section 230 americana, il Codice delle comunicazioni elettroniche europeo).

Ma adesso il mercato cosiddetto a due lati – (Two sided transaction and not-transaction markets) – diretto dalle mega-corporazioni digitali che per le sue caratteristiche intrinseche “sfugge” all’applicazione tanto delle teorie economiche tradizionali quanto dei quadri giuridici vigenti, rende quanto mai necessaria l’identificazione di nuove strategie regolatorie.

L’effetto rete trasversale

Il principio di fondo, che crea un accumulo di potere sempre più insostenibili negli intermediari è il seguente. “I proprietari di piattaforme controllano la proprietà intellettuale e la governance. I provider fungono da interfaccia delle piattaforme con gli utenti. I produttori creano le loro offerte e i consumatori usano queste offerte”, questa l’efficace descrizione cui segue la bella illustrazione esplicativa del fenomeno tratta dalla ricerca di Van Alstyne, MW, Parker, GG e Paul Choudary, S. (2016). “Pipeline, piattaforme e le nuove regole di strategia. Harvard Business Review, 2016 (aprile) Estratto da www.scopus.com

Parliamo di un insieme di servizi di diversa natura – dall’e-commerce, al marketplace; dal crowdfunding, ai social network – in grado di influenzare in maniera profonda i trend di mercato in ottica globale.

E “Two sided transaction and not-transaction markets”, ovvero mercati su due lati o reti su due lati è la duplice espressione con la quale si identifica questo particolare fenomeno, dove due gruppi di agenti interagiscono attraverso un intermediario e sono attratti l’uno dall’altro, in un processo che gli economisti chiamano effetto rete trasversale “cross-side network effect”.

In pratica, l’utilità percepita da uno dei due lati della rete aumenta con il numero di membri dall’altro lato. Una convulsa tendenza nei confronti della quale i regolatori faticano a stare al passo.

I contrasti con gli intermediari on line

Il tema è di particolare attualità in tempi di crisi economica post covid-19. Molti operatori economici, negozianti e ristoratori ad esempio, si sentono tra l’incudine e il martello: se scelgono di operare attraverso gli intermediari possono salvare il business – sfruttando l’effetto rete di quegli intermediari; ma perdono profitto (in commissioni agli intermediari stessi) e autonomia commerciale. Contribuendo inoltre così – fatalmente – a incrementare quello stesso effetto rete e quindi dipendenza di fondo dagli intermediari, in un circolo vizioso.

Si pensi ai ristoratori “resilienti, costretti dal lockdown emergenziale a rivolgersi al settore del food delivery, e le pertinenti applicazioni come Grubhub, Uber Eats e DoorDash, richiedenti commissioni esose, fino al 40% a carico dei gestori dei ristoranti. O ai negozi che si appoggiano ad Amazon.

Contrapposizioni che sono state abilmente descritte da Nathaniel Popper in un recente articolo uscito sul NYT la cui lettura si rivela sul punto molto interessante.

Amazon prospera nella crisi: ecco perché servono nuove politiche antitrust

Ma anche i contrasti sopraggiunti tra gli sviluppatori di applicazioni mobile e gli store di Apple o Google quanto alle rispettive policy di “rent-seeking” ritenute eccessivamente limitanti ed impositive.

Uno per tutti, il disaccordo, emerso sui social grazie al tweetstorm degli sviluppatori dell’app Hey.com, l’innovativo servizio di posta elettronica creato da Basecamp, e Apple.

Un attrito dipeso dal fatto per cui, dopo aver inizialmente approvato l’app Hey per iOS, due giorni dopo Apple Store avrebbe rifiutato un aggiornamento con correzioni di bug poiché il servizio non offriva l’acquisto in-app, come invece previsto dalle specifiche Linee guida per gli sviluppatori stabilite dalla società di Tim Cook (crf. Regola 3.1.1 Acquisto in-app).

Proteste che potrebbero aver colto nel segno stante che la questione sembrerebbe essersi risolta a favore degli sviluppatori con la previsione di una sorta di approvazione “sub-iudice” annunciata da Phil Schiller, responsabile marketing di Appl, a Basecamp che ringrazia.

“Siamo sicuri che questi miglioramenti soddisferanno le preoccupazioni di Schiller sia per quanto riguarda l’esperienza dell’utente che il modello di business. E Phil, abbiamo messo da parte un indirizzo @hey.com incredibile per te. Gratuito a vita, il nostro regalo per te. Fammi sapere” scrive Jason Fried, CEO di Basecamp.

Le nuove indagini dell’antitrust Ue sulle pratiche commerciali scorrette di Apple

Una circostanza che si aggiunge a una situazione già piuttosto delicata per Apple che risulta, infatti, al centro di due nuove indagini antitrust avviate dalla Commissione Europea.

La prima sulla base dei reclami presentati rispettivamente da Spotify e da un distributore di e-book e audiolibri:

“Le applicazioni mobili hanno sostanzialmente cambiato il modo in cui accediamo ai contenuti. Apple stabilisce le regole per la distribuzione di app agli utenti di iPhone e iPad. Sembra che Apple abbia ottenuto un “gatekeeper” quando si tratta di distribuire app e contenuti agli utenti dei dispositivi popolari di Apple. Dobbiamo assicurarci che le regole di Apple non distorcano la concorrenza nei mercati in cui Apple è in concorrenza con altri sviluppatori di app, ad esempio con il suo servizio di streaming musicale Apple Musica o con Apple Books. Ho quindi deciso di dare un’occhiata alle regole dell’App Store di Apple e alla loro conformità alle regole di concorrenza dell’UE”, Così Margrethe Vestager.

E l’altra, introdotta al fine di accertare se il comportamento di Apple, in relazione alla sua divisione Apple Pay, possa violare le regole di concorrenza dell’Unione:

“Le soluzioni di pagamento mobile stanno rapidamente guadagnando l’accettazione tra gli utenti di dispositivi mobili, facilitando i pagamenti sia online che nei negozi fisici. Questa crescita è accelerata dalla crisi del coronavirus, con l’aumento dei pagamenti online e dei pagamenti senza contatto nei negozi. Sembra che Apple imposti le condizioni come Apple Pay dovrebbe essere utilizzato nelle app e nei siti Web dei commercianti. Inoltre, riserva la funzionalità “tap and go” degli iPhone ad Apple Pay. È importante che le misure di Apple non neghino ai consumatori i vantaggi delle nuove tecnologie di pagamento, inclusa una migliore scelta, qualità, innovazione e prezzi competitivi. Ho quindi deciso di esaminare da vicino le pratiche di Apple relative ad Apple Pay e il loro impatto sulla concorrenza”. Questa la dichiarazione di Margrethe Vestager in merito.

Apple è in buona compagnia. Anche Amazon è sotto i riflettori dell’antitrust europeo.

E il giro di vite dell’antitrust sugli intermediari tecnologici si spinge anche oltreoceano.

Dipartimento di Giustizia, Federal Trade Commission e il Congresso americano non stanno certo a guardare e avviano specifiche indagini nei confronti di Apple, Amazon, Facebook e Google.

Uno scenario dunque in frenetica evoluzione eppure non adeguatamente coperto da alcuna normativa.

Né le norme in materia di concorrenza, né quelle poste a tutela dei consumatori o alla protezione dei dati e della proprietà intellettuale, risultano idonee rispetto alle problematiche sollevate dal contesto specifico legato alle piattaforme digitali e al tipo di mercato insito in queste.

Il prossimo passo verso il Digital Service Act dell’Unione Europea

Money follows eyeballs: È questa la regola d’oro che anima il modello di business tipico dell’economia della piattaforma e che denota l’importanza del ruolo fondamentale rivestito dagli intermediari digitali in ottica sia di engagement del pubblico, che di possibilità di successo per ogni attore coinvolto.

Visualizzazioni, click, like, commenti e condivisioni decretano inesorabilmente la fortuna di un certo contenuto, di un servizio come di un bene presente nello specifico spazio digitale e allo stesso sanciscono anche il grado di soddisfazione dell’opinione pubblica verso una determinata piattaforma ampliandone popolarità ed appetibilità.

Tuttavia, presidiare un tale “territorio” si sta rivelando alquanto difficile e al menzionato malcontento degli operatori economici verso i giganti del web fa da eco la crisi di fiducia verso le istituzioni spesso incapaci di comprendere i continui cambiamenti prescritti dall’evoluzione digitale e di definirne in tempo utile i contorni attraverso le giuste cornici normative.

È destinato, invece, ad entrare in vigore il prossimo 12 luglio il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio 2019/1150, noto come Regolamento Platform to Business (P2B), finalizzato a regolare i rapporti tra le piattaforme online ed i fornitori (definiti “utenti commerciali”) che hanno il luogo di stabilimento o di residenza nell’Unione Europea e che, tramite i servizi di intermediazione online o i motori di ricerca online, siano in grado di offrire beni o servizi a consumatori nell’Unione Europea. Così prevede l’articolo 1 del Regolamento.

Ne è dunque interessato il vasto settore del Marketplace.

Non si applica però ai servizi:

  • peer-to-peer (tra consumatore e consumatore), e B2B (Business to Business)
  • di pagamento online
  • di pubblicità online che non implichino una relazione contrattuale con il consumatore.

In tutti gli altri casi, stando a quanto in esso previsto, gli intermediari online, saranno tenuti all’assolvimento di specifici obblighi incidenti sull’adozione di una serie di misure di equità e trasparenza.

Il testo fa esplicito riferimento alla redazione da parte di questi ultimi di specifici “Termini e Condizioni” destinati ai fornitori commerciali, in tal modo resi edotti sulle peculiarità relative alla struttura della relativa piattaforma, alla disciplina degli aspetti contrattuali applicabili, alle modalità di accesso da parte dell’utente commerciale ai dati personali forniti dai consumatori e, anche, ai fattori di calcolo del posizionamento dei beni e servizi.

Tra questi rientra sicuramente l’indicazione dei costi di gestione richiesti agli utenti commerciali e la pertinenza dei beni e servizi con la ricerca compiuta dal consumatore me ne rimane esclusa l’informativa sulle modalità di calcolo dei fattori di posizionamento che, infatti, si mantiene ancora relegata ad una sfera di riserbo e dunque sottratta all’alea di consapevolezza e valutazione dei fornitori.

Inutile dire che le aspettative di utenti commerciali e consumatori sui concreti effetti di una tale normativa si presentano molto alte.

Aspettative che però non tengono conto dell’effettiva portata del provvedimento che, infatti, demanda agli Stati membri l’obbligo di garantirne l’adeguata ed efficace applicazione, compresa la definizione delle misure sanzionatorie applicabili alle violazioni dello stesso.

Una “riserva” che non pare ad oggi aver avuto seguito nei Paesi dell’UE.

Intanto, sensazioni a parte, solo il prossimo 13 gennaio 2022 avremo modo di constatarne i concreti risultati, quando la Commissione procederà alla prima valutazione della normativa e presenterà una relazione in merito al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo.

La complessa definizione giuridica delle piattaforme online e la mancanza di regole adeguate

La mancanza di una definizione giuridica ed economica unitaria delle piattaforme digitali è esemplare dell’attuale mancanza di quadri regolatori adeguati.

La prima definizione economica istituzionale di intermediario Internet risale molto probabilmente al 2010 quando l’OCSE – l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, li identificò come “soggetti che sfruttano la loro posizione di intermediari per favorire la comunicazione con gli altri attori presenti sul mercato al fine di concludere transazioni e, quindi, creare valore economico e sociale”. Una concezione dunque ampia e generale che non è stata ripresa dalle categorizzazioni di natura giuridica, più specifiche ed orientate ad aspetti di responsabilità e controllo dei contenuti e libertà di espressione.

Di fatto, limitarne la funzione alla stregua di meri “servizi della società dell’informazione” disciplinati dalla direttiva 2000/31/CE (recepita in Italia con il Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70) e definiti, oggi, dall’art. 1, lett. b), della direttiva 2015/1535/UE come “qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi”, quanto piuttosto parametrarne l’agire alla stregua delle direttive vigenti in materia di diritto d’autore e proprietà intellettuale, significa ignorarne aspetti cruciali e fondamentali limitando la portata del ruolo assunto dagli intermediari, in grado di interagire anche oltre le maglie larghe della rete e vere e proprie forme evoluta di esercizio di diverse attività economiche.

Nel frattempo, i nodi irrisolti vengono affrontati a livello giurisprudenziale e il “principio di irresponsabilità” di cui alla Direttiva 31/2000, in capo ai provider- fornitori di servizi internet, eroso in più occasioni dalle Corti.

Dalla Corte federale di giustizia tedesca, ad esempio, che confermando una decisione della propria autorità antitrust, il Federal Cartel Office (Fco) e allo stesso tempo ribaltando una sentenza in senso contrario emessa in primo grado, ha ritenuto che Facebook stesse abusando della sua posizione dominante sul mercato.

I giudici di Karlsruhe hanno quindi esplicitamente affermato che il social network necessitasse del consenso esplicito degli utenti prima di poter in qualunque modo unificare i dati degli utenti acquisiti dalla piattaforma con quelli appresi da altre fonti tra cui Whatsapp e Instagram.

“Non ci sono né seri dubbi sulla posizione dominante di Facebook sul mercato tedesco dei social network né sul fatto che Facebook stia abusando di questa posizione dominante”, ribadisce la Corte nella persona del suo presidente Peter Meier-Beck. “In qualità di operatore di rete dominante sul mercato, Facebook ha una responsabilità speciale nel mantenere una concorrenza ancora esistente nel mercato dei social network.”

La condizione non è di poco conto.

Quando, come in questo caso, un modello di business viene messo in discussione, il rischio di una potenziale perdita di appetibilità e popolarità della piattaforma per gli utenti, specie politici e per gli inserzionisti, non va certamente sottovaluta.

Proprio gli inserzionisti, da Verizon, Coca-Cola, Eddie Bauer, Ben & Jerry’s, Magnolia Pictures, Hp, Ford, Adidas, Levi Strauss, Microsoft, CNN, Patagonia, a Nort Face, si stanno, non a caso, rivelando temibili sostenitori dell’attuale fronte anti-Facebook volto a stimolare nella piattaforma un maggiore impegno nel contrasto alla diffusione di messaggi di odio e di evidente disinformazione.

La loro decisione di sospendere la spesa pubblicitaria sul social media almeno per tutto luglio (se non per tutto il 2020) si pone quale corollario alla nota campagna #StopHateForProfit.

Una campagna di boicottaggio della pubblicità condotta da oltre 240 aziende grandi e piccole rappresentanti circa 400 marchi che sta mettendo a serio rischio le cospicue entrate attese dal social network e che costituiscono la sua principale fonte di introito.

Provocazioni dunque “onerose” che Zuckerberg non può fare a meno di raccogliere “promettendo” maggiore attenzione e implementando una serie di misure concrete tra cui la “disattivazione opzionale della visualizzazione di annunci politici” e l’introduzione del servizio informativo denominato “centro informazioni per gli elettori”.

Che le piattaforme digitali non si pongano a metà strada tra un giornale ed un telefono, come vorrebbe l’amministratore delegato di Facebook, è palese. Come evidenti sono le maggiori e diverse responsabilità che ad esse competono.

La giurisprudenza italiana

“legum servi esse debemus, ut liberi esse possimus”.

Sul punto è certamente interessante fare riferimento alla recente sentenza emessa dal Tribunale di Milano il 24 gennaio 2020 in tema di deindicizzazione dal motore di ricerca e conseguente responsabilità in capo all’host provider (ai sensi dell’art.17, comma 3, del D.lgs. 70/2003).

“Se – come è pacifico – l’associazione tra il nome del ricorrente e i siti in cui lo stesso è definito mafioso è opera del software messo a punto appositamente e adottato da Google […] non può che conseguirne la diretta addebitabilità alla società, a titolo di responsabilità extracontrattuale, degli eventuali effetti negativi che l’applicazione di tale sistema per il trattamento dei dati dell’interessato può determinare”.

In caso di diffamazione, e non solo qualora sussista il diritto all’oblìo, si può ottenere la deindicizzazione dei contenuti da Google ed il risarcimento del danno.

In pratica ricorrendone i menzionati presupposti, in prima istanza, si potrà comunicare l’esito dell’accertamento giudiziario corredato della relativa sentenza passata in giudicato, al motore di ricerca, avanzando richiesta di deindicizzazione delle pertinenti pagine e, in caso di diniego o inesatta applicazione della misura, adire la giustizia civile, per ottenere sia la deindicizzazione che il risarcimento del danno derivante da tale omessa attività.

Una decisione che in Italia si pone in linea con altre precedenti tra cui quella del 2018 quando sempre il Tribunale di Milano (Tribunale di Milano Sezione Prima Civile, Sentenza 5 settembre 2018, n. 7846) si pronunciò sul ricorso promosso da Google contro il provvedimento n. 557 del 21 dicembre 2017 del Garante per la Protezione dei Dati Personali, in tema di diritto all’oblio, relativamente ad un soggetto che rivendicava il diritto di veder rimossi dal motore di ricerca dei link a livello globale che, secondo il proprio assunto, contenevano notizie false e lesive della propria dignità e reputazione.

Altre ne sono seguite nel 2019.

Molto utile la sentenza di Cassazione n. 7708 del 19 marzo 2019.

Un percorso il cui landmark case, risulta essere la bella sentenza della Corte di Cassazione n. 5525/2012 di cui sempre il Tribunale di Milano si è fatto interprete con la successiva decisione – Tribunale di Milano n. 5820/2013.

Non da meno le pronunce più risalenti, tra cui quella del 2010 relativa al caso Google Vividown deciso dalla Procura di Milano e particolarmente significativa per i profili di responsabilità penale riconosciuti in capo ai responsabili di Google Italy.

Sentenza che è stata poi rivista in senso favorevole ai dirigenti Google con la decisione della Cassazione penale 17 dicembre 2013 che per molti ha rappresentato un autentico leading case a favore della libertà della rete rispetto alla libertà dalla rete.

Conclusioni

“L’Internet del futuro è destinato a fallire se gli utenti non avranno fiducia nelle piattaforme online”.

In tal modo si era espressa nel 2016 la Commissione Europea nella Comunicazione Le piattaforme online e il mercato unico digitale. Opportunità e sfide per l’Europa.

Un assunto che trovava conferma anche nella successiva Comunicazione del 2017 “Le piattaforme, fondamentali per l’innovazione, organizzano e definiscono l’ecosistema Internet e hanno assunto la funzione di guardiani di Internet, potendo controllare l’accesso alle informazioni, ai contenuti e alle transazioni online”.

E che la stessa Ursula von der Leyen ha fatto proprio nella sua Candidatura alla Presidenza della Commissione nell’Agenda politica 2019-2024.

Una nuova legge sui servizi digitali migliorerà le nostre norme di responsabilità e sicurezza per piattaforme, servizi e prodotti digitali e completerà il nostro mercato unico digitale.

Digitalizzazione e cyber sono le due facce della stessa medaglia. Questo inizia con una mentalità diversa: dobbiamo passare dal “bisogno di sapere” al “bisogno di condividere”.

Eppure, malgrado si evidenzi una certa consapevolezza, confusione, disinteresse, distrazione, incompetenza e la mancanza di quadri regolatori all’altezza, impediscono di fatto una crescita robusta ed ordinata del digitale e dei paradigmi sociali ed economici che ad esso si accompagnano.

È certo perdurando una tale situazione, in Europa come altrove, la debolezza del sistema sociopolitico rispetto alle forze del mercato protagoniste dell’economia dell’intermediazione non può che generare un approccio decentrato verso il profitto, con conseguenze negative sul fronte della responsabilizzazione e della corretta declinazione delle dinamiche della concorrenza che, peraltro, sono sotto gli occhi di tutti.

Ma le distorsioni economiche sono solo uno dei lati della complessità legata alla responsabilità degli intermediari digitali.

Gli utenti, gli inserzionisti o i giudici non “possono” continuare a sostituirsi alla necessità di un intervento legislativo idoneo, unitario e non più a macchia di leopardo.

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