La situazione critica generata dalla pandemia di coronavirus ha reso l’Europa consapevole che non c’è più tempo da perdere: non si possono più sopportare e, soprattutto, consentire comportamenti elusivi di quelle che oggi sono considerate le prime società mondiali in termini di fatturato e importanza. È necessaria una cooperazione fra i diversi attori coinvolti al fine di giungere a una soluzione adatta ai nuovi modelli di business, in grado di garantire una tassazione corretta ed equa, tenendo, però, in considerazione i principi di imposizione definiti in passato.
Va in questa direzione l’intervento di questi giorni della Commissione europea, che ha deciso di accelerare sul fronte del coordinamento dell’azione fiscale e del rafforzamento del contrasto all’evasione, presentando un pacchetto di 25 azioni distinte per favorire la cooperazione amministrativa e le regole di trasparenza fiscale alle piattaforme digitali, per uniformare le regole di rendicontazione, per rafforzare lo strumento della giurisdizione non cooperativa dal punto di vista fiscale (cosiddetti paradisi fiscali) che negli ultimi anni ha permesso all’Ue di eliminare oltre 120 regimi fiscali dannosi in tutto il mondo.
La Digital Tax Europea, come vedremo, consiste in una svolta rispetto alle tradizionali strutture di imposizione fondate sulla presenza fisica di un’impresa in un territorio e potrebbe sanare una distorsione non da poco: i più importanti Paesi dell’UE sono infatti da sempre considerati le maggiori vittime delle politiche dell’economia digitale, poiché nel corso degli anni sono stati negativamente colpiti dalle tecniche fiscali aggressive poste in essere dalle multinazionali del web e, ancora oggi, continuano a subire sostanziose perdite di gettito a causa della mancanza di una normativa adeguata.
Alcuni esperti ritengono che il problema principale non riguardi il concetto di stabile organizzazione in sé e perciò non si debba procedere a una riclassificazione delle attività o a un cambiamento della soglia legata alla presenza in un territorio, bensì a introdurre un diverso sistema idoneo ad attribuire i profitti in un contesto internazionale. Pertanto, sarebbe doveroso trovare un compromesso in grado di soddisfare interessi contrapposti: da una parte vi è l’esigenza di garantire il diritto di sovranità di ogni singolo Paese e l’adempimento fiscale delle società con carattere elusivo, ma dall’altro di mantenere la neutralità nel sistema di tassazione per evitare comportamenti gravosi a danno delle imprese e abolire le discriminazioni transfrontaliere.
Le barriere alla web tax in Europa
Il tema è dibattuto da anni. Già in occasione dell’Ecofin di Tallinn, in Estonia, del settembre 2017, i quattro Big dell’Europa – Germania, Francia, Italia e Spagna – rappresentati dai loro Ministri dell’Economia, avevano presentato la lettera intitolata “Political Statement: Join Initiative on the Taxation of Companies Operating in the Digital Economy” sull’urgenza di una cooperazione rafforzata al fine di regolamentare la tassazione del digitale, mediante una forma impositiva che colpisse il fatturato piuttosto che i profitti. Una proposta condivisa anche da altri Paesi come Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania. Tuttavia, l’iniziativa avanzata dai quattro ministri europei non fu accolta dall’unanimità dei 27 Paesi membri, poiché non aveva trovato il consenso di Malta, Danimarca, Gran Bretagna, Lussemburgo e Irlanda, i cosiddetti “paradisi fiscali”, ovvero Stati che, offrendo un sistema di tassazione conveniente, negli anni hanno beneficiato di ingenti somme. Il 21 marzo 2018 è considerata un’altra data importante per gli sviluppi dell’economia digitale, poiché la Commissione europea comunicò di voler adottare nuove misure per “garantire che tutte le imprese paghino la loro giusta quota di tasse nell’UE”. Una decisione che spinse l’allora Commissione ad aggiungere al concetto della stabile organizzazione basata sulla presenza fisica, quella digitale, recependo le indicazioni di modifica dei requisiti e dei metodi di allocazione dei profitti avanzate in passato. Nella Raccomandazione della Commissione C (2018) 1650, infatti, si precisa che “il termine «stabile organizzazione» comprende anche una «presenza digitale significativa» attraverso la quale una società esercita in tutto o in parte la sua attività”. L’intervento fu accolto favorevolmente dai Ministri dell’Economia di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, che più volte in passato erano intervenuti per sollecitare un intervento sia a livello globale sia europeo. Ancora una volta, tuttavia, non ci fu un’approvazione all’unanimità, a causa dell’opposizione guidata dai Paesi membri con un regime previlegiato, in particolare Irlanda, Lussemburgo, Malta e Cipro, beneficiari dei comportamenti delle multinazionali del web e pertanto, con l’applicazione di una nuova imposta sarebbero stati colpiti negativamente, con ingenti danni per il sistema nazionale.
Gli Stati Ue in ordine sparso
Attualmente gli Stati membri non sono stati ancora in grado di condividere e approvare una posizione comune, poiché vi sono interessi divergenti che hanno portato a una rottura del consenso tradizionale e uniforme, con la conseguente emanazione di molteplici iniziative unilaterali. Alcuni Paesi, infatti, hanno proposto e, in alcuni casi anche già posto in essere, delle misure nazionali per risolvere il problema dell’erosione della base imponibile, senza attendere il consenso delle altre legislazioni, mentre in altri casi le soluzioni previste non sono ancora state adottate. Uno dei rischi principali, inoltre, è legato alla “minimizzazione” del tema che può portare a conflitti tra le imprese e gli Stati coinvolti: si devono tenere in considerazione soprattutto le differenze tra il modus operandi e le attività che vengono svolte all’interno del settore dell’economia del web, poiché non vi è uniformità, bensì la presenza di molteplici modelli ai quali vengono associate differenti caratteristiche, dunque esigenze; se Amazon, infatti, necessita di ampi e coordinati magazzini, Facebook esige un’ampia raccolta pubblicitaria, aumentando così le difficoltà tecniche legate alla scelta di quello che può essere il miglior metodo impositivo. Se da un lato, dunque, si deve cercare di non creare delle differenze di trattamento, dall’altro è necessario analizzare i diversi fattori che costituiscono i modelli di business. Tuttavia alcuni singoli Paesi, specialmente quelli maggiormente colpiti, hanno deciso di promuovere diverse iniziative per affrontare il problema, mentre dal lato internazionale, e in particolar modo dell’OCSE, sono stati pubblicati solamente dei documenti nei quali sono stati messi in luce i problemi e le sfide, così come dei possibili interventi, ma non si è ancora riusciti ad attuare una misura concreta e definitiva che sia in grado di regolare il sistema fiscale, nel rispetto dei tradizionali principi di tassazione.
Le proposte della Commissione
Le proposte presentate dalla Commissione rafforzano e chiariscono le norme in altri settori in cui gli Stati membri collaborano per combattere l’abuso fiscale, ad esempio attraverso controlli fiscali congiunti. Per quanto riguarda lo scambio automatico di informazioni tra Stati sulle piattaforme digitali, le amministrazioni fiscali forniranno gli strumenti affinché si incrocino le informazioni sulle entrate guadagnate dai venditori, per garantire un’adeguata riscossione delle imposte, limitando al contempo gli oneri amministrativi per le piattaforme stesse. Le regole si applicheranno a tutte le piattaforme, con riferimento a fornitura di servizi, vendita di beni, noleggio di proprietà, noleggio di qualsiasi modo di trasporto e investimento e prestito nel contesto del crowdfunding. La proposta introduce obblighi di rendicontazione uniformi sui redditi guadagnati da coloro che vendono beni o servizi attraverso queste piattaforme che effettueranno le segnalazioni solo in uno Stato membro selezionato e solo una volta all’anno.
Un’accelerazione, quella voluta dalla Commissione, che diventa anche uno stimolo nei confronti dell’OCSE, dove da mesi è operativa la Task force on digital economy che, dopo aver pubblicato un documento di consultazione pubblica, sta lavorando a un negoziato, non con poche difficoltà a causa della forte opposizione degli Stati Uniti, al fine di arrivare a una Web e Digital Tax, ossia un accordo internazionale sulle misure minime di tassazione delle big tech. Un accordo che impedirebbe alle multinazionali di porre in essere strategie “opportunistiche” di natura fiscale, sfruttando quella fiscalità di vantaggio offerta da tanti Paesi, anche europei, come Olanda, Malta e Irlanda, che permettono di operare senza presenza fisica e che causano erosione di base imponibile e sottrazione di imposte al fisco. Insomma, un danno per l’intera unione europea[1].
“Sono già stati compiuti molti progressi per bloccare la frode e l’evasione fiscale e per combattere la fiscalità aggressiva, in Europa e nel mondo – ha chiarito il commissario Paolo Gentiloni – ma quel lavoro è tutt’altro che concluso. Questo è uno scandalo che non può continuare, soprattutto in questo momento di crisi e al fine di costruire una ripresa duratura, tutti devono pagare la loro giusta quota”.
Gentiloni ha precisato che vengono definite regole comuni di rendicontazione e non di regole su come tassare il reddito dei venditori. Infatti, un intervento comune permette di rafforzare la posizione europea nelle discussioni internazionali per ottenere dei progressi e degli sviluppi significativi, assicurando un approccio consistente e non una frammentazione del mercato unico, con il conseguente aumento di incertezza e destabilizzazione.
Vi è insomma la necessità di una disciplina comune, poiché qualora ogni Stato promulgasse una propria normativa per garantire la tassazione dell’economia digitale, non preoccupandosi di ciò che è in atto nelle altre legislature, un’impresa operante in diversi territori rischierebbe di essere soggetta a una multipla imposizione, poiché ognuno è autorizzato ad esercitare il proprio potere di sovranità. La scelta della Commissione perciò serve anche a evitare quanto accaduto in Francia, che ha deciso nelle scorse settimane di imporre una “tech tax” sui prodotti e sui servizi digitali che le grandi compagnie statunitensi vendono nel Paese europeo. L’amministrazione Trump ha interpretato questa decisione come un modo per prendere di mira alcune grandi società statunitensi forti sui mercati europei, come Amazon e Google, e per questo ha deciso di reagire e di interrompere tutte le trattative in sede OCSE Anche l’Italia, dove è vigente dal 2020 la web tax[2], così come previsto dal Dl Fiscale allegato alla Manovra 2020, ha scatenato la reazione degli Stati Uniti, sebbene l’esigibilità dell’imposta sia prevista a fine 2020 e sia stata introdotta un’eventuale sunset clause, cioè l’imposta resterà in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali. Sarebbe quindi nell’interesse dell’America tornare a sedersi al tavolo e trovare un accordo a livello internazionale. D’altronde diversi leader europei, a cominciare dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, provano un’ostilità istintiva nei confronti di Donald Trump e non vogliono farsi trascinare in una crociata. A forza di trattare l’Unione come un “nemico”, il presidente degli Stati Uniti ha provocato una reazione di sfiducia. Gli europei stanno cercando di definire una posizione comune, senza andare allo scontro come fanno gli Stati Uniti, cercando di mantenere le distanze anche dalla Cina. I “27” hanno già inasprito la loro posizione rispetto a Pechino sulle questioni economiche ma anche, ed è questa la novità, con un rapporto dedicato alla disinformazione cinese in Europa durante l’epidemia di covid-19. Gli europei pensano che la Cina possa essere un “partner” in certi ambiti, come la lotta contro il riscaldamento globale, ma ritengono Pechino “un rivale sistemico” sul piano politico, per riprendere una formula usata nel 2019 dalla Commissione europea.
Conclusioni
Che la Commissione voglia rendere l’Europa più autonoma e indipendente è stato chiaro fin dal primo giorno del suo insediamento. E oggi lo sta dimostrando, facendo chiaramente intendere che tipo di risposta dare al quesito se gli europei debbano allinearsi agli Stati Uniti o alla Cina, o farebbero meglio a difendere i propri interessi specifici. Una frase pronunciata la sera del 14 giugno da Emmanuel Macron è significativa, anche se ha fatto discutere. Il presidente si è detto favorevole a “un’Europa indipendente davanti alla Cina, agli Stati Uniti e nel disordine mondiale che tutti conosciamo”. La Commissione europea, con la proposta di un piano di trasparenza ed equità fiscale, ha deciso di favorire e perseguire la soluzione “internazionale”, cercando comunque un accordo all’interno dell’Ocse entro la fine dell’anno. Ma se questo accordo non dovesse arrivare, Bruxelles ha fatto capire di essere pronta mettere a punto una digital tax a livello europeo. Il pacchetto di misure messe a punto sembra dare un chiaro segnale in questa direzione.
La Digital Tax Europea consiste in una svolta rispetto alle tradizionali strutture di imposizione fondate sulla presenza fisica di un’impresa in un territorio, introducendo il soddisfacimento di un requisito più ampio e adatto alle attività correnti. Tuttavia, affinché l’intenzione di giungere a un maggior coordinamento si realizzi concretamente, ci si aspetta un impegno comune di tutti i Paesi europei, al fine di migliorare il pacchetto di proposte, limitando le negatività emerse sino ad ora. È giunto il momento che l’Europa mostri il suo volto unito e solidale. Lo stesso principio di solidarietà con cui alcuni Governi stanno gestendo il Recovery Fund, cercando di avvicinare posizioni ancora distanti su alcuni punti da parte di Paesi più egoistici.
La “strigliata” del Commissario agli Affari Economici, Paolo Gentiloni, serve a mettere tutti i Governi di fronte al fatto che l’intera Europa sta vivendo uno shock economico devastante e senza precedenti. La crisi e la conseguente domanda di finanze pubbliche rendono la riforma della tassazione europea più importante che mai. Una sfida che è anche un’opportunità per una transizione verso un modello di sviluppo più sostenibile e più giusto. L’Europa dovrà usare la leva fiscale anche per raggiungere gli obiettivi fissati nella lotta ai cambiamenti climatici. Dopo la Digital Tax, molto probabilmente nella prima metà del 2021, sarà il momento della Carbon Tax frontaliera, ossia la revisione del sistema di tassazione dell’energia rimuovendo i sussidi ai combustibili fossili, in modo da scoraggiare le aziende dallo spostare la produzione in Paesi con regole verdi meno stringenti. Il New Green Deal perciò sembra stia entrando nel vivo, con la Commissione che sta dando prova di voler far compiere all’Europa un decisivo passo avanti, colmando quel ritardo in tema di armonizzazione dei regimi fiscali che per tanto tempo è stata di impedimento alla sua naturale e progressiva integrazione.
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- La Commissione stima che, a causa della mancanza di una normativa adeguata, le perdite annuali di entrate nell’Ue dovute a evasione fiscale internazionale da parte di privati siano di 46 miliardi di euro, l’elusione dell’imposta sulle società di oltre 35 miliardi e le frodi sull’Iva transfrontaliere a di 50 miliardi. ↑
- L’imposta sui servizi digitali prevede un’aliquota del 3% sui ricavi da applicare ai soggetti che prestano servizi digitali e che hanno un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a 750 milioni e un ammontare di ricavi derivanti dalla prestazione di servizi digitali non inferiore a 5,5 milioni; le soglie vanno calcolate rispetto ai ricavi conseguiti l’anno precedente. ↑