Chiara Ferragni durante una visita alle Gallerie degli Uffizi è stata spericolatamente messa a confronto su Instagram con la Venere del Botticelli. Il fatto (la visita, l’accostamento, la comunicazione) ha aperto molte menti sulle potenzialità e gli sviluppi offerti dal digitale per sviluppare i consumi culturali e per sintonizzare il senso stesso del museo con nuove utenze.
Il visitatore (non l’opera) diventa protagonista del Museo
Se siete frequentatori di beni culturali vi sarete accorti che lì il distanziamento sociale era già in vigore da anni, da molto prima del Covid: ambienti con un numero di visitatori inferiore a quello degli assistenti di sala, irrilevanti vestigia del passato immobili nel discorso pubblico, con rari esempi di contestualizzazione nel quotidiano e nei territori.
Ecco che poi irrompe l’irriverenza digitale, l’onnipresenza dello smartphone, la bramosia del selfie con l’opera, la voglia di interazione. Atteggiamenti che affermano con forza come non siano le opere i protagonisti della visita ma il visitatore.
Certo, Uffizi, Colosseo e Museo Egizio sono affollatissime eccezioni al vuoto della maggioranza dei luoghi. In prevalenza gettonate da stranieri e scolaresche. È proprio a partire da questa posizione di vantaggio che possono spingere un’idea diversa di spazio museale e dichiarare senza vergogna che “Andare al Museo è cool”.
Come sostanziarlo? Con fantasia e libertà, provando, ascoltando, misurando gli impatti, riprovando, togliendo polvere e ragnatele o facendoli diventare elementi di fascino.
Ben vengano l’occasione mediatica di Chiara Ferragni, il nuovo video di Mahmood girato parzialmente al Museo Egizio, così come già fu con grande successo mondiale il video di Beyoncé e Jay Z girato al Louvre che per ammissione del Direttore del museo stesso ha riportato gli adolescenti in quelle sale.
Per moltissimi visitatori i musei a Parigi e Firenze, così come le chiese a Roma, non sono più una tappa obbligata. Forse perché non vi trovano niente da ‘fare’ e la contemplazione o il misticismo non rientrano nelle attività abituali per la maggioranza dei sapiens. Si cercano esperienze personali e raccontabili, attive e qualificanti, magari un po’ esclusive. Che si svolgano in un Museo, un laboratorio di pasticceria, una galleria d’arte, un rifugio antiatomico, un pub, non è elemento discriminante quanto che arricchiscano di comprensione il presente, diano senso al tempo, parlino la lingua del pubblico.
Il museo come palcoscenico del presente
Così il Museo nella sua proiezione digitale non è più luogo del passato di difficile lettura e scarso senso, ma può diventare un palcoscenico del presente. La bellezza della Venere o della Nike messe a confronto con Chiara Ferragni o Beyoncé attiva conversazioni, crea mercato, diventa un confronto con i follower. E se sei tra quelli che non ritengono la signora Ferragni degna di attenzione, meglio ancora, il museo allora diventa più simile a te: l’Antagonista nella storia.
È un fronte su cui le Gallerie degli Uffizi sono impegnate da tempo: già attivi sulla piattaforma per giovanissimi Tik Tok, fanno gli spiritosi anche su Instagram, i formali Facebook, i divulgatori su Youtube. Hanno costruito un vero e proprio palinsesto che si specializza per tipologia di destinatari e momento di fruizione. Sono veri editori, una missione che ogni bene culturale e artistico dovrebbe assumere per acquistare rilevanza nell’indistinto brusio di contenuti digitali che ci circonda. A Firenze, come in altri luoghi attenti all’utenza, hanno colto appieno la potenza del digitale come fonte di dati sull’utenza e come strumento per la raccolta di contenuti, di feedback e bisogni.
I bisogni, già, perché quasi nessuno percepisce il bisogno di un museo in quanto tale. A cosa mi serve un costoso palazzone con 100.000 reperti? Rispondere non è facile.
Invece tutti hanno bisogno di risposte alle domande su cui l’umanità da sempre si interroga attraverso l’arte, i più curiosi hanno sete di nuovo e di confronto, tanti cercano mistero e stupore. Sono tutte relazioni e narrazioni da costruire a partire dalle collezioni e dirette al pubblico nel momento, il linguaggio e nel luogo in cui è più ricettivo. Se l’estasi di un’influencer davanti al Tondo Doni apre gli occhi a chi la segue più di quanto possono farlo i genitori, ben venga. Allora ecco che lo stesso palazzone diventa incubatore di senso.
Il digitale è il luogo per eccellenza dove creare il contatto, costruire una relazione per accompagnare le persone davanti alle opere, alimentare nuovi immaginari, trasformare i visitatori in ambasciatori e fidelizzare.
L’equivoco più grande in cui i direttori e curatori possono ancora cadere è pensare che le opere e le collezioni siano i veri protagonisti del rapporto con i visitatori. E dunque darcene tante, affastellate, autoreferenti. Come se venti vasi etruschi valessero più di due dei quali però ci viene però raccontata la storia, la provenienza, la scoperta, il senso, l’uso.
Conclusioni
Senza togliere nulla a chi ne coglie l’aspetto trascendente, “il Museo a cosa mi serve?” A rendermi protagonista, è una risposta. A farmi sentire parte di una comunità, può essere un’altra. A farmi divertire, rilassare, distrarre, altre ancora. “A crescere in capacità di comprendere, godere e giudicare” potrebbe essere anche un’ambizione per la quale però occorrono nuove vie d’accesso alle persone.
Persone per cui il tema della conservazione dell’opera è lontanissimo, prossimo all’irrilevanza. Soprattutto in Italia dove ogni comune ha il suo Museo dell’XYZ spesso nato dal pensiero monomaniacale di qualcuno per evidenziare specificità irrilevanti già per la comunità stessa.
Il digitale può, e riesce, a fare da ponte tra le esigenze istituzionali di storici e conservatori e i bisogni del pubblico. A entrambe le sponde si può chiedere un passo in avanti verso le ragioni dell’altro, sempre considerando che i primi sono pagati per farlo e i secondi possono pagare per fare tutt’altro senza sensi di colpa.