CULTURA DIGITALE

Game industry terra di machismo, ora giochiamo al #metoo

Solo intervenendo sul design di dinamiche e contenuti sarà possibile colmare il gap di genere che domina il mondo del videogioco. Vediamo come le piattaforme possono trasformarsi in palestre per allenare gli utenti a una nuova, empatica, consapevolezza

Pubblicato il 29 Set 2020

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

videogame women

Nel periodo in cui in America emergeva il caso Weinstein, anche nella game industry si stava verificando una situazione simile. Ma se da un lato i media resero noto a tutti lo tsunami #meeToo di Hollywood, quando le attrici cominciarono a rivelare le molestie subite durante la loro carriera, “l’anche io” proveniente dal mondo del gaming è rimasto piuttosto nell’ombra.

D’altro canto, ancora oggi, non a caso, la comunità video-ludica categorizza i “giochi per donne”, attribuendo loro un giudizio di disvalore. In realtà una svolta nelle strategie della game industry potrebbe non solo “conquistare” l’utenza femminile, ma fare da leva maieutica per una “openness” educativa.

Per avvicinare le donne al mondo della tecnologia bisogna però smantellare il pregiudizio per cui esistono generi e modi accettabili di giocare. E la strada non è proprio in discesa.

L’ingresso del #metoo nella cultura digitale

Nel mondo del gaming, fu attraverso la testimonianza di Nathalie Lawhead che altre donne trovarono il coraggio di unirsi, raccontando le loro esperienze di mobbing. La game designer accusò di stupro un noto compositore di soundtrack, Jeremy Soule. Nel 2008 il musicista fece forti pressioni sulla donna, minacciandola che la avrebbe estromessa dal lavoro se non si fosse concessa a lui sessualmente. A questa rivelazione si unirono altre donne, tra le quali Zoë Quinn, già nota per un episodio di misoginia e minacce subìto nel 2014.

Tuttavia, dopo la bufera iniziale, anche il grido nel mondo del cinema si è silenziato, come se la sofferenza condivisa si fosse ingentilita per il fenomeno del “mal comune mezzo gaudio”, o piuttosto perché alle donne vengono sempre attribuiti comportamenti vittimistici; il dolore che provano è ipocritamente considerato degno di nota.

Oggi nuove accuse di sessismo e molestie piovono sulla Game Industry, tanto che, per tacitare le accuse, importanti aziende come Ubisoft hanno licenziato in tronco i dirigenti sospettati di abusi. È sufficiente estromettere i personaggi coinvolti? Vista la dimensione che l’hate speech riveste ancora su Youtube e su altre piattaforme è importante intervenire in modo più sostanziale. Sul forum 4chan l’anonimato permette agli utenti di dare sfogo al loro Es, tanto che un commento su dieci contiene misoginia, razzismo, supremazia bianca e orrori filo-nazisti.

I vantaggi dell’anonimato

L’anonimato può avere anche lati positivi. Su Kotaku nel 2018 alcune donne si sentirono al sicuro di poter accusare la Riot Games di essere un ambiente misogino, in cui venivano messe in atto ripetute molestie sessuali. La sicurezza che genera l’anonimato rivela, da un lato, il fallimento educativo della legge punitiva, capace di trattenere i maschilisti solo di facciata, e, dall’altro, il fatto che una donna, quando reclama giustizia, viene quasi sempre giustiziata lei.

È chiaro, allora, che al di là di qualche licenziamento o di una moderazione più rigida sulle piattaforme, la game industry debba intervenire alla radice del problema. Deve essere abbattuto il monopolio che i maschi detengono nel mondo videoludico, modificando, contestualmente, il giudizio di valore associato alla donna e, quindi, a quello che le piace fare ed essere.

Gamergate, stereotipi ed educazione

Nel 2014 esplose il cosiddetto Gamergate. Successe quando, su una piattaforma online, una designer di videogame, Zoë Quinn, pubblicò un gioco sulla depressione, Depression Quest. Come spesso accade si attirò una serie di commenti sessisti per aver proposto un genere differente dai soliti fps per “veri uomini”. Siccome non rimase in silenzio, ma testimoniò quello che stava subendo, si attirò addosso brutalità ancora peggiori. Un ex fidanzato pubblicò rivelazioni sulla vita privata della Quinn, cercando di squalificare le parole della donna, accusandola di aver sfruttato una relazione amorosa con un giornalista per ottenere buone recensioni.

Purtroppo una donna non può mai lamentare di aver subito hate speech. Quando accade le persone tendono sempre a svalutare le sue parole, cercando di dimostrare la sua colpevolezza o la sua malafede. Quinn, per avere notorietà, si è concessa a un giornalista, lascivamente, perché una donna è sempre lasciva. Non sarà mai una vittima. La donna resterà sempre la strega degli stereotipi, quando il suo comportamento eccede il contesto della madre chiusa nel suo gineceo.

Era il 2014, eppure, tutt’oggi le donne restano una minoranza nella scienza e nel mondo della programmazione. Questa assenza nel mondo STEM dipende dall’antica concezione per la quale le donne non potevano essere cognitivamente adeguate a ruoli di responsabilità. Nella Grecia non erano pari agli uomini, il loro compito era fare figli e restare confinate nella zona della casa loro preposta. Quando Pericle si innamorò di Aspasia, una straniera dal dubbio passato, destò molti dubbi il fatto che fosse trattata alla pari. Il grande politico era addirittura solito interpellarla per le questioni di Atene.

Ormai alle donne è concesso lavorare fuori casa, ma viene loro vietato di non- lavorare dentro casa. Questa doppia presenza obbligatoria è il vero residuo di maschilismo. Non solo, siccome la donna è tradizionalmente ritenuta un essere prettamente emotivo, le vengono preclusi certi ambiti ed è per questo che le professioni storicamente “per uomini” restano anche a livello di termini un appannaggio solo maschile. La politica, per esempio, fu sempre gestita dagli uomini. Le donne non potevano nemmeno esprimere il giudizio in sede di voto, figuriamoci pensare di candidarsi!

Il gender gap nella tecnologia

Altro settore in cui si trova un numero molto più alto di maschi è la tecnologia, ma non perché le donne siano davvero meno brave. Il fatto di crescere con l’idea di essere inferiori ai maschi nella matematica genera nelle femmine una più che ovvia resistenza alla materia. Inoltre sono i giochi “per maschi” che portano i fanciulli a testare, già in età pre-scolare, le proprie competenze tecniche. Le femmine, allora, per mancanza di occasioni ludiche e un imprinting culturale che le confina nell’ambito umanistico non sono in grado di conquistare quella fiducia necessaria al saper fare pratico. Per risolvere il problema la scuola deve intervenire a tempo debito, offrendo contesti di apprendimento mirato alle ragazze e insegnando la tecnologia in un’ottica più inclusiva.

Il tipo di educazione familiare e scolastica ha una forte incidenza sul tipo di percorso che verrà intrapreso dalle ragazze. In effetti la cultura di una società funziona come una profezia che si auto adempie. Diventiamo l’identità imposta dai condizionamenti subiti. Watson, il padre del comportamentismo, affermava che avrebbe potuto plasmare a suo piacimento qualunque bambino, inducendolo a rivestire il ruolo per cui era stato modellato. Al di là di quest’onnipotenza un po’ angosciante, la società sempre ci pone di fronte all’alternativa di scegliere tra essere individui socialmente accettati o diventare quei pochi, i trasgressori, che dovranno affrontare tutto il peso della sanzione sociale. È su questo punto che bisogna intervenire.

Mente e cervello, i falsi miti sulle donne

Alla base dell’accesso negato ai posti di potere c’è il pregiudizio per cui il genere femminile sia emotivo e usi il lato destro del cervello, ovvero la parte non razionale, non matematica della cognizione. È quest’idea che ancora condiziona la resa scolastica delle femmine nelle materie scientifiche e quindi l’effettivo diniego nei confronti di una carriera STEM.

Cesare Lombroso studiando il cervello femminile concluse che la donna fosse più vicina al fanciullo e al delinquente. Il peso del suo cervello era inferiore a quello del maschio e presentava caratteristiche morfologiche tali da renderla “stupida, un uomo a metà”. L’intelligenza è la quantità di materia cerebrale o dipende dalla qualità delle connessioni? La mente è riducibile al cervello, ossia, è interamente spiegabile attraverso tale substrato fisico o è un fenomeno che emerge oltre esso? Si tratta di uno dei problemi cardine della filosofia della mente.

In realtà il cervello femminile, benché abbia meno neuroni e pesi un etto in meno, possiede un maggior numero di connessioni tra gli emisferi. Insomma presenta caratteristiche diverse rispetto a quello maschile. Tuttavia “differente” non vuole dire né peggiore né migliore. Sono entrambi piattaforme efficaci. I quozienti intellettivi di uomini e donne cresciuti negli stessi ambienti culturali sono sovrapponibili. Se la donna utilizza prettamente (ma non esclusivamente) il lato destro non vuol dire che non sia razionale e efficace.

È assodato che il lato destro del cervello sia fondamentale per la razionalità quanto il sinistro. La ragione fredda non è l’essenza dell’essere umano, anche perché, senza le emozioni saremmo incapaci di risolvere qualunque problema. La ragione è anzi qualcosa di distribuito tra le varie aree cerebrali e si avvale tanto delle competenze logico-matematiche quanto di quelle empatiche e creative. Inoltre, ironia vuole, questo genere di connessioni tra le aree destre e sinistre è più sviluppato nella donna che nell’uomo.

Differenze di genere e gaming

Secondo Mizuko Ito, ricercatrice e antropologa di origine giapponese, esiste una correlazione tra differenze di genere e motivi per cui vengono giocati i videogiochi. Si può essere gamer a vari livelli di interesse. Quando si gioca con il principale obiettivo di creare una rete sociale, di innescare conversazioni e rilassarsi, le identità coinvolte sono più inclusive. È più probabile trovare sia ragazze sia ragazzi. Quando il videogame cessa di essere un divertimento saltuario o un mezzo per la socialità, diventando il fine principale dell’azione, ecco che l’identità femminile si fa meno presente.

Quando si gioca per motivi hobbistici o professionali, la pratica video-ludica è motivata dal piacere che genera il gioco stesso, smettendo di essere subordinato all’amicalità. In questo caso il genere si polarizza verso una più massiccia presenza maschile. Certamente, anche in questo caso, la socialità assume un ruolo importante, ma sempre come conseguenza al “play for play”.

Infatti, grazie a internet, essere bravi in un videogame non resta un’informazione personale. Attorno ai videogiochi si crea una comunità meritocratica, sì, ma maschilista, nella quale gli individui sono gerarchizzati in base alle skills. I membri del gruppo cominciano, poi, a scambiarsi trucchi e informazioni; ciò diventa un’occasione per costruire una reciproca identità sociale. I gamers creano, in questo modo, la video-game culture. Mizuko Ito definisce “augmented game play” questo insieme di relazioni tra fan, i magazine, le recensioni e tutta la conoscenza geek correlata.

Anche in questo contesto tra maschi e femmine esistono diverse priorità. L’estetica del videogame e il design tendono a interessare maggiormente le ragazze, mentre gli aspetti tecnici ai maschi. Infine, anche sulle categorie dei videogiochi esistono vari pregiudizi di genere. L’esistenza del tipico gioco maschile induce a separare comportamenti e gusti, scindendo quelli socialmente accettabili da quelli “magnanimamente” concessi alle donne.

Cultura maschile nel videogame

Siccome la cultura dei videogame è ancora un affare prettamente maschile, come abbiamo visto, il “boy genre” assume la caratteristica di modello ideale, dequalificando i generi ritenuti “femminili”. Questo ha portato nel 2014 a investire un gioco come Depression Quest con valanghe di critiche perché il tema era ritenuto una bazzecola. Le ragazze, per queste ragioni, tendono ancora a vergognarsi di essere gamer. Passivamente, allora, finiscono per accogliere il compito di spettatrici, quello che da sempre rivestono anche nel settore analogico, dove, al più, è concesso loro di essere graziose cheerleaders intente a tifare per la squadra maschile dell’istituto.

Il problema maggiore, pertanto, è come la comunità video-ludica (maschilista) categorizza i “giochi per donne”, attribuendo loro un “giudizio di disvalore”. I videogame che con maggior probabilità piacciono alle ragazze tendono a essere svalutati, come se portassero con sé le caratteristiche negative del target a cui sono destinati.

Come fare in modo che le ragazze approccino al mondo dei videogame e alle materie STEM? La resistenza culturale e la minimizzazione dell’hate speech sono ancora troppo calcificati in questo ambiente perché una ragazza possa pensare di sperimentare un talento tecnologico.

La via all’empatia passa dal videogioco

Perché una ragazza possa cogliere il potenziale dei video-giochi bisogna lasciare che esplori i suoi interessi. Deve sentirsi libera di essere se stessa, senza provare senso di vergogna e di non opportunità nel preferire The Sims o di apprezzare un gioco “da maschi” quale GTA, senza, per questo, trasformarsi in un “maschiaccio”.

Anche nella robotica il tasso di donne coinvolte è preoccupantemente basso, eppure, proprio in quest’ambito, in cui la relazione tra uomo e macchina è uno dei campi di ricerca più importanti, la capacità empatica femminile sarebbe un valore aggiunto.

Una delle più interessanti proposte per avvicinare le ragazze alla tecnologia viene da un progetto tedesco, diventato in breve un’idea sviluppata da diversi partner in Europa, tra cui l’Italia con Scuola di Robotica. Il progetto si chiama Roberta. Si tratta di un kit robotico, utilizzabile soprattutto per quegli ambiti che maggiormente importano al genere femminile: ambiente, biologia e società. L’idea alla base è quella di avvicinare precocemente le bambine alla tecnologia, senza che debbano per forza cedere al compromesso di accettare il “boy genre”.

Obiettivo una “tecno-diversità”

È importante che chiunque possa tradurre la tecnologia in base ai propri interessi, contribuendo, così, a una sorta di “tecno-diversità”. Certamente la massima a cui ci si deve appellare resta quella di essere liberamente responsabili e responsabilmente liberi. Lo stesso deve avvenire per i videogame. Bisogna correggere il pregiudizio per il quale il vero gamer gioca solo a certi titoli. Occorre, dunque, valutare positivamente quello che piace alle donne, ma senza mai rinchiuderle in un’identità stereotipata. Bisogna educare gli individui alla libertà di essere se stessi e alla gentilezza nei confronti delle minoranze. Non bisogna insegnare la tolleranza, bensì la gratitudine nei confronti della ricchezza che l’altro, il diverso, ci porta in dono. Solo in questo modo episodi come quello di Quinn potranno non ripetersi.

Anzi, giocare ai videogame che piacciono alle ragazze potrebbe addirittura essere benefico per guarire la società da cinismo e cattiveria. Educare all’empatia potrebbe impedire che le persone continuino a ridacchiare di fenomeni come il #MeToo. Si usa un termine tedesco, schadenfreude, per descrivere la tendenza a gioire delle sventure altrui. Alcuni ricercatori (Greitemeyer e colleghi) hanno provato a dimostrare come i videogame nei quali è coinvolta la capacità di simpatizzare con i personaggi, in primo luogo gli storytelling interattivi ma anche tanti videogame d’azione, tra cui The last of Us 2 e Detroit: Become Humans, promuovano la trasformazione di quel sentimento antisociale in empatia. Insomma, per diventare più empatici, bisogna entrare un po’ di più nell’educazione culturale femminile.

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