L'analisi

Immuni, perché piace a pochi: ecco gli errori fatti e come migliorare

Solo il 13% della popolazione ha scaricato l’app Immuni. Tutto questo mentre siamo alle prese con aumenti di contagi. All’origine della situazione potrebbero esserci le troppe incertezze legate al suo utilizzo, per esempio sui tempi non definiti per ottenere un tampone in caso di contatto sospetto

Pubblicato il 31 Ago 2020

Vitalba Azzolini

giurista, funzionaria presso una Autorità indipendente di vigilanza e regolamentazione

immuni app

L’app Immuni è stata scaricata dal 13% della popolazione, per 5,2 milioni di download (dati 24 agosto; un aumento di circa 200mila in una settimana). Vi sono state campagne informative, e altre pare siano in preparazione, per sensibilizzare le persone circa l’uso dell’app, ma la sua diffusione resta bassa rispetto alle attese. Soprattutto rispetto al trend di aumento dei contagi e con la prospettiva della riapertura delle scuole.

Eppure, la capacità del sistema tecnologico di contrastare e contenere i contagi è tanto maggiore quanto più ampia è la quota della popolazione che la scarica. Analizziamo cosa fino adesso non ha funzionato e cosa potrebbe essere migliorato.

La fiducia tra PA e cittadini

Si rammenta preliminarmente che l’App di contact tracing – la cui sperimentazione in quattro regioni è cominciata l’8 giugno e il cui uso è stato poi esteso a tutto il territorio nazionale – serve a ricostruire la catena dei contagi, individuando a ritroso chi possa essere entrato in contatto con una persona infettata dal Covid-19. Quando a un soggetto viene diagnosticato il virus, per il tramite di un operatore sanitario parte la notifica ai contatti che l’App ha registrato nei giorni precedenti. In questo modo, i potenzialmente infetti possono essere allertati ed eventualmente sottoposti ai trattamenti del caso. La soluzione tecnologica consente un tracciamento più efficiente ed agevole del contact tracing “manuale” (che resta comunque necessario): vale a dire l’intervista condotta dal personale sanitario ai contagiati, al fine di ricostruire le persone da essi incontrate in un certo lasso di tempo anteriore. Poiché i ricordi potrebbero non essere precisi, supplisce l’applicazione. “Il trattamento automatizzato dei dati e le tecnologie digitali possono essere elementi chiave nella lotta al Covid -19”, ha confermato il Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) nelle Linee Guida dal 21 aprile.

Va innanzitutto detto che, già prima dell’introduzione dell’App, da più parti era stato rimarcato che la fiducia tra cittadini e istituzioni preposte all’implementazione della strategia complessiva di contact tracing sarebbe stata elemento essenziale al fine del più diffuso utilizzo dell’App stessa e, quindi, della sua efficacia. Ma alla fiducia non ha giovato la scarsa trasparenza sul sistema, da un lato, sotto il profilo della protezione dei dati personali (nella fase iniziale), dall’altro lato, sotto quello della salute (nella fase dell’attuazione) degli utilizzatori dell’applicazione. Circa il primo versante, le istituzioni sono state carenti nel comunicare che, se la privacy non è una “fisima”, essa non è nemmeno un ostacolo al tracciamento tecnologico dei contatti.

Eppure, avrebbero potuto disporre di solide basi per spiegare che è possibile coniugare il diritto alla salute e quello alla garanzia dei dati personali. Sarebbe bastato richiamare, a tale riguardo, le citate Linee Guida dell’EDPB, ove si afferma che “a nessuno dovrebbe essere chiesto di scegliere tra una risposta efficace all’attuale crisi e la tutela dei diritti fondamentali: entrambi gli obiettivi sono alla nostra portata, e i principi di protezione dei dati possono svolgere un ruolo molto importante nella lotta contro il virus. Il diritto europeo in materia di protezione dei dati consente l’uso responsabile dei dati personali per la gestione della salute, garantendo al contempo che non siano erosi i diritti e le libertà individuali”. Così come pure poteva citarsi il Garante italiano che, nel corso di un’audizione, ha spiegato come “il diritto alla salute e la protezione dei dati” – diritti fondamentali – presentino “inattese analogie, dovute essenzialmente alla dialettica che sottendono: fra libertà e dignità, persona e società. Questi diritti vivono poi in costante dialettica tra garanzia individuale e tutela sociale, realizzando la prima nel bilanciamento con la seconda, spesso persino in sinergia”.

I riferimenti normativi

Più in concreto, come ricordato dal Nexa Center for Internet & Society del Politecnico di Torino, il GDPR – unitamente alle altre normative sull’argomento – prevede trattamenti di dati personali in fasi emergenziali se essi sono necessari, tra l’altro, “per tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione”. Inoltre, anche in emergenza, qualsiasi tecnologia che implichi il trattamento di dati personali deve “essere pienamente aderente, per la specifica finalità perseguita, ai principi dettati dal GDPR (…), e in Italia dovrà rispettare il più alto livello di tutela previsto dal D.L.vo 101/2018 in relazione ad alcune categorie particolari di dati tra cui i dati sanitari”. Pure Commissione, Parlamento e Consiglio Ue, Garante privacy europeo, Garante privacy italiano, oltre all’EDPB nelle citate Linee Guida, hanno mostrato che non esiste dicotomia tra privacy e salute, esponendo quanto necessario, in punto di diritto, al fine di bilanciare questi diritti fondamentali nell’uso di un’App di contact tracing: tra le altre cose, idonea base normativa; minimizzazione del trattamento di dati personali; volontarietà della installazione e dell’utilizzo della App; preferenza per sistemi basati su eventi di contatto con soggetti positivi (c.d. dati di prossimità), piuttosto che sulla geolocalizzazione; favore verso soluzioni decentralizzate per la memorizzazione dei dati (conservati nei dispositivi mobili degli utilizzatori e non in un server unico e centralizzato); esclusione di trattamenti del tutto automatizzati e previsione dell’intervento di operatori sanitari per la valutazione clinica; temporaneità dell’utilizzo della App e cancellazione dei dati entro un termine certo; individuazione chiara del titolare del trattamento.

La conciliazione fra privacy e salute è stata realizzata in Italia recependo i citati principi nel decreto-legge n. 28/2020 (art. 6), con cui è stato introdotto il tracciamento dei contatti stretti tra i soggetti che installino, su base volontaria, un’apposita applicazione per dispositivi di telefonia mobile. “È una norma che risponde alle richieste”, ha osservato dal Garante privacy nella audizione sopra citata, “non solo di scelta volontaria e di scelta preferenziale decentrata rispetto all’alternativa possibile di un accentramento dei dati”, ma anche in quanto non è prevista la geolocalizzazione, che era altro elemento (…) sconsigliato, non solo perché è più invasivo dal punto di vista della protezione dei dati, ma anche perché meno efficace”. La norma, necessaria base giuridica per l’uso dell’App, prevede tra l’altro la titolarità del trattamento, lo svolgimento di una valutazione di impatto (DPIA), il divieto di trattare i dati raccolti per finalità diverse da quella specificate, salvo il possibile uso in forma aggregata o comunque anonima, per soli fini di sanità pubblica, profilassi, finalità statistiche ecc.; l’espressa indicazione che il mancato utilizzo dell’App non comporta alcuna limitazione o conseguenza in ordine all’esercizio dei diritti fondamentali; la cessazione dell’utilizzo dell’applicazione, della piattaforma e di ogni trattamento al termine dello stato di emergenza, comunque non oltre il 31 dicembre 2020, ed entro la medesima data la cancellazione o la definitiva anonimizzazione di tutti i dati personali trattati.

La necessità di fare i tamponi

Dunque, salute pubblica e protezione dei dati personali non sono opzioni alternative, e il governo avrebbe fatto meglio a comunicarlo con chiarezza alla popolazione, sulla scorta di quanto detto sin dall’inizio – come esposto – da istituzioni italiane ed europee, nonché da esperti, i quali suggerivano i necessari accorgimenti da adottare. Ma se oggi, dopo la rilevata opacità della fase iniziale, può affermarsi che i requisiti per la garanzia della privacy siano rispettati e che la App possa essere utilizzata con le garanzie necessarie, continuano a persistere profili poco chiari riguardo al secondo versante cui si è accennato: la tutela della salute. Per spiegare questo profilo, serve fare ricorso a quanto detto dal Garante privacy in un’intervista nei mesi scorsi, cioè che non ci si può illudere che basti tracciare i contatti, serve poi il test diagnostico o l’app è inutile. E serve anche richiamare un passaggio delle Linee Guida dell’EDPB, circa le applicazioni di contact tracing: “la loro diffusione dovrebbe essere accompagnata da misure di sostegno volte a garantire (…) che le segnalazioni possano essere utili al sistema sanitario pubblico. In caso contrario, queste applicazioni potrebbero non esplicare appieno la propria efficacia”. E ancora il Garante privacy, nel parere sull’App, aveva rilevato la necessità di “misure tecniche e organizzative per mitigare i rischi derivanti da falsi positivi”.

Ebbene, da queste affermazioni emerge che il sistema sanitario deve prontamente intervenire, affinché il meccanismo del contact tracing funzioni al meglio e i cittadini si sentano garantiti anche dal punto di vista dell’assistenza medica, dopo aver scaricato l’applicazione. Eppure, nonostante il citato d.l. 28/2020 preveda espressamente che l’App per “allertare le persone che siano entrate in contatto stretto con soggetti risultati positivi” abbia il fine di “tutelarne la salute attraverso le previste misure di prevenzione nell’ambito delle misure di sanità pubblica legate all’emergenza COVID-19”, il collegamento fra l’alert e il sistema sanitario non pare solidamente strutturato.  I dubbi espressi al riguardo sin dall’introduzione dell’App non sembrano ancora essere stati sciolti, e ciò inficia la fiducia delle persone: non c’è una procedura medica certa, attivabile in tempi prefissati, per qualunque soggetto allertato, tesa a verificare la sua eventuale positività al virus. E ciò comporta che non sia nemmeno sicura la circostanza che chi riceve la notifica dall’App sia poi sottoposto a tampone.

La possibilità di isolamento

Infatti, sul sito di Immuni si dice che, qualora un soggetto sia allertato, deve “seguire tutte le raccomandazioni di Immuni”, ma tali raccomandazioni si limitano a suggerire “l’isolamento e di contattare il proprio medico di medicina generale”: ciò conferma che non c’è alcuna garanzia della terza T della strategia complessiva (Trace, Test, Treat), vale a dire un tampone, e tanto meno che esso sia eseguito tempestivamente o, comunque, entro un tempo certo. In altri termini, dopo mesi dall’avvio dell’App, ancora non è chiaro quali siano le “attenzioni mediche”, di cui parla il sito di Immuni, per chi riceve una notifica di contatto a rischio: si sa solo che l’allertato dovrebbe porsi in auto-isolamento ed aspettare un eventuale intervento sanitario. Ma, durante l’attesa dai tempi incerti, ad esempio come si giustifica l’assenza dal lavoro? Perché, mentre chi sia messo in isolamento fiduciario, a seguito di un apposito atto dell’autorità sanitaria, fruisce della causale della malattia (decreto c.d. Cura Italia), chi sta a casa in attesa di un medico che gli dica cosa fare non ha alcun giustificativo speciale.

La circostanza di restare segregati in attesa di un tampone, moltiplicata per tutti i potenziali utilizzatori della App, potrebbe comportare un risultato paradossale: al lockdown generalizzato da Dpcm potrebbe sostituirsi l’isolamento precauzionale da App per le persone sospette contagiate e non testate. Persone le quali, dopo essere rimaste per giorni rinchiuse in attesa di tampone, potrebbero poi risultare negative e uscire da casa, salvo dover rientrare cautelativamente in isolamento se, una volta uscite, il loro cellulare dovesse riagganciare quello di un contagiato. E così via. Suggerire agli allertati di stare isolati – come indicato dal sito di Immuni – senza altre rassicurazioni, così eventualmente ricreando un popolo di reclusi, non ha incoraggiato l’utilizzo dell’App.

Che succede e bisogna fare dopo notifica Immuni: isolamento e tampone

Conclusione

In conclusione, una comunicazione insufficiente e tardiva riguardo alla garanzia della privacy e la mancanza di certezze circa l’organizzazione degli interventi necessari per tutelare la salute degli allertati hanno minato e ancora minano la fiducia delle persone nel sistema tecnologico per il tracciamento. “Il fondamento di questo sistema credo debba essere la fiducia. Perché sia raggiunta una percentuale molto alta di adesione (…), deve esserci la fiducia in questo sistema”, aveva detto mesi fa il Garante privacy. Dunque, al di là delle più o meno efficaci campagne di sensibilizzazione, la ricostituzione della fiducia tra cittadini e istituzioni, soprattutto con l’attuazione di un’efficiente gestione sul piano sanitario, è il tema su cui serve lavorare per una maggiore diffusione dell’App Immuni.

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