l'analisi

Violenza sessuale via Whatsapp, che cambia con la sentenza della Cassazione

Basta inviare una foto esplicita non richiesta perché si profili il reato di violenza sessuale. Lo stabilisce una nuova sentenza della Cassazione. Il cui valore di precedente è nel rapporto tra violenza sessuale e il reato di adescamento. Ecco perché

Pubblicato il 09 Set 2020

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

cyberbullismo

Una recentissima sentenza della Corte di Cassazione delinea in maniera chiara le modalità con cui una chat WhatsApp (ma il discorso vale anche per altri strumenti telematici) può essere strumento di violenza sessuale, anche senza contatto fisico.

Il fatto ed il ricorso per cassazione

La sentenza decide sul ricorso cautelare presentato da un soggetto indagato di violenza sessuale, ai sensi degli artt. 81 capoverso, 609 bis e 609 ter del Codice penale.

L’uomo aveva inviato ad una ragazza minorenne svariati messaggi sessualmente espliciti tramite la diffusissima app di messaggistica.

L’aveva poi minacciata di pubblicare su altri social (Instagram) e siti hot le chat se non le avesse inoltrato foto senza reggiseno e se non si fosse resa disponibile a commentare foto esplicite inviatele.

Non vi era mai stato alcun contatto fisico tra i due e nemmeno vi era stata richiesta di un incontro.

Da qui il primo motivo di ricorso: secondo la difesa dell’indagato – sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere – la totale mancanza di contatto fisico avrebbe dovuto determinare la riqualificazione del fatto nell’ipotesi di reato prevista dall’art. 609 undecies del Codice penale.

In altre parole, non essendoci stato contatto, sosteneva la difesa, non si poteva parlare di violenza sessuale su minore, ma di adescamento.

Il contesto normativo, in breve

La violenza sessuale è punita dall’art. 609 bis del Codice penale; l’art. 609 ter prevede un elenco di circostanze aggravanti, fra cui la minore età della vittima.

Il Codice qualifica la violenza sessuale come un reato contro la persona; gli elementi distintivi sono l’utilizzo di violenza, minaccia o abuso di autorità per costringere la vittima a compiere o subire atti sessuali.

La giurisprudenza della cassazione ha qualificato come violenza ogni modalità idonea a superare le difese della vittima: in questa nozione, quindi, rientrano anche tutte le modalità non brutali, ma comunque “a sorpresa”.

Dato che la nozione di atto sessuale comprende ogni “gesto” che importi il contatto con zone corporee idonee a generare nell’agente eccitazione sessuale, sono stati ritenuti colpevoli di violenza sessuale sia il giudice che aveva dato la celeberrima – purtroppo – “pacca sul sedere” ad una cancelliera, sia un giovane che aveva  “rubato” un bacio sul collo ad una ragazza senza il consenso di quest’ultima.

L’adescamento, previsto e punito dall’art. 609 undecies del Codice penale, invece, punisce ogni atto volto a carpire la fiducia di un minore di anni sedici attraverso lusinghe o minacce, per commettere una serie di reati, dalla violenza sessuale alla pornografia minorile.

Si capisce, quindi, perché la difesa dell’indagato abbia sostenuto le tesi per cui il fatto avrebbe dovuto essere ritenuto adescamento e non violenza sessuale: lo scopo, infatti, era procurarsi immagini e non contatti fisici.

La sentenza

La Terza Sezione della Cassazione ha rigettato il ricorso, valorizzando due aspetti obiettivamente rilevanti della vicenda che si è trovata a valutare.

Il primo aspetto è il ricorso alla minaccia effettuata nei confronti della minore per costringerla a spogliarsi ed inviare foto si sé senza reggiseno. La minaccia è, effettivamente, uno degli elementi più caratterizzanti della violenza sessuale, ma è presente anche nel reato di adescamento.

Nel caso di specie, sia il Tribunale de riesame che la Cassazione hanno valorizzato la “dolosa strumentalizzazione dell’inferiorità della vittima da parte dell’agente”.

In altre parole, l’intensità della minaccia sembra essere stata determinante nella qualificazione giuridica del fatto.

L’assenza di contatto fisico non è stata, invece, ritenuta elemento dirimente. La Cassazione ha ritenuto che l’utilizzo di una chat fosse più che sufficiente, richiamandosi anche a dei precedenti in materia.

In altre parole, la costrizione a spogliarsi, per quanto a distanza e solo “virtualmente”, sarebbe già di per sé un “atto sessuale” rilevante ai fini dell’art. 609 bis del Codice penale.

Conclusioni

La sentenza della Terza sezione penale è stata resa in sede di valutazione della misura cautelare e, per questo, non ha affrontato il tema in modo così approfondito da diventare una pietra miliare.

Certo è però che, in questo momento storico in particolare, sarà un precedente rilevante, in particolare per le procure della repubblica che in epoca Covid hanno dovuto affrontare – e molti ne emergeranno ancora – numerosi fatti di criminalità “virtuale”.

Va detto che la distinzione tra violenza sessuale e adescamento, in fattispecie analoghe, resterà sfumata e che anche l’esatto inquadramento del fatto andrà effettuato caso per caso.

La Cassazione, peraltro, ha anche affermato che il fatto su cui si è pronunciata potrebbe anche essere ritenuto, sempre alla luce dei precedenti in materia, un tentativo di delitto e non una forma consumata.

Sono stati richiamati precedenti anche del 94, ma il principio, in sé, non è consolidato perché la questione è il rapporto tra violenza sessuale e il reato di adescamento, che è stato inserito, così com’è, nel 2012.

Per queste ragioni la sentenza della Terza Sezione penale, interessante e ben scritta, per quanto sintetica, giustamente è stata ritenuta dalla stampa un precedente di cui parlare pubblicamente (come era capitato per la celebre sentenza, sempre in materia di reati sessuali, sui “jeans”): sarà di certo un momento di riflessione sui comportamenti in ambito digitale.

Va anche evidenziato che la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è fortemente orientata verso letture “sostanzialistiche” di ogni vicenda in cui siano vittime dei minorenni in ambiente virtuale, dove si ha la sensazione che vi siano ancora troppo poche tutele anticipate per i minori.

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