Anche se si scrive tanto di smart working, nessuno o quasi si preoccupa di cercare di aiutare i manager “controllori”, ovvero quelli che vedono nello smart working il pericolo della perdita di potere e la sofferenza della remotizzazione dei propri dipendenti di cui non si fidano e considerano fannulloni.
Cerchiamo di colmare questa lacuna.
Questi “capi” sono quelli del micromanagement, del “se lo faccio io lo faccio meglio” o “se lo imposto io lo imposto meglio”. Il loro rischio è di perdersi nei meandri delle piccole cose da fare ogni giorno, rispetto alla visione di insieme. La loro condanna è perdersi nel fare e dimenticare che il loro ruolo è decidere.
Con questo articolo vogliamo anche aiutare quei manager che magari vedono qualcosa di buono nello smart working, ma non capiscono da dove iniziare, e trovano più “confortante” rimanere nel vecchio modello di lavoro ad ore in ufficio, perché lo conoscono, l’hanno già provato ed è sicuramente più difficile implementare il nuovo modello, che richiede meno controllo, più fiducia, maggiore comprensione del lavoro altrui e la definizione di un compromesso tra obiettivi e lavoro ad ore.
Del resto, va fatta una considerazione: proviamo ogni giorno processi nuovi, nuovi strumenti, posizione delle scrivanie nuove, app nuove. Abbiamo una sola modalità organizzativa ovvero lavorare a ore in ufficio. Ora possiamo sperimentare una nuova modalità: lavorare ovunque in un orario elastico, oppure un misto di quest’ultima e dell’altra che conosciamo. Può essere interessante anche solo vederla così: il lavoro smart/elastico è un’opzione da esplorare per averla nella cassetta degli attrezzi del buon manager e poterla usare laddove serva, laddove qualcuno se lo meriti, laddove sia più efficace.
Quindi, perché non provarla?
Sperimentare, esplorare, capire pro e contro, vedere laddove può essere utile e dove no, dove è vantaggiosa e dove no, è importante.
Non è possibile che una modalità organizzativa usata da molte aziende nel mondo sia completamente negativa, avrà pure lei qualche vantaggio? No?
Un capo controllore potrebbe iniziare non con un “big bang smartworking” dato a tutti indiscriminatamente, ma a piccoli passi, per poterlo gestire. Ecco come.
Individuare le persone adatte allo smartworking
Primo requisito è la fiducia. Una delle caratteristiche di un forte ego tipico del capo controllore è la paranoia, che prevede che non ci si può fidare di nessuno e tutti sono lì per fregarti e fare il loro interesse.
Che le persone facciano il loro interesse penso sia abbastanza naturale, del resto le persone sono anche in grado di fare l’interesse dell’azienda. Alcune (rare) mettono anche l’interesse dell’azienda prima del proprio. Per cui vale la pena di individuare le persone che bilanciano l’interesse proprio e aziendale, e con loro sperimentare la modalità organizzativa nuova.
Infatti, se non mi fido di una persona non vale la pena di permetterle lo smart working da subito. Questo perché troverò motivi per cui “mi frega” e quindi soffrirò del “bias della conferma” rendendo l’esperienza già negativa e fallimentare in partenza.
Se poi è troppo doloroso pensare di “fidarsi” di una persona, si può fare una classifica delle persone di cui mi fido di più e di meno, rendendo la classifica relativa rispetto agli altri collaboratori e non assoluta (fiducia/non fiducia). Potrei sentirmi meglio, come capo controllore, e trovare comunque qualcuno con cui cominciare a provare la nuova modalità.
Per iniziare in maniera incrementale e iterativa è meglio farsi una piccola tabellina per avere le idee chiare, come può essere la seguente.
Persona | Fiducia / punteggio |
Andrea | No / 4 |
Claudio | No / 5 |
Pierluigi | Si / 8 |
Maria | No / 5 |
Lia | Si / 9 |
Paolo | No / 2 |
Sandra | Si / 7 |
Nicola | No / 3 |
(I punteggi sono il modo di poter semplificare la valutazione e di evitare l’approccio SI/NO)
Avere le persone in ufficio rispetto ad averle in remoto lato produttività non cambia molto. Se uno è un lavativo, lo sarà in entrambi i posti e a tutti gli orari. Certo in remoto c’è maggior possibilità di essere lavativi, del resto c’è maggior responsabilità nell’essere produttivi proprio perché gli obiettivi che raggiungi dipendono da te e non da chi ti spinge a conseguirli.
Individuare le attività fattibili da remoto
Un secondo passo, è quello di capire se la persona di fiducia fa attività per cui abbia senso di parlare di smart working. Questo in relazione al funzionamento dell’azienda, alle necessità dei clienti sia esterni che interni (i colleghi).
Ad esempio: il personale di helpdesk che prima lavorava in ufficio dalle 8.30 alle 18 (con pausa pranzo dalle 12 alle 14) può fare smart working “spaziale”, ma probabilmente non “temporale”. Infatti, avrà bisogno di mantenere la stessa fascia oraria di raggiungibilità perché i clienti si aspettano il servizio in quegli orari, sebbene non sia importante la locazione fisica (la persona può essere in ufficio o casa).
Quindi vanno mappate le funzioni e le attività che posso fare in smart working e quali no, nelle due dimensioni temporale e spaziale.
Persona | Smartworking / Fiducia | Funzione | SW Spaziale | SW temporale |
Andrea | No | Helpdesk | – | – |
Claudio | No | Programmatore | – | – |
Pierluigi | SI | Programmatore | Si | Si |
Maria | No | Helpdesk | SI | NO |
Lia | Si | Commerciale | Si | Si |
Paolo | No | Commerciale | Si | Si |
Sandra | Si | Segreteria | No | No |
Nicola | No | Segreteria | – | – |
Mi accorgo subito curiosamente di alcune cose:
- ci sono persone di cui non mi fido molto che fanno già smart working: parlo di Paolo, un commerciale che è sempre in giro, a tutte le ore, ma che non raggiunge spesso i budget e che accampa sempre mille motivi per cui quando viene chiamato al telefono non risponde
- ci sono persone a cui vorrei far fare smart working ma non riesco, ad esempio Sandra che è di fiducia ma è la segretaria e serve che presidi l’ingresso della struttura per accogliere gli ospiti, e quindi difficilmente può fare questa operazione da remoto o in orari che non siano quelli di apertura dell’ufficio
- ci sono persone con cui invece posso sperimentare, come ad esempio Pierluigi, che fa il programmatore, quindi un lavoro il cui orario o luogo non è importante, ma per cui è importante la scadenza da rispettare. Con questa tipologia di persone potrei provare a sperimentare lo smart working, essendo in un “ambiente protetto”, ovvero una persona di cui mi fido e la cui funzione/attività lo permette.
In tale modo posso pensare “big” (provare lo smart working su tutta l’azienda), partire “small” (con un caso di studio) e “learn fast” (cercare di imparare velocemente pro e contro di questa nuova modalità organizzativa).
Individuare vincoli di organigramma
È chiaro che se permetto lo smartworking a Pierluigi, dovrò permetterlo anche a Claudio che è il suo responsabile. Il rischio di non farlo è che potrei avere dei problemi organizzativi importanti. Devo quindi valutare una volta individuate le persone con cui sperimentare, i suoi pari grado e i suoi superiori e capire se non genero conflitti che poi andrebbero gestiti.
Per cui funzioni e organigramma sono il terzo tassello da valutare.
Persona | Smartworking / Fiducia | Funzione | SW Spaziale | SW temporale | Dipendenza |
Andrea | No | Helpdesk | – | – | Maria |
Claudio | No | Programmatore | – | – | – |
Pierluigi | SI | Programmatore | Si | Si | Claudio |
Maria | No | Helpdesk | SI | NO | – |
Lia | Si | Commerciale | Si | Si | Paolo |
Paolo | No | Commerciale | Si | Si | – |
Sandra | Si | Segreteria | No | No | Nicola |
Nicola | No | Segreteria | – | – | – |
Nel caso specifico Pierluigi è un ottimo candidato per provare lo smart working, ma dipende da Claudio per il quale la fiducia non è massima. Andrà fatta una scelta: entrambi in smart working o entrambi in ufficio? Oppure, se si ha la forza, solo Pierluigi in smart working?
Creare un modello a obiettivi
Pierluigi era abituato a rispettare le scadenze. Lavora in un gruppo che applica lo scrum, quindi come mentalità è già predisposto a lavorare al meglio delle sue possibilità, in iterazioni progressive e in modalità miglioramento continuo. Per lui il cambio culturale non è enorme. Si tratta semplicemente di trovare un accordo per cui si possa fare smart working permettendo a Pierluigi di rimanere in contatto con l’azienda e i colleghi.
Nel caso invece Pierluigi non avesse già lavorato per obiettivi o non avesse il giusto mindset, bisogna lavorare sulle sue attività per creare questo modello nuovo. Vanno analizzate le sue attività task/output), va capito come fare a trasformarle in obiettivi (value/outcome) e progressivamente mediante iterazioni successive raffinare questo processo, dove sia il dipendente che il manager lavorano insieme per uno scopo comune: generare il valore per il cliente mediante il raggiungimento di obiettivi specifici.
È un percorso progressivo, che richiede tempo, impegno e pazienza, perché con questo percorso si crea anche il giusto mindset. È semplice? No. È più semplice il vecchio modello ad ore? Si. Del resto, fermarsi al vecchio modello solo per comodità non è una motivazione adeguata a non sperimentare.
Un modello codificato per il passaggio di modello e mindset
Difficile da dire. Lo smart working nella sua accezione più ampia è un capo sartoriale, ovvero va capito come meglio può essere vestito da ogni persona e ogni ruolo, e ruoli simili in aziende diverse possono vestirlo in maniera diversa, dipende dalla dimensione dell’azienda, dalla sua struttura logistica, dalla sua cultura, dalle attività che fa: insomma da molti aspetti.
Ecco perché questo modello organizzativo da provare non è semplice e richiede impegno, perché non c’è una soluzione univoca corretta, ci sono solo delle scelte adattative che possono cambiare nel tempo.
Ad esempio, molte aziende prediligono un modello di “3 giorni a casa 2 in ufficio” con magari i giorni in ufficio fissi, in modo che le persone possano interagire fisicamente.
È il modello migliore? La domanda non a ha un’unica risposta. Dipende dall’azienda ed è l’azienda stessa che deve capire se il modello è migliore. Ma se non lo sperimenta, non lo saprà mai.
Facciamo qualche esempio che spiega meglio:
L’azienda A decide per “3 giorni a casa 2 in ufficio”. L’azienda A però non ha strumenti di collaboration (es. Gsuite), non usa strumenti di project management (come Asana), non usa strumenti di scambio di informazioni (tipo Slack). Le persone iniziano a sperimentare la modalità ma le informazioni non fluiscono (non per colpa delle persone ma per mancanza di strumenti adatti). Iniziano gli tsunami di riunioni e email con almeno 10 persone in copia. Dopo due mesi, l’azienda è ingolfata dall’assenza di strumenti non adatti.
L’azienda B decide per “3 giorni a casa 2 in ufficio”. L’azienda B ha tutti gli strumenti utili del caso, da collaboration a gestione progetti a strumenti di scambio informazioni. Le persone però non hanno ancora sviluppato il corretto mindset, quindi ognuno fa il suo pezzo di lavoro e appena fatto lo “lancia oltre il muro” all’altro reparto. Questo porta a creare conflittualità tra le persone, perché gli obiettivi non vengono raggiunti ma non è mai colpa di nessuno perché ognuno dice “ti avevo scritto che avevo finito etc etc”. Manca il mindset.
Tra l’altro i puristi dello smart working potrebbero obiettare: stai dicendo che 3 giorni a casa lavori per obiettivi e 2 giorni in ufficio lavori ad ore?
Sebbene lo smart working possa essere visto come un lavorare per obiettivi con flessibilità di luogo di lavoro e tempo di lavoro, quindi il 3-2 ha poco senso, d’altra parte quello che vogliamo dire è: l’azienda decide che il luogo di lavoro 2 volte a settimana è l’azienda, in modo da creare interazioni tra persone e mantenere un certo rapporto anche umano. Per gli altri giorni la scelta del luogo è libera. Tutti i giorni la scelta del tempo è libera, anche se quando si è in ufficio sarebbe meglio non recarvisi alle 5 di mattina o alle 23 di sera.
Quindi, tornando ai punti di riferimenti per avere una traccia reale di come approcciare lo smartworking, si potrebbe iniziare a lavorare su:
- fiducia
- mappatura attività / funzioni
- mindset da creare
- strumenti che aiutino il lavoro remoto
Il percorso ci porta quindi a parlare del primo modello che abbiamo visto che vuole spiegare per bene cosa serve per fare smart working, presentato dall’Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano.
Il modello parla di quattro macroaree di sviluppo:
- tecnologie abilitanti (strumenti)
- leadership e cultura (fiducia/mindset)
- spazi fisici (di cui fino ad ora non abbiamo parlato)
- modello di lavoro (libertà spaziale e temporale)
Il livello di base è quello a sinistra, l’avanzato a destra.
Tecnologie Abilitanti
Questo è l’ambito degli strumenti.
Si passa dagli strumenti di comunicazione (email/chat/altro) che ormai abbiamo tutti, a strumenti più sofisticati di collaboration (come ad esempio gsuite/office 365 ecc.) che ci si augura in periodo covid19 siano diventati la nuova normalità.
Gli strumenti di collaboration permettono un importante miglioramento del lavoro in team, uno “step-up”, come dice il nome stesso, perché sono pensati per lavorare a più mani su documenti condivisi in cloud, per includere in questi sistemi anche email, possibilità di fare meeting, spazi disco condivisi, chat per scambio di messaggi veloci, e tanti altri strumenti di varia natura utili ad avere spazi condivisi e ad evitare, brutalmente, telefonate e scambio di email con versioni di documenti.
Il passo successivo è iniziare ad usare gli strumenti di comunicazione e collaboration in mobilità, quindi avere accesso ai dati everywhere everytime (suona familiare con spazio e tempo flessibili?)
Il livello successivo sono le piattaforme di produttività, di gestione dei progetti, task, milestone e obiettivi, che permettono di aiutare nel portfolio management, nel program management e nella gestione complessiva dei task di progetto. Questi strumenti aiutano molto i team a capire bene “a che punti siamo” e a loro volta a condividere informazioni su uno specifico progetto.
Leadership e cultura
È il modello organizzativo.
Si parte dal “comando e controllo” ovvero il modello che cerchiamo di smantellare con questo articolo, per evolvere in forme migliori e più orientare al valore.
Dopo comando e controllo, caratterizzato da micromanagement e mancanza di fiducia, c’è il lavoro in team focalizzati su alcune aree o progetti specifici.
Quindi si evolve in performance e family-based, dove inizia la diffusione di una cultura di valutazione sulle performance, dove gli obiettivi sono assegnati dai manager in modalità top-down è accompagnati da una adeguata delega ed enfasi sul senso di identità e appartenenza alla famiglia professionale.
Gli ultimi due step sono Empowered goal settings e Open leadership. Nel primo caso gli obiettivi e i risultati vengono definiti e condivisi tra capo e collaboratori in un confronto continuo, nel secondo si giunge ad un forte orientamento all’auto-organizzazione del lavoro, sulla base di obiettivi definiti in modo autonomo, incentivando la creazione di network relazionali allargati che coinvolgono anche partner, clienti e fornitori.
Spazi fisici
L’ambizione del manager che ama la presenza in azienda o che considera la stessa maggiormente efficace, dovrebbe essere quella di valorizzare gli spazi di collaborazione e gli strumenti a disposizione.
Dovrebbe partire dalla domanda: cosa potrebbe attrarre i collaboratori affinché scelgano gli spazi aziendali per lo smartworking?
Probabilmente scoprirebbe che gli attuali ambienti sono asettici, poco accoglienti, che gli strumenti aziendali obsoleti hanno caratteristiche spesso inferiori rispetto a quelle che ciascun dipendente possiede nel privato. Che divani, scrivanie verticali, doppi monitor, ottima connettività, lavagne interattive, pareti disegnabili, aree dedicate alla concentrazione oltre agli spazi di socializzazione sarebbero elementi attrattivi.
Di fronte al proprio umile ufficio di casa un ambiente del genere non avrebbe confronti. Ovviamente la distanza dal luogo di lavoro avrebbe il suo peso ma rimarrebbe il desiderio per ciascuno di lavorare in sede.
Ricordiamo che il valore aggiunto che offre lo spazio aziendale è la valorizzazione della relazione e l’efficientamento degli strumenti quindi bisogna focalizzarsi su questi due aspetti.
Modello di lavoro
Una volta compreso che lo spazio non è più un vincolo ma diventa un’opportunità (migliore è lo spazio più efficiente sarà il lavoro), probabilmente vale la pena di riflettere sulla modalità di lavoro ed analizzare anche la componente tempo.
Ognuno di noi è portato ad essere più efficiente in determinate ore della giornata: conosciamo persone che all’alba sono iperattive e che la sera dopo cena si spengono, altri che al mattino faticano a “carburare” ma che la sera producono il doppio.
Se il tipo di lavoro lo consente, eliminare il vincolo anche sul tempo può rivelarsi un ulteriore opportunità di miglioramento del lavoro individuale.
Per questo con un modello di lavoro a obiettivi abbiamo la possibilità di giocarci anche la carta relativa all’ottimizzazione del tempo. Le attività di gruppo verranno organizzate e condivise da remoto o in presenza con il consueto modello di condivisione fra collaboratori; le attività individuali invece verranno gestire in autonomia rispettando gli obiettivi posti dal proprio responsabile.
Qui diventa fondamentale trovare il giusto equilibrio rispetto agli obiettivi, che non siano troppo soft ma nemmeno troppo sfidanti: nel primo caso il collaboratore potrebbe ritrovarsi in un area di comfort che lo porterebbe a “depotenziarsi” rallentando le attività e riducendo le energie, nel secondo caso correrebbe il rischio di essere schiacciato da un carico di lavoro superiore alle possibilità, sentendosi inadeguato è insoddisfatto.
Il modello dell’Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano è sicuramente interessante e molto chiaro. Può essere utilizzato sia nella PA che nella PMI e può aiutare a focalizzare i passaggi che servono per fare questo passaggio di modello organizzativo, una volta individuate le figure migliori per farlo, o parallelamente a questa scelta.
Inoltre, è molto utile da utilizzare per fissare degli obiettivi.
Ovvero si possono utilizzare tre colori per capire:
- dove siamo oggi,
- dove vogliamo essere tra 1 anno,
- dove vogliamo essere a tendere.
per capire su cosa agire e come agire. Ad esempio, il giallo per l’oggi, l’arancio per metà 2021 e il verde per fine 2021.
Conclusioni
Il controllo è un bias tipico di molti manager. Controllare aiuta a soffrire meno l’incertezza del lavoro del manager e fa sentire più tranquilli nel proprio lavoro. Spesso non si è controllori nati, ma solo figure abituate a fare bene il proprio lavoro, nella convinzione che fare bene il proprio lavoro sia analizzare tutte le opzioni ed avere la situazione sotto controllo.
Purtroppo, questo modello, a mano a mano che si cresce di ruolo, non funziona più. Bisogna imparare a delegare progressivamente, a fidarsi, a lasciare andare attività che magari prima ci piacevano e ci davano soddisfazione per farle fare ai collaboratori il cui tempo è impiegato meglio facendo queste attività, mentre come manager ci si occupa di attività di più alto livello. Tra cui, provare dei nuovi modelli organizzativi.
È fondamentale riuscire a staccarsi dalle piccole cose per avere la visione di insieme che altrimenti nessun altro può avere, anche se questo porta nel mondo dell’incerto, delle decisioni difficili. È importante passare da essere quello che fa a quello che decide. E decidere di sperimentare un nuovo modello organizzativo, visto che per il momento ce ne sono 2 (il tayloriano/fordista e lo smartbworking), è sicuramente un’occasione da non sprecare.