La sentenza n. 26807 del 17-25 settembre 2020 ha trattato un tema di grande attualità ed alto interesse: la qualificazione giuridica dell’attività di cambiavalute virtuale in sede penale. Proviamo allora a spiegare, qualche giorno dopo, quando l’“effetto novità” si è acquietato, perché quanto stabilito dovrebbe suonare come un campanello di allarme dello scollamento tra i nuovi fenomeni del digitale e la normativa di settore.
La sentenza: momento storico o di passaggio?
La sentenza, da alcuni definita storica, da altri valutata in maniera meno entusiastica, evidenzia alcune criticità sulla qualificazione giuridica dell’attività di cambiavalute virtuale, restando, in ogni, caso, una sentenza resa in sede cautelare, ossia una pronuncia strettamente legata ad un caso specifico e priva del crisma della definitività.
Detto altrimenti: va letta e studiata con attenzione, perché enuncia dei principi rilevanti, ma non può essere considerata né un punto d’arrivo, né un pilastro per una qualche rilettura della materia.
In primo luogo, la Cassazione non è entrata nel merito né della questione giuridica in generale, né di quella più specifica relativa al portale: si è limitata a valutare la condotta dell’indagato, così come descritta nel capo d’imputazione e risultante dagli atti.
In secondo luogo, ha accolto il ricorso dell’indagato per motivi strettamente procedurali e non legati alla qualificazione giuridica dell’attività di cambiavalute virtuale.
Vediamo, quindi, where is the beef.
La Cassazione non ha censurato l’impianto accusatorio
Nela sentenza di settembre si afferma, praticamente a chiare lettere, che un’attività in cui si pubblicizzi uno strumento come “vera e propria proposta di investimento” è un’attività “soggetta agli artt. 91 e segg. TUF, la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), TUF” (ossia esercizio abusivo dell’intermediazione finanziaria, punito con la reclusione da uno a otto anni).
Nel caso di specie la vendita dei bitcoin aveva caratteristiche tipiche della proposta di investimento, a partire dallo slogan, pubblicizzato sul sito “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più dl 97%” e delle informazioni contrattuali offerte, tipiche degli strumenti di investimento.
In altre parole, la Cassazione ha affermato che quel tipo di proposta, così formulata, può essere inquadrata nell’ambito della proposta di investimento, con conseguente applicabilità, in presenza di determinati presupposti, dell’art. 166, comma1. Lett. c) TUF.
In conclusione, non ha affermato né che i bitcoin sono uno strumento finanziario, né che non lo sono; ci si è limitati dire che quella condotta può integrare un reato finanziario.
Per quanto si possa sostenere, come ha fatto la difesa dell’indagato, che in termini strettamente normativi – anche e soprattutto sul piano comunitario – i bitcoin sono qualificati come valuta virtuale e che chi opera con tale strumento effettua attività di cambiavalute virtuale e non di intermediazione finanziaria, ciò che rileva, ai fini penali, è la condotta in concreto.
La Cassazione ha, ormai da anni, adottato una concezione “panpenalistica” degli elementi normativi della fattispecie: per semplicità, si può dire che si va a verificare se vi è una concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma penale.
L’elemento normativo, quindi, viene letto alla luce dell’esigenza di tutela posta dal Legislatore, e non necessariamente riveste lo stesso valore che gli viene attribuito in un settore diverso dell’ordinamento giuridico.
Se da un lato l’ordinamento “perde” in termini di organicità e di coerenza interna, dall’altro il cittadino può vedere tutelate posizioni che, diversamente, sarebbero rimaste sprovviste di ogni tipo di salvaguardia.
Un caso emblematico alla base della sentenza
Il caso che ha dato origine alla tanto discussa sentenza che qui si commenta, quindi, è emblematico.
L’ordinamento ha, di fatto, regolato un settore nuovo e in piena evoluzione, effettuando distinzioni ed operando qualificazioni normative, anche specifiche, per evitare che un fenomeno estremamente rilevante, come la commercializzazione dei bitcoin, avvenisse senza una regolamentazione specifica.
Dall’altra parte, il Legislatore non ha ritenuto di dover intervenire sul piano strettamente penale, poiché le normative generali sono state ritenute sufficientemente tutelanti per evitare abusi.
A fronte di questa situazione, il Tribunale di Milano prima e la Cassazione poi, hanno ritenuto che la proposta di bitcoin con modalità e finalità speculative integrino svariate fattispecie di reato, in virtù delle modalità concrete della condotta, al di là della stretta qualificazione giuridica di cambiavalute virtuale dell’operatore.
Conclusioni
Se è vero che l’ambiente digitale necessita di una normativa specifica e peculiare perché è un novum assoluto sotto il profilo del fenomeno e non solo dei rapporti giuridici, tale affermazione può – e dovrebbe – essere estesa anche a bitcoin e blockchain, che sono realtà evolute dell’ambiente digitale, nate in esso.
In assenza di uno specifico apparato sanzionatorio e di una regolamentazione più evoluta del settore, materie così avanzate rischiano sia di essere valutate con parametri tradizionali non confacenti alle esigenze del traffico dei dati, sia di aprire vuoti di tutela determinati dalla complessità e della specificità del settore, che è lungi dall’essere alla portata di tutti.
Più che un passo avanti o una pietra miliare, quindi, la sentenza della Cassazione del 17 settembre 2020 dovrebbe essere vista come un segnale di allarme, di mancanza di corrispondenza tra fenomeno digitale e normativa del settore.