La pubblica amministrazione si trova attualmente a operare in un nuovo contesto, caratterizzato dall’emergenza sanitaria, il quale richiede, indubbiamente, inediti approcci nonché un deciso cambiamento di paradigma organizzativo e culturale.
Alcuni accadimenti recenti, in primis lo smart working, hanno interessato il settore pubblico in maniera diretta e hanno davvero messo in risalto come la digitalizzazione dei processi/servizi offerti e la qualità del personale siano gli elementi distintivi per affrontare i passaggi attuali e le sfide impegnative che questi comportano, non solo a livello organizzativo ma soprattutto di visione complessiva. Tutti e due, peraltro, sono strettamente interconnessi e in relazione a un plesso di questioni relative a chi, come e perché innova nella PA.
Vediamo allora come e perché una governance delle competenze innovative, correlate alle nuove tecnologie, nel settore pubblico, dovrebbe costituire un’importante leva organizzativa per raggiungere l’obiettivo dell’innovazione.
Chi avvia le innovazioni e come avvengono i processi innovativi
In primo luogo, chi sono coloro che danno inizio alle innovazioni? Ricerche svolte nel settore pubblico hanno mostrato come molti processi innovativi vengono iniziati dal middle management e dal personale in prima linea. Questo risultato inedito fu ottenuto da Sandford Borins, nelle surveys svolte nel 1998 e nel 2010, incentrate sugli innovatori pubblici i quali avevano ricevuto un premio per le loro realizzazioni, messo a disposizione dall’Harvard Kennedy School (HKS) Innovation in American Government. Oggi questa conclusione, probabilmente, non costituisce più una sorpresa ma, all’epoca della prima indagine, essa fu davvero sorprendente data l’immagine prevalente secondo cui il processo innovativo veniva pianificato e fluiva dall’alto verso il basso e quella, correlata, del dipendente pubblico tradizionalmente avverso ai rischi, di qualsiasi genere essi fossero. Di fatto, all’interno delle consuete relazioni di autorità verticale, le quali ancora oggi governano le organizzazioni della PA, è piuttosto difficile, per il personale in prima linea o per il middle management, farsi promotore di processi innovativi, tanto da poter essere definiti dei “local heroes”, nel primo rapporto, pubblicato nel 1998, Innovating with integrity. How local heroes are transforming American Government.
Le diverse modalità con cui risolvere la miriade di problemi operativi, nel settore pubblico, porta ad approfondire la tematica sul come avvengono i processi innovativi. La risoluzione dei problemi è, difatti, l’aspetto che più viene sottolineato dagli innovatori, soprattutto se comparato con le situazioni di crisi, ovvero un fallimento conclamato, visibile a tutti, del programma/servizio pubblico. Anche qui, un punto di vista “scettico” porterebbe ad argomentare che le organizzazioni della PA, le quali agiscono spesso in situazione di monopolio, sono assai lente a rispondere ai segnali di insoddisfazione del pubblico, nella fornitura dei loro servizi/prestazioni, almeno fino a quando la situazione diventa apertamente insostenibile e vi è un peggioramento visibile, con un successivo, deciso, cambiamento di rotta. Una visione più “simpatetica” trova in questi risultati, invece, la conferma che i dipendenti pubblici sono consapevoli delle prestazioni della propria organizzazione, attraverso proprie intuizioni oppure sistemi di monitoraggio, formali e informali, e si attivano concretamente per risolvere i problemi con cui si confrontano quotidianamente.
Perché avvengono le innovazioni
Sul perché avvengono le innovazioni, infine, vi sono sostanzialmente due teorie. La prima si può definire incrementalista; l’iniziatore dell’innovazione aveva un’idea approssimativa della soluzione proposta, la quale viene successivamente perfezionata, in un periodo di tempo considerevole, sulla base dell’apprendimento adattivo e dell’esperienza. La seconda si basa sulla pianificazione strategica; l’innovatore aveva una visione completa del progetto/programma e procede alla sua implementazione, in tempi relativamente brevi, senza sostanziali modifiche. Tutte e due le indagini, del 1998 e 2010, confermano come la seconda sia di gran lunga prevalente e che gli innovatori mostrano, fin dall’inizio, una forte consapevolezza sugli esiti finali delle loro proposte.
Gli ostacoli all’innovazione
Riguardo agli ostacoli, nelle due indagini, più del 50% sono di carattere interno e parrebbero riflettere la tendenza dei progetti innovativi a sfidare ristretti patterns occupazionali, procedure operative standard e ben radicate e difese asimmetrie di potere organizzativo. Tra le tattiche, adoperate dagli innovatori, per avere la meglio sulle resistenze interne, vale qui citare le modalità di persuasione e di accomodamento citate quasi nella metà dei casi. Ciò mostra assai bene come gli innovatori credano fino in fondo nella bontà dei loro progetti e compiono dei continui tentativi per cercare di confutare lo scetticismo dei loro opponenti oppure cercano di modificare le loro proposte quel tanto che basta per poter essere meno contrastate. Ciò esemplifica, in maniera tangibile, quali siano le difficoltà che si incontrano nel far accettare un progetto, tra l’unicità dello stesso e la continua adattabilità del processo a cui si è costretti. Due tattiche, comunque, si applicano praticamente a qualsiasi ostacolo: la persistenza nonché una visione chiara e focalizzata sugli obiettivi da raggiungere.
Sebbene le ricerche summenzionate possano apparire leggermente datate i risultati sembrano validi ancor oggi, se non addirittura ancor più cruciali, stante l’emergenza sanitaria in corso, ad esempio, con il continuo ricorso allo smart working, il quale dovrebbe implicare, sia detto en passant, una decisa riformulazione del paradigma lavorativo, piuttosto che un mero dislocamento, dal lavoro d’ufficio a quello casalingo, come, di fatto, si è sostanzialmente applicato sin qui. L’attuale situazione obbliga, dunque, a promuovere fortemente, nella PA, un ambiente organizzativo in cui l’innovazione possa rappresentare la pratica corrente e l’individuazione dei potenziali innovatori una delle priorità dei decisori politici. Se gli innovatori, difatti, vengono individuati dai vertici, supportati e motivati in corso d’opera, essi possono giocare un ruolo chiave nel fornire del valore aggiunto ai programmi/servizi pubblici.
L’attività che il settore pubblico è chiamato a svolgere fin da adesso riguarda, difatti, molteplici aspetti, desumibili, ad esempio, dalle azioni di tipo materiale e infrastrutturale previste a supporto dell’Agenda digitale, con interventi di promozione della cultura digitale e il rafforzamento delle competenze degli operatori coinvolti nella gestione ed erogazione dei servizi già avviati: anagrafe nazionale; identità digitale; pagamenti elettronici; fatturazione elettronica, ecc.. Sull’innovazione tecnologica, in generale, v’è da dire che la PA ha compiuto sforzi significativi, soprattutto in questi ultimi mesi, per spostarsi da servizi/processi tradizionali verso soluzioni innovative, in molti casi digitali. Se si riflette che l’Italia si colloca stabilmente tra le ultime posizioni dell’indice Digital Economy and Society Index (DESI) i risultati raggiunti non possono essere considerati così scontati, nonostante il notevole contributo apportato, in questi ultimissimi anni, dal Team per la Trasformazione Digitale, oggi incardinato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e dalla stessa Agenzia per l’Italia Digitale (AGID).
Una governance delle competenze innovative
Affinché la governance delle competenze innovative possa essere davvero efficace, tuttavia, anche nel superare gli ostacoli interni, dovrebbe poter contare su una chiara posizione organizzativa, ad esempio, a diretto supporto dei vertici di cui deve costituire, insieme alla strategia complessiva dell’ente, una delle preoccupazioni principali. Vi è, dunque, la necessità di adottare un framework organizzativo che qui viene compendiato come Job Skill Governance (JSG) in quanto la cultura dell’innovazione e le correlate job skills sono divenute uno degli assets più importanti per tutte le organizzazioni, non solo per quelle private, a prescindere dalla loro dimensione economica e operativa.
La tesi qui sostenuta è, dunque, che nella PA (non solo in essa ovviamente) v’è urgente bisogno di una JSG che metta al centro l’innovazione e che sia in grado di ingenerare un ecosistema abilitante, così come peraltro previsto dal paradigma 4.0. La cruciale questione sottesa è, allora, se una tale governance sia strategica per la vitalità e l’ulteriore sviluppo del settore pubblico. E, ancora, si possono perseguire obiettivi di produttività, flessibilità organizzativa in un modo socialmente accettabile (employee voice)? In questo senso, la JSG può essere intesa come la declinazione, in un ambiente organizzativo, perlopiù strutturato e regolamentato, di un meccanismo creato al fine di assicurare il giusto bilanciamento tra domanda e offerta di skills al fine di assicurare all’ente pubblico il consolidamento e l’ulteriore sviluppo. Tale cultura dell’innovazione, a regime, dovrebbe permeare tutta l’organizzazione pubblica a partire dai vertici (livello strategico) passando per il livello amministrativo e intermedio del middle management (livello tattico) così da percolare, infine, al personale impegnato in prima linea (livello operativo).
Conclusioni
L’ultima chiosa è che l’innovazione nel settore pubblico è diversa da quella del settore privato e, pertanto, richiede un set di competenze diverso. Ad esempio, le sfide che il settore pubblico deve affrontare sono particolarmente complesse e la linea degli stakeholders politici non sempre chiara, così come il contesto di riferimento è altamente regolamentato e i finanziamenti per l’innovazione sono più difficili da identificare e hanno standard più elevati relativi alla trasparenza e alla responsabilità pubblica. Considerando la combinazione di tutti questi fattori, ciò porta a livelli più elevati di avversione al rischio e tassi di cambiamento e adozione più lenti. Anche i sistemi occupazionali nel settore pubblico tendono a essere meno reattivi rendendo, di conseguenza, più difficile la creazione di competenze specifiche per affrontare le sfide dell’innovazione. Ad esempio, profili professionali quali quelli del data scientist, dell’esperto di machine and deep learning, della Data visualization, tra altri, così richiesti nel settore privato, faticano tuttora a trovare una loro stabile diffusione nel pubblico impiego.
In conclusione, stante anche la situazione attuale, tra emergenza sanitaria e un vaste programme di digitalizzazione della PA, vi è un’urgente necessità da parte del settore pubblico di implementare una convincente JSG al fine di supportare gli innovatori interni, a maggior ragione quando le richieste di servizi e le relative risorse continuano a muoversi in direzioni opposte. Dato l’impatto del settore pubblico, difatti, tutti i governi dovrebbero avere l’interesse a garantire che i loro programmi siano dotati delle competenze qualificate, degli incentivi e delle opportunità per stimolare l’innovazione e ottenere così risultati migliori per i cittadini. Tutti e tre gli aspetti costitutivi di un framework JSG dovrebbero essere promossi, pertanto, dai vertici del settore pubblico per monitorare l’allineamento tra risorse, non solo umane evidentemente, e obiettivi di innovazione.
«In the face of the obstacles inherent in the process,
despite the risk of failure, despite the time, energy, persuasion,
and improvisation required to bring an innovation to fruition,
public servants continue to find new ways to create public value»
(Borins, 2014:1)
Le opinioni espresse in questo articolo impegnano la responsabilità dell’autore e non necessariamente riflettono la posizione dell’ente di appartenenza.
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BIBLIOGRAFIA
Borins Sandford (1998), Innovating with integrity. How local heroes are transforming American Government, Washington (DC), Georgetown University Press.
Borins Sandford (2014), The Persistence of Innovation in Government. A Guide for Innovative Public Servants, Washington (DC), IBM Center for The Business of Government.