l'indagine e le norme

Amazon nel mirino dell’Antitrust UE, ecco tutti i fronti aperti sulle big tech

Parte indagine della Commissione europea su Amazon, per violazioni delle norme antitrust realizzate “alterando” la concorrenza nei mercati al dettaglio online. Mossa che si incastra in un quadro complesso, di vari regolamenti (nuovi e in arrivo) e che incrocerà anche le politiche della presidenza Usa e relative indagini Ftc

Pubblicato il 11 Nov 2020

Barbara Calderini

Legal Specialist - Data Protection Officer

amazon antitrust

Mentre in America l’elezione di Joe Biden apre la strada alle strategie sostenute nel rapporto del Congresso USA che punta il dito sulle politiche illiberali delle big tech, in Europa, la Commissione europea informa Amazon della pendenza di una nuova indagine preliminare per accertare eventuali violazioni delle norme antitrust dell’UE realizzate “alterando” la concorrenza nei mercati al dettaglio online.

Amazon potrà quindi esaminare i documenti del fascicolo di indagine della Commissione, rispondere per iscritto e chiedere un’audizione orale per presentare le proprie osservazioni sugli addebiti mossi dinanzi ai rappresentanti della Commissione e delle Autorità nazionali garanti della concorrenza.

Una prima dichiarazione Amazon è nel frattempo già pervenuta: “”Non siamo d’accordo con le affermazioni preliminari della Commissione europea e continueremo a fare ogni sforzo per garantire che abbia una comprensione accurata dei fatti”. “Amazon rappresenta meno dell’1% del mercato al dettaglio globale e ci sono rivenditori più grandi in tutti i paesi in cui operiamo”.

L’indagine sul “monopolio” Amazon

Nello specifico la Commissione ritiene doveroso approfondire come e se Amazon possa evitare i normali rischi insiti nel libero gioco della concorrenza al dettaglio, abusando della propria posizione dominante nel mercato per la fornitura di servizi, e in modo particolare in Francia e Germania: i più grandi mercati per Amazon nell’UE.

Se tanto fosse confermato, si rientrerebbe infatti nelle ipotesi di violazione di cui agli articoli  101  e 102 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che vietano  appunto l’abuso di posizione dominante a danno dei consumatori e a fini di esclusione dei concorrenti dal mercato.

Questa la seconda nuova accusa, sostenuta formalmente dalla Commissione, che si unisce alle precedenti del Luglio 2019 – caso n. AT.40462 – per le quali, il gigante statunitense del retail online, sarebbe responsabile di trattamenti preferenziali rivolti alle proprie offerte dettaglio e di quelle dei venditori presenti sul mercato che utilizzano i servizi di logistica e consegna di Amazon. Il riferimento è alle famose opzioni “Offerta in evidenzaBuy Box” (che consente ai clienti di aggiungere articoli da un rivenditore specifico direttamente nei loro carrelli della spesa) e all’etichetta “Prime”, nell’ambito del programma fedeltà Prime di Amazon.

“On 17/07/2019, the Commission decided to initiate antitrust proceedings in case AT.40462 Amazon Marketplace within the meaning of Article 11(6) of Council Regulation No 1/2003 and Article 2(1) of Commission Regulation No 773/2004. The proceedings were initiated with a view to adopting a decision in application of Chapter III of Council Regulation No 1/2003 and concern the use by Amazon of commercially sensitive information available to Amazon’s marketplace operations, regarding in particular third party sellers, products listed by third party sellers or transactions with third party sellers on Amazon’s marketplace, for the purposes of Amazon’s retail activities, including the role of such information in the selection of the Featured Offer in the “Buy Box”, in the European Economic Area. Infringements (within the meaning of Article 101/102 of the Treaty on the Functioning of the European Union and Article 53/54 of the EEA Agreement) were allegedly committed by Amazon.com, Inc.; Amazon Services Europe SARL; Amazon EU SARL; Amazon Europe Core SARL and all legal entities directly or indirectly controlled by them (together referred as “Amazon”). The initiation of proceedings does not mean that the Commission has made a definitive finding of an infringement but merely signifies that the Commission will deal with the case as a matter of priority.” Così la comunicazione di apertura del procedimento del Luglio 2019 presente sul sito della Commissione Europea.

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Dati di aziende terze parti usati per fare monopolio

I dubbi della Commissione alla base della nuova inchiesta si fondano invece sul fatto per cui Amazon, forte del suo duplice ruolo come fornitore di servizi di marketplace e rivenditore sullo stesso mercato, sfruttando sistematicamente le informazioni derivanti dai copiosi asset di dati aziendali “non pubblici” (dati come il numero di unità di prodotti ordinate e spedite, i ricavi dei venditori sul mercato, il numero di visite rilevate sulle offerte dei venditori, i dati relativi alla spedizione, ai risultati pregressi dei venditori, i reclami dei consumatori sui prodotti, comprese le garanzie attivate) riconducibili a quei venditori indipendenti operanti nel proprio marketplace, sarebbe in grado di trarre indebiti vantaggi a beneficio diretto della propria attività di vendita al dettaglio e a discapito dei venditori di terze parti.

Parliamo di elevate quantità di dati (oltre 800.000 venditori attivi nell’Unione europea, che coprono più di un miliardo di prodotti) che fluiscono direttamente nei sistemi automatizzati di Amazon per essere aggregati e quindi utilizzati in strategie di marketing e di vendita ben precise a scapito degli altri venditori sul mercato.

A tutti gli effetti, dunque, una questione di business intelligence, di Big Data e di Data e Descriptive Analysis, le cui peculiarità, peraltro, sembrerebbero rientrare anche nell’alveo dell’imminente legge sui servizi digitali della Commissione europea che sarà presentata, salvo variazioni, entro fine anno.

“Dobbiamo garantire che le piattaforme a doppio ruolo con potere di mercato, come Amazon, non alterino la concorrenza. I dati sull’attività di venditori di terze parti non devono essere utilizzati a vantaggio di Amazon quando agisce come concorrente di questi venditori. Anche le condizioni di concorrenza sulla piattaforma Amazon devono essere eque. Le sue regole non dovrebbero favorire artificiosamente le offerte di vendita al dettaglio di Amazon o favorire le offerte dei rivenditori che utilizzano i servizi di logistica e consegna di Amazon. Con l’e-commerce in forte espansione Amazon è la principale piattaforma di e-commerce, un accesso equo e senza distorsioni ai consumatori online è importante per tutti i venditori “. Questa la recente dichiarazione della vicepresidente Margrethe Vestager, responsabile della politica di concorrenza.

L’addebito contestato ad Amazon, la cui portata investe lo Spazio Economico Europeo, non riguarderà però direttamente l’Italia dove, fermo il dovere di reciproca collaborazione, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nazionale ha già iniziato ad indagare nel 2019 su problematiche parzialmente simili e i cui risultati sono attesi entro il prossimo 20 novembre sulla base della sospensione disposta dall’articolo 103 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18.

In particolare AGCM si concentra sulla pratica “self-preferencing” per la società conferirebbe unicamente ai venditori terzi che aderiscono al servizio di logistica offerto da Amazon stessa (“Logistica di Amazon” o “Fulfillment by Amazon”) vantaggi in termini di visibilità della propria offerta e di miglioramento delle proprie vendite su Amazon.com, rispetto ai venditori che non sono clienti di Logistica di Amazon.

A tal riguardo va ricordato come anche l’autorità antitrust tedesca avesse già avviato un’indagine su Amazon (e Apple) per possibili comportamenti anticoncorrenziali relativi alla pratica per cui verrebbe impedito ad alcuni trader di terze parti operanti sulla sua piattaforma di e-commerce di offrire determinati prodotti di alcune marche (il riferimento più immediato è quello tra Amazon ed  Apple per il quale solo i concessionari Apple e Amazon possono offrire i prodotti della mela sulla piattaforma).  L’indagine durata sette mesi sarebbe giunta ad una definizione bonaria con Amazon che pare aver conseguentemente rivisto parte dei suoi termini di servizio per i commercianti di terze parti. Non è un caso che proprio la Germania sia il secondo mercato più grande di Amazon dopo gli Stati Uniti dove, in piena pandemia, da marzo a maggio 2020, i venditori di terze parti hanno rappresentato il 65% delle vendite.

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La pratica del predatory pricing di Amazon

La pratiche anticompetitiva attuate da Amazon assumono molteplici sfumature. Tra queste quella nota come predatory pricing, ovvero la strategia tariffaria in cui i prezzi di beni o servizi vengono inizialmente fissati ad un prezzo molto basso con l’intento di limitare la concorrenza e creare barriere all’ingresso per poi procedere al successivo rialzo in fase di monopolio, è ben consolidata per Amazon e altrettanto è nota alle autorità antitrust non solo europee. Non altrettanto è diffusa la percezione dei rischi sottesi alla stessa: complice anche la perdurante concezione, specie nella dottrina mainstream, per la quale la disponibilità di dati ed economie di network non costituisca una barriera all’entrata, Amazon continua a trarne, piuttosto indisturbato, notevoli vantaggi.

Le azioni in corso tanto in America quanto in Europa, condotte a più livelli da Agenzie Governative e Autorità di protezione, non sembrano, invero, incidere in modo rilevante sui piani di Jeff Bezos volti non tanto al dominio assoluto del mercato, quanto, come ci ricorda anche Stacy Mitchell[1], autrice insieme a Olivia Lavecchia del noto rapporto “Amazon’s Stranglehold: How the Company’s Tightening Grip on the Economy Is Stifling Competition, Eroding Jobs, and Threatening Communities”,  a rendere Amazon stesso il “mercato” ponendosi allo stesso tempo come concorrente ed infrastruttura.

Tanto è foriero di conseguenze pesanti e non solo in termini di violazioni delle attuali normative antitrust e assunzione di comportamenti di lungo periodo indipendenti da concorrenti, consumatori e fornitori.

Valutare l’incidenza delle pratiche anticoncorrenziali di Amazon limitandone l’impatto alla sola non conformità ai quadri regolatori in materia di antitrust e, nello specifico all’art.li 101 e 102 del trattato di Funzionamento dell’Unione Europea, significa infatti sottovalutare aspetti cruciali e fondamentali limitando la portata del ruolo assunto da Amazon (in grado di interagire anche oltre le maglie larghe della rete e vere e proprie forme evoluta di esercizio di diverse attività economiche), travisandone la natura poliedirca e il ruolo strutturale di quello che potremo, a ragione considerare, il “titano del commercio del ventunesimo secolo”.

Amazon è infatti allo stesso tempo una multinazionale innovativa di servizi, una potenza dell’e-commerce che rappresenta l’avanguardia nel mondo del campo del retail, del packaging e della logistica, un attore di prim’ordine nel settore del cloud, peraltro rivelatosi estremamente redditizio, attraverso la sua unità Amazon Web Services e, uno dei principali protagonisti impegnati nel promettente ambiente dei video in streaming, dove Amazon Prime Video è infatti secondo solo a Netflix. Non ultimo, è un contribuente privilegiato, stanti i vantaggi derivanti dai benefici e sgravi fiscali di cui da tempo la società si fregia.

Sul punto merita di essere richiamato l’articolo capolavoro di Lina Khan[2]Amazon’s Antitrust Paradox“, insignito nel 2018 dall’ Antitrust Writing Award come “Best Academic Unilateral Conduct Article”, dove la stessa offre una visione esauriente e chiara dell’evidente inadeguatezza delle logiche sottese alle normative antitrust vigenti, ancora fortemente legate alla teoria dei prezzi e del “benessere dei consumatori” misurabile negli effetti a breve termine, del tutto disallineate – tanto in America quanto in Europa – rispetto alle architetture del potere di mercato dell’economia moderna.

“Con il suo zelo missionario per i consumatori, Amazon ha marciato verso il monopolio cantando la melodia dell’antitrust contemporaneo” scrive.

               

Regolamento Platform to Business

Money follows eyeballs. È questa la regola d’oro che anima il modello di business tipico dell’economia della piattaforma e che denota l’importanza del ruolo fondamentale rivestito dagli intermediari digitali come Amazon, sia in ottica sia di engagement del pubblico e l’estensione della popolarità e l’appetibilità della piattaforma, che di possibilità di successo per ogni attore economico coinvolto.

Tuttavia, presidiare un tale “territorio” si sta rivelando alquanto difficile: alla crisi di fiducia verso le istituzioni, rivelatesi molto spesso interpreti in affanno e poco efficaci verso i continui cambiamenti prescritti dall’evoluzione digitale, fa eco il ritardo maturato nel percorso legislativo verso la definizione delle giuste cornici normative.

In Europa, a luglio di quest’anno, è intanto entrato in vigore il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio 2019/1150, noto come Regolamento Platform to Business (P2B), finalizzato a regolare i rapporti tra le piattaforme online ed i fornitori (definiti “utenti commerciali”) che hanno il luogo di stabilimento o di residenza nell’Unione Europea e che, tramite i servizi di intermediazione online o i motori di ricerca online, siano in grado di offrire beni o servizi a consumatori nell’Unione Europea.

Ne è dunque interessato il vasto settore del marketplace, i social network, i motori di ricerca e i servizi di confronto e prenotazione tra prodotti, servizi e tariffe. E certo Amazon.

Ma sebbene il focus “promettente” del Regolamento sia quello di rendere più trasparente ed equo il mercato di intermediazione di servizi online nel panorama Europeo attraverso l’assolvimento di specifici obblighi incidenti sull’adozione di una serie di misure di equità e trasparenza, tuttavia l’effettiva portata del provvedimento è demanda agli Stati membri che hanno l’obbligo di garantirne l’adeguata ed efficace applicazione, compresa la definizione delle misure sanzionatorie applicabili alle violazioni dello stesso. Una “riserva” questa contenuta nell’art 15 del Regolamento stesso che non pare – ad oggi – aver avuto ancora seguito nei Paesi dell’UE.

Nel frattempo, i nodi irrisolti vengono affrontati a livello giurisprudenziale e gli abusi di posizione dominante sanzionabili erosi in varie occasioni dalle Corti e dalle Autorità.

Tanto non si dimostra però proficuo con le istanze promosse dall’economia dei dati e da una società digitale in costante evoluzione.

Per questo le pur giuste inchieste condotte dalla Commissione dovranno quanto prima poter contare sul valido supporto di quadri regolatori efficaci ed efficienti. Il Digital Single Act per cominciare.

Le anticipazioni sui contenuti a tutela della concorrenza contenuti nel Digital Single Act

Un documento interno non definitivo esaminato da Euractiv rivela qualche anticipazione sul contenuto della proposta  dell’UE per regolamentare le piattaforme online.

Potrebbe essere introdotti nuovi standard di tutela della concorrenza con l’intento di “prevenire il cosiddetto tipping markets“. Il riferimento è alla serie di attività potenzialmente “sleali” attuate dalle piattaforme gatekeeper, tra cui Google, Amazon e Facebook.

E dunque questi i punti chiave delle previsioni emerse dal documento “in versione draft” riferite da Euractiv:

  • Divieto di utilizzo esclusivo dei dati. I gatekeeper non potranno utilizzare i dati generati e raccolti sulla piattaforma o su uno qualsiasi degli altri servizi della piattaforma per fini riconducibili alle proprie attività commerciali rivolte ai consumatori della piattaforma pertinente, a meno che non stiano rendendo questi dati accessibili anche agli altri utenti aziendali attivi nelle stesse attività commerciali.
  • Divieto di classificazione preferenziale. Ovvero un’estensione delle previsioni già contemplate nel Regolamento 2019/1150 Platform-to-Business, consistente nello specifico divieto di posizionamento preferenziale nei motori di ricerca online o nei servizi di intermediazione online, in ossequio al principio di trasparenza su qualsiasi trattamento relativo ai propri prodotti e Servizi.
  • Consumer choice. I gatekeeper non dovranno limitare la capacità degli utenti aziendali di offrire gli stessi beni e servizi ai consumatori a condizioni diverse attraverso altri servizi di intermediazione online.
  • Divieto di preinstallazione esclusiva delle applicazioni. Vietata la pre-installazione esclusiva delle applicazioni proprie della piattaforme sui sistemi hardware a maggior ragione laddove, attraverso misure contrattuali o tecniche o altro, sia impedito agli utenti di poter disinstallare le app pre-installate.
  • Regolamentazione sull’audit delle metriche pubblicitarie e sulle pratiche di reporting. Il documento sembrerebbe insistere sui doveri di trasparenza e monitoraggio vincolando il gatekeeper a “sottoporre le proprie pratiche di profilazione dei consumatori a un audit annuale”.
  • Infine, la Greylist. Una lista contenente un insieme di pratiche fumose e per questo delicate che secondo i Commissari potrebbero richiedere una maggiore supervisione da parte di un’Autorità competente ed un’attenta valorizzazione dei principi generali del trattamento dei dati, a maggior ragione se personali, ai sensi del Regolamento Europeo 2016/679, GDPR .

Conclusioni

E dunque ben vengano le inchieste volte ad accertare se Amazon e altri hanno violato le regole antitrust dell’UE.

Ma ancora di più gradite saranno se l’attuale quadro regolatorio sulle pratiche concorrenziali sleali si rivelerà – quanto prima – adeguato e più energico rispetto alle grandi piattaforme multi-lato e dunque immune al tradizionale approccio tipico delle normative attuali basate ancora oggi sulla logica dell’equivalenza tra concorrenza e “benessere dei consumatori”.

Un criterio quest’ultimo rivelatosi, tanto in America quanto in Europa, inidoneo a comprendere e gestire le dinamiche dell’architettura del potere di mercato nell’economia del XXI secolo e cieco di fronte all’esigenza impellente di propendere per una maggiore attenzione verso l’analisi della struttura di un’azienda come Amazon e al ruolo strutturale che essa svolge nei mercati.

I dubbi sono numerosi.

  • Il Digital Service Act in tal senso riuscirà a centrare l’obiettivo ineludibile della giusta promozione dei diritti e delle libertà fondamentali come anche del progresso sociale e tecnologico? Il giusto equilibrio tra controllo e promozione?
  • In che modo le mosse europee troveranno incastro con quelle Usa, magari con il favore della nuova amministrazione Biden? Negli Usa FTC indaga su Google, per le implicazioni Antitrust dell’accordo miliardario con Apple (che riceve soldi da Google per mettere il suo motore di ricerca come default su iPhone) e si prepara ad aprire anche su Facebook e Amazon. Tutti gli osservatori concordano che con Biden questi dossier potrebbero accelerare, anche se forse non subito, e ci sono più possibilità di coordinamento con l’Europa rispetto all’approccio “monadico” di Trump.

Una cosa intanto è certa: istituzioni e autorità non potranno esimersi, per potersi dire realmente efficaci, da valutazioni sinergiche estese ed azioni esecutive combinate e coordinate.

[1]Stacy Mitchell è con-direttore dell’Institute for Local Self-Reliance, oltre che “fellow” del Thurman Arnold Project di Yale e membro del consiglio del Maine Center for Economic Policy

[2]Lina Khan è fellow presso la Columbia Law School e già consulente di maggioranza presso la sottocommissione per il diritto antitrust, commerciale e amministrativo del comitato giudiziario statunitense

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