L’Economia, il supplemento del lunedì del Corriere, titolava il 9 novembre a piena pagina “Nexi, Sia, Nets: la super paytech vale 22 miliardi”, con riferimento a un insieme di fusioni transnazionali che potrebbe portare all’emergere di un protagonista nel sistema di pagamenti europeo.
Un valore (ovviamente presunto sulla base dei multipli del comparto) di 22 miliardi di euro, ovvero 26 miliardi circa di dollari, non sarebbe considerato di grande rilevanza nelle Borse statunitensi o cinesi, ma in Italia la “grande Nexi” diverrebbe la settima società per capitalizzazione, immediatamente alle spalle di Eni (che a seguito della crisi del petrolio il giorno 10 valeva poco più di 23 miliardi) e davanti a Generali (18,6 miliardi di euro), FCA (16,8) e Unicredit (14,8).
È un valore indicativo della rilevanza delle scommesse che il mercato finanziario sta facendo sulle fintech e sulle tech in generale – scommesse ovviamente soggette al rischio “bolla” – a fronte della sfiducia che esso viceversa manifesta nei riguardi delle imprese più tradizionali coinvolte nei processi di trasformazione digitale e/o di decarbonizzazione.
A titolo di esempio PayPal, società leader nei pagamenti online, ha quintuplicato il suo valore dopo lo scorporo da eBay nel 2015 e vale ora 220 miliardi di dollari; Visa, leader nelle carte di credito ma con una infrastruttura tecnologica tale da essere inclusa – nell’ambito del notissimo indice S&P 500 statunitense – nella categoria Information Technology (ove occupa il quarto posto alle spalle di Apple, Microsoft e Nvidia, davanti a PayPal, Adobe, Salesforce, Intel e Cisco), ne vale poco meno di 400, collocandosi fra le top 10 del mondo per livello di capitalizzazione.
Pagamenti digitali: gli eventi da seguire per comprendere la trasformazione
La nascita del suo primo “campione digitale” di respiro europeo, su cui punta il nostro Paese (così povero purtroppo ormai di imprese significative per dimensioni e valore), si colloca in un contesto di grande fermento del sistema dei pagamenti in tutto il mondo. Almeno tre sono gli eventi dei primi giorni di novembre che meritano attenzione, perché a mio avviso – nella loro diversità – danno un’idea della complessità della trasformazione in atto. Li citerò, per poi entrare successivamente in un maggiore dettaglio, in ordine decrescente di rilevanza:
- le autorità cinesi di regolamentazione hanno bloccato, con un intervento a gamba tesa a due giorni dal lancio, quello che era destinato a essere il più grande IPO di tutti i tempi (37 miliardi di dollari l’introito atteso): la quotazione di Ant, lo spin-off di Alibaba (che ne detiene tuttora un terzo delle azioni) nato con Alipay e poi estesosi ad altri ambiti finanziari, proiettato verso una capitalizzazione superiore ai 300 miliardi di dollari;
- il DoJ-Department of Justice statunitense ha aperto una procedura antitrust per bloccare l’acquisizione da parte di Visa – per 5,3 miliardi di dollari – di Plaid, una fintech con un business model innovativo nell’ambito dei pagamenti account-to account;
- il FSB-Financial Stability Board, l’organismo formato da rappresentanti delle autorità finanziarie dei principali Paesi del mondo, impressionato dallo scandalo Wirecard (la fintech dei pagamenti tedesca pesantemente fallita dopo essere riuscita per un lungo periodo a ingannare le autorità di controllo), ha evidenziato – nella prospettiva di concordare future misure di salvaguardia – i rischi per la stabilità del sistema bancario internazionale di una eccessiva concentrazione delle fintech che erogano in outsourcing servizi (sempre più indispensabili) alle banche stesse.
L’IPO di Ant bloccato dalle autorità cinesi
“How Jack Ma lost his spot at China’s business top table – Regulators and rivals have been lobbying against Ant Group’s growing dominance in payments and lending for some time”, titolava un suo articolo il Financial Times il 6 novembre, offrendo una interpretazione a largo spettro delle ragioni che hanno portato a una mossa così drastica, inconsueta e ad altissima visibilità. La motivazione principale – condivisa da molti altri analisti e corroborata dal fatto che sembra sia stato lo stesso Xi Jinping a ordinare di staccare la spina – appare essere l’eccessivo potere raggiunto da Jack Ma, creatore di Alibaba e ora a capo di Ant, divenuto intollerabile per il partito comunista cinese. È una motivazione simile, ancorché in un contesto politico molto diverso, a quella che ha portato negli Stati Uniti alla crescente impopolarità bipartisan delle big five, considerate troppo potenti e proiettate verso una inarrestabile espansione (trasversale rispetto all’intera economia), con le accuse di monopolio in Congresso da un lato e con la procedura antitrust contro Alphabet-Google – aperta poco prima delle elezioni dal DoJ – dall’altro.
La seconda motivazione, più tecnica, riguarda il portafoglio strategico di Ant, una fintech che ha utilizzato la sua enorme diffusione nei sistemi di pagamento per aggredire altri comparti finanziari potenzialmente più profittevoli, traendo vantaggio dall’essere classificata come tech e non come fin, e quindi non sottoposta ai pesanti vincoli delle imprese tradizionali operanti nell’ambito bancario-finanziario. In particolare, oltre il 40 per cento dei ricavi di Ant, e presumibilmente una quota più elevata dei profitti, è ora realizzata con CreditTech nell’ambito dei microprestiti: CreditTech non fa prestiti e non si assume rischi creditizi, ma opera come procacciatore d’affari per le banche (di proprietà pubblica) con una remunerazione percentuale, con un posizionamento da alcuni definito parassitario. Con le nuove regole annunciate, in fase di approvazione, le fintech operanti in Cina perdono la loro prerogativa di tech e vengono sottoposte alle regole delle fin: per i microprestiti in particolare viene imposta una condivisione del rischio, con Ant che ad esempio dovrà partecipare ai prestiti per almeno il 30 per cento con capitale da essa stessa raccolto, con un ovvio impatto negativo sulle prospettive di redditività e di crescita e con un conseguente rilevante taglio del suo potenziale valore di Borsa. Accadrà qualcosa di simile anche nel mondo occidentale? Tutt’altro che improbabile, dal momento che sempre più spesso le fintech vengono accusate di trarre il loro differenziale competitivo – o addirittura la loro stessa possibilità di sopravvivenza – dal privilegio di sfuggire alla regolamentazione cui sono sottoposte le imprese tradizionali.
La procedura antitrust contro Visa per bloccarne un’importante acquisizione
Visa non è una big tech, è nata almeno 15 anni prima di Apple e Microsoft e 45 prima di Facebook, ma è la più tech (come accennato) fra le imprese tradizionali ed è una delle 10 imprese a maggiore capitalizzazione al mondo. Per questo è sotto i riflettori antitrust e per questo l’accusa che le viene rivolta, di fare una acquisizione (quella di Plaid) volta a eliminare dalla scena e incorporare un concorrente potenzialmente disruptive per l’innovatività del suo business model, assomiglia molto alle accuse che vengono fatte a Facebook per le acquisizioni ormai storiche di Instagram (2012) e WhatsApp (2014), all’epoca approvate dalle authority antitrust di tutto il mondo. Perché l’acquisizione di Plaid desta sospetti? La tesi del DoJ, ovviamente contestata da Visa, è che la costruzione di una rete bank-linked quale quella in via di implementazione da parte di Plaid, in grado di effettuare i pagamenti attraverso trasferimenti diretti fra conti bancari (in gergo pay-by-bank o account-to-account payments), potrebbe mettere in crisi il ruolo stesso delle carte di credito e la posizione attualmente dominante di imprese come Visa e MasterCard (quinta quest’ultima alle spalle di Visa nella categoria Information Technology dello S&P 500).
Non sono in grado di fornire una mia valutazione sul merito, ma voglio fare una osservazione più generale sulla tendenza a vedere le operazioni di M&A da parte delle grandi imprese nei loro riflessi potenzialmente più negativi. Le ragioni possono essere comprensibili, ma vi è il rischio non piccolo che la interdizione di un insieme così importante di potenziali acquirenti impatti negativamente sulle prospettive del venture capital e si traduca in una minore inclinazione a investire in startup innovative.
Lo scandalo Wirecard e le preoccupazioni del Financial Stability Board
“Wirecard’s success was once regarded in Germany as rivalling that of SAP, a software-maker and the country’s most valuable firm. No longer. On June 18th Wirecard’s auditor for the past decade, EY, said that it could not find €1.9bn, amounting to nearly a quarter of the firm’s balance-sheet. On June 22nd Wirecard admitted that the €1.9bn probably does not exist. The head of BaFin, the financial regulator, was blunt: the accounting scandal at the payment-processing firm is a complete disaster, and a shame for Germany.”
È il racconto che The Economist fa di una vicenda che ricorda quello che accadde nel 2003 con la nostra Parmalat (allora il buco fu addirittura di 14 miliardi), ma che è stata vissuta drammaticamente in Germania perché ha messo in dubbio l’efficacia degli organismi di controllo e ha messo in difficoltà la stessa Angela Merkel, che aveva fatto del lobbying ad alto livello per favorire l’espansione internazionale nel comparto dei pagamenti di Wirecard. Ed è evidente che la vicenda sia suonata come un campanello d’allarme per il FSB, in una fase storica in cui la crescente digitalizzazione della finanza ha spinto molte banche ad avvalersi in outsourcing dei servizi di fintech indipendenti, spesso senza le competenze per una seria valutazione della loro affidabilità: di qui la raccomandazione un po’ generica alle banche, non ancora tradotta in misure concrete, di non servirsi tutte degli stessi (pochi) fornitori, per evitare impatti troppo estesi nel caso di ripetersi di crolli quale quello di Wirecard; di qui l’invito alle banche stesse a ricordare che le loro responsabilità “non si fermano ai cancelli di entrata”, ma si estendono a tutti quei servizi in outsourcing che costituiscono una componente organica delle loro operations.
Conclusioni
In un contesto di continua evoluzione delle tecnologie e delle infrastrutture digitali, di cambiamenti nei nostri stili di vita (crescita dello smart/remote working, crescita dell’ecommerce …) accelerati dalla pandemia ma almeno in parte destinati a diventare strutturali, di digitalizzazione crescente di larga parte delle attività economiche e di aumento continuo del numero di persone collegate permanentemente a Internet in mobilità (la stima è che si sia superata la soglia dei 4 miliardi), è ovvio che il sistema dei pagamenti digitali sia destinato a una forte espansione dei volumi e una variegazione dei business model. È conseguentemente ovvio che esso sia destinato ad attrarre un numero elevato di nuovi entranti, startup o provenienti da altri comparti dell’economia. Ed è altrettanto ovvio che la concorrenza tenderà a diventare sempre più elevata nel prossimo futuro, con una conseguente contrazione dei ricavi per singola transazione che renderà difficile (o impossibile) la vita alle imprese che non avranno una scala molto elevata, se monobusiness, o non riusciranno a sfruttare le sinergie che la presenza nei pagamenti può offrire, se con un portafoglio multibusiness.
Il caso Ant è di notevole interesse dal secondo punto di vista. Ant dispone come visto di una piattaforma estremamente ampia di clienti costruita primariamente con Alipay, il sistema di pagamento di Alibaba. Ma larga parte dei suoi profitti e del suo valore non sono originati direttamente dai pagamenti, bensì dalla presenza in settori come quello dei microcrediti ove la sua forza – nel reperire potenziali clienti per le banche e nel contrattare con le stesse il premio per l’intermediazione – deriva (o meglio derivava prima dell’intervento del regolatore) dalla scala della sua piattaforma.
Indiretto, più che diretto, può parallelamente essere l’interesse delle big tech statunitensi ad accrescere la loro presenza nei pagamenti (che già c’è anche se molto meno rilevante), tipicamente per una conoscenza più approfondita dei loro clienti o per un più facile accesso ad altri comparti bancario-finanziari maggiormente profittevoli: ma è una strada presumibilmente irta di ostacoli, a livello politico e a livello regolatorio.