Cos’è un dizionario? A cosa serve? Chi lo compila? È necessario conoscere la risposta a queste domande, prima di lasciarsi andare a un’indignazione “cieca” in caso di accezioni “offensive”. E, soprattutto, occorre riflettere prima sui nostri costumi linguistici – di cui il vocabolario è uno specchio – e, magari, cambiarli.
Un caso recente, per inquadrare bene la questione, riguarda la pubblicazione, da più parti, della notizia che la petizione iniziata da un’italiana, Maria Beatrice Giovanardi, per cambiare in senso meno sessista alcune voci dell’Oxford English Dictionary, con particolare riguardo alle sinonimie e agli esempi d’uso del termine “donna”, è andata in porto: i sottoscrittori hanno vinto e il dizionario ha modificato, almeno in parte, i correlati del lemma. Per chi fosse interessato, questa era la lettera aperta scritta da Giovanardi e molte altre persone a marzo 2020; la notizia degli ultimi giorni è circolata sui media italiani ed è, chiaramente, stata trattata anche da quelli britannici (consiglio di leggere entrambi gli articoli, perché è utile per cogliere diverse sfaccettature della questione).
Successivamente, negli ultimi giorni, varie persone mi hanno segnalato “nuvole” di sinonimi non troppo diverse da quelle del cugino inglese anche in dizionari (online e offline) nostrani. Infine, un amico mi ha messo al corrente di una discussione riguardante una testimonianza pubblicata all’interno del progetto del Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo (a cura di un gruppo di ricercatrici e ricercatori dell’Accademia della Crusca) per il verbo “rizzarsi“, nella quale compaiono riferimenti decisamente poco ortodossi all’omosessualità maschile.
Le segnalazioni che mi sono giunte sono spesso accompagnate da smarrimento, talvolta indignazione e sconcerto. Proprio queste reazioni mi spingono a fare tre precisazioni per chiarire a cosa servano determinati strumenti linguistici e cosa si possa o non si possa fare per modificarli o migliorarli.
Che cosa fanno i dizionari
I vocabolari dell’uso, cioè quelli che descrivono la lingua che usiamo oggi, detti anche sincronici, hanno lo scopo di “fotografare” lo stato di un idioma in un dato momento. Dovendo rispecchiare nella maniera più fedele possibile la realtà linguistica a cui si riferiscono, essi contengono anche le “parole brutte”, quelle offensive, quelle che nel 99% dei casi non bisognerebbe mai usare (ma che evidentemente sono usate). Normalmente, in questi casi il vocabolario inserisce una sorta di avvertimento: il lemma o l’accezione vengono classificati come “volgare”, “dispregiativo”, “epiteto” o altro. In altre parole, l’opera ne testimonia l’esistenza e la circolazione, ma mette in guardia chi consulta la voce sul fatto che occorre stare attenti nell’usarla, o che il suo uso può avere conseguenze sgradevoli.
Tutto questo significa una cosa: per parafrasare Tullio De Mauro, il vocabolario non elenca le parole che si devono usare, o quelle giuste, ma tutte quelle che vengono usate dalla comunità dei parlanti e che si possono usare, chiaramente alla bisogna. Non censura, non omette nulla, o quasi (generalmente, i vocabolari sincronici non contengono le bestemmie); al massimo, indica che non è il caso di usare un determinato termine con leggerezza.
Dunque, il dizionario descrive, non prescrive. E di conseguenza, è più l’uso che facciamo della nostra lingua a influire sui dizionari piuttosto che il contrario.
Chi compila i dizionari e come
Le imprese lessicografiche, cioè le case editrici che pubblicano dizionari, lavorano su grandi raccolte di testi di ogni genere, chiamati “corpora“, che sono rappresentativi per la lingua che il dizionario va a descrivere, cioè così grandi che riescono a rispecchiare l’uso reale di quella lingua da parte dei parlanti. Da questi corpora, vengono estratti con metodi statistici i lemmi che rispondono a una serie di criteri (tra questi, il numero di occorrenze, cioè quante volte un dato termine è stato usato, la stabilità nell’uso, cioè la persistenza nel tempo, e l’ampiezza dei contesti in cui viene impiegato). Questo serve per individuare il lemmario, cioè l’insieme dei termini contenuti nel dizionario. Nel preparare le liste dei sinonimi di ogni lemma si controllano poi altri dati, per esempio in quanti contesti una data parola è stata usata al posto di un’altra con cui, magari, c’è una parziale sovrapposizione di significato.
Per esempio, pensiamo a quanto spesso si usa l’espressione “la mia donna” per indicare una compagna, fidanzata o moglie. Questo vuol dire che un pezzettino del termine “donna” è sinonimo di “compagna, fidanzata, moglie”. Chiaramente, la sovrapposizione non è perfetta, sono come due cerchi che si intersecano per una piccola parte. Ma il dizionario lo può riportare perché effettivamente, per quanto possa essere brutto, sessista, antipatico, segno di una visione patriarcale, l’espressione “la mia donna” è in uso per indicare la propria compagna, fidanzata o moglie. In questo specifico caso, l’Oxford English Dictionary ha sostituito la parafrasi “a man’s wife, girlfriend or lover” (la moglie, fidanzata o amante di un uomo) con “a person’s wife, girlfriend or female lover” (la moglie, fidanzata o amante di una persona), in modo da includere, nella definizione, anche rapporti non eterosessuali: ottimo!
Insomma, il grosso del contenuto dei dizionari è dovuto a criteri statistici, non a scelte effettuate dagli esseri umani, ma poi le persone ci mettono il loro (sacrosanto) zampino. A questo punto va aggiunto un altro elemento: i vocabolari sono oggetti fortemente stratificati nel tempo; non si riparte mai da zero, ma si continua a intervenire su materiale lessicografico anche molto vecchio, costruendo sull’esistente. Questo vuol dire che anche un dizionario molto moderno e molto aggiornato può contenere, qua e là, pezzi di testo, definizioni, nuvole sinonimiche magari datate. Soprattutto in passato, poi, tra i compilatori dei vocabolari c’era sicuramente una netta prevalenza maschile (non saprei dire adesso) e quindi è possibile che qua e là spuntino elementi che rispecchiano ancora una visione tradizionalista, se non maschilista o patriarcale, della società. Dunque, dobbiamo fare i conti con la concreta possibilità che non tutto sia “come lo vorremmo”, in un dizionario. Almeno, non ancora. La lingua e la società cambiano incessantemente, e per quanto un dizionario possa essere veloce nel recepire le modifiche, sarà sempre “alla rincorsa” di mutamenti spesso assai veloci. Per questo il vocabolario rispecchia, sì, il nostro presente linguistico, ma con un inevitabile ritardo, più o meno piccolo o più o meno grande.
Cosa fare, allora?
È giusto, quindi, segnalare che un’accezione è offensiva o che “donna” e “puttana” non sono sinonimi? In linea di massima sì, ma con un distinguo che ritengo importante. Prima di indignarsi, occorrerebbe avere ben chiaro cosa si fa nelle officine lessicografiche.
Il vocabolario non è mai finito, concluso, perfetto. Per sua stessa natura, siccome deve dar conto di un oggetto in perenne mutamento com’è la nostra lingua, sarà sempre perfettibile. Ogni giorno, chi lavora sul dizionario cerca, corregge, migliora, modifica, mette a fuoco, cancella, inserisce cose. Ma i dizionari sono mastodontici: lo Zingarelli, per fare l’esempio a me più vicino, dato che collaboro con la casa editrice Zanichelli, contiene all’incirca 145.000 lemmi (e molto, molto altro; e non è nemmeno il vocabolario più “grosso” dell’italiano): un’opera di queste dimensioni contiene sempre qualcosa da modificare, perfezionare e rivedere, e infatti la revisione è incessante. Per quanto il processo sia in parte automatizzato, molta parte di questo finissimo lavoro di revisione viene eseguita dalle persone; e le persone, si sa, hanno sensibilità e attenzioni differenti.
Tutto questo per dire, fondamentalmente, una cosa: penso che sia giusto segnalare se qualcosa “non ci torna”, in un dizionario (posto di aver verificato che si stia consultando un’ultima edizione, perché non ha molto senso indignarsi su cosa contenesse un vocabolario di cinquanta – o quattrocento – anni fa , dato che da allora di cambiamenti sociali, culturali e di conseguenza linguistici ce ne sono stati tantissimi) o in qualche altro repertorio lessicografico. Invito però a non lasciarsi andare all’indignazione cieca: non serve a molto ed è spesso anche direzionata male, perché se un’accezione è sessista, se un esempio d’uso è lesivo di qualcuno, spesso la colpa è più di noi “utenti della lingua” che non dei vocabolari che, semplicemente, registrano i nostri costumi linguistici nella maniera più neutra possibile.
Ma le segnalazioni, quando date costruttivamente, servono: recentemente, una persona su Twitter ha segnalato alla Zanichelli che nel suo vocabolario russo, tra gli esempi d’uso del verbo “picchiare”, compare la frase d’esempio “picchiare la gatta”. Chissà a quando risale, questo esempio, chissà a quante revisioni è sfuggito; sicuramente non rispecchia l’attuale attitudine nei confronti degli animali, e proprio per questo la redazione ha preso in carico la segnalazione e molto probabilmente, dalla prossima edizione del vocabolario, la frase sarà sostituita da qualcosa di più consono alle sensibilità del presente.
Insomma, segnalare sì, ma senza organizzare spedizioni punitive (sull’odio dei giusti e sul fatto che non sia utile ho già scritto in precedenza) e ricordando che più che emendare il vocabolario da ogni bruttura (facevo caso, qualche tempo fa, che il dizionario registra anche frocio, giusto per fare un esempio particolarmente icastico), siamo noi parlanti a dover modificare i nostri costumi linguistici; il dizionario si adeguerà di conseguenza.
Con particolare riferimento alle questioni di genere dobbiamo considerare che sono in atto mutamenti molto veloci; è giusto quindi, rilevare quando qualcosa non ci pare giusto, ma ricordandoci che anche nelle redazioni dei vocabolari siedono persone come noi, non semidèi onniscienti. Il “politicamente corretto”, al di là delle varie mistificazioni sensazionalistiche, è una cosa seria; le sue derive, invece, sono a mio avviso malsane: lo notava Loredana Lipperini qualche tempo fa sul suo blog parlando della “letteratura pulitina”, emendata da ogni sozzura (ovviamente, sono d’accordo con Lipperini che la letteratura ha diritto alla massima libertà espressiva, anche a essere ripugnante e disdicevole), lo rimarco io adesso rispetto agli strumenti di ricerca linguistica. La quale ricerca, nei limiti del lecito, deve essere per quanto possibile libera di studiare tutto e di relazionare su tutto, chiaramente nella maniera più corretta e prestando attenzione alle varie sensibilità. In questo, sto adottando le stesse precauzioni che descrive il linguista Federico Faloppa nell’introduzione al suo libro #Odio. Manuale di resistenza contro la violenza delle parole: l’autore ha scelto di non censurare le offese perché a suo avviso (e anche a mio avviso) è corretto – e anche pedagogico – documentarle in tutta la loro violenza; tuttavia, negli eventi dal vivo o negli articoli di carattere divulgativo, lo studioso evita di pronunciare e di scrivere quelle stesse parole offensive perché di questo, invece, non c’è vera necessità: non sottovalutiamo le (micro)aggressioni a cui sono spesso sottoposte parti della nostra società.
Conclusioni
Tornando per un secondo al Vocabolario del Fiorentino Contemporaneo, come spiegato nella pagina di presentazione del progetto, «La prospettiva prima di tutto documentaria della ricerca ha privilegiato la selezione di informatori dalle caratteristiche “conservative”, evidenziabili nell’età avanzata (che ha avuto in genere per correlato una prevalente estrazione socioculturale medio-bassa) e nel radicamento all’interno dell’area indagata. La sede delle interviste è stata varia: centri di ritrovo, specificatamente per anziani (S. Frediano) o meno (la Società di Mutuo Soccorso di Rifredi); abitazioni private (S. Croce)». In altri termini, le parole riportate nelle schede corrispondono a quanto detto, durante gli incontri, dagli intervistati. Dato che lo scopo del progetto è quello di documentare l’uso vivo del fiorentino, le “voci” degli informatori non sono state censurate. Il fatto, quindi, che vengano citate nell’opera devono farci riflettere su quanto ancora la nostra società debba fare nell’ambito della convivenza delle unicità, piuttosto che indurci a gridare allo scandalo nei confronti di uno strumento linguistico che si è dato specificamente lo scopo di documentare una realtà linguistica a rischio di sparire.